Autore:
La sposa di Ade (sia su EFP che sul forum)
Titolo storia: Frozen Wood
Introduzione: Una ragazza che scopre di non essere quello che ha
sempre creduto; una fanciulla dal cuore tenero si rivela essere
un’ arma di
sterminio vivente per una guerra già terminata, senza veri
genitori e senza più
nulla in cui credere viene protetta da un salvatore che incarna la
morte. La
loro sarà una profonda caduta nell’ inferno che
è dentro ognuno di noi.
Genere: Fantasy (Angst)
Rating: Arancione
Avvertimenti: /
Coppia: /
Canzone: The
Pretty Reckless - Under The Water
Immagine: http://i50.tinypic.com/2j4raww.jpg
Citazione: “Scopriamo
un fascino nelle cose ripugnanti, ogni giorno d'un passo, nel fetore
delle
tenebre, scendiamo verso l'inferno, senza orrore.”
-- Charles Baudelaire dal libro "I
fiori del male"
Note:
Qualche
cosina da dire riguardo tutto. Innanzitutto; la citazione di Baudelaire
non
‘appare’ nella storia come alcune parti della
canzone che ho scelto (fantastica
tra l’ altro, mi fa venire voglia di vedere il mondo bruciare
*-*), funge più
che altro da sfondo; un po’ come un riassunto di tutto quello
che accade che
può essere rappresentato, più o meno, come una
discesa nell’inferno, una serie
di eventi che peggiora di volta in volta, senza possibilità
di salvezza, oppure
fare una scelta terribile a cuor leggero. Qualcosa di simile insomma.
Inizialmente ero molto indecisa sulla scelta dell’ immagine;
o
quella della ragazza in cui si mostra per quello che è,
oppure in una foto che
rimane sempre come punto di riferimento, di inizio e di fine (link
sopra). Solo
alla fine sono riuscita a decidermi e riguardo a questo; forse averi
potuto
trovare altre immagini con lo stesso tema piuttosto facilmente,
però il modo in
cui è così poco nitida rende l’
immagine simile a quella poco chiara di un
sogno, e me ne sono innamorata praticamente subito, vedendola come
parte della
storia. (questa è l’ altra http://i47.tinypic.com/2gwg8oz.jpg
).
Questa storia farà parte di una serie di storie tutte
collegate,
con personaggi strani (alcuni magari un po’ Steampunk oltre
che estremamente
Fantasy) ma dalle vite intrecciate. E ovviamente la mia
originalità nei nomi
non viene a mancare; uno che apparirà verso la fine di
questo primo capitolo ha
il nome di una band trash-metal che sto tentando di farmi
piacere…
Non so quanto mi ci potrà volere per portare a termine
questo
progetto, visto che non è l’ unico, ma almeno
questo storia è pronta.
La finisco qui, che altrimenti scrivo un papiro. Grazie a Dominil
B per la pazienza; sono riuscita a consegnare all’ ultimo
momento ^^”
1. Il
sole dell’ inverno e la figlia di
Belial.
“Excuse me sir, am I your daughter?
Won't you take me back, take me back and see?
There's not a time, for being younger
And all my friends, are enemies
And if I cried unto my mother
No she wasn't there, she wasn't there for me”
Il
sole splendeva alto nel cielo invernale, attraversando le fronde degli
alberi e
raggiungendo la piccola casa di legno in cui una coppia di anziani
stava
riposando.
“Il
legno sta finendo.”
“Me
ne sono accorto.”
“Allora
dovresti andare a spaccare la legna prima che mi venga voglia di usare
quello
della casa.” La voce della vecchia era calda come il foco che
ardeva nel
caminetto, aveva ancora quella traccia di gioventù alla
quale tentava sempre di
non rinunciare, eppure la vecchiaia la costringeva troppo spesso a
passare la
giornata intera sulla consunta sedia a dondolo davanti al fuoco.
“Ho
capito, ho capito.” L’anziano si alzò,
raccogliendo il giaccone pesante e l’ascia,
uscì sbuffando e s’incamminò nella
foresta. La schiena gli doleva a ogni passo
e si chiese quanta legna sarebbe riuscito a tagliare e a riportare a
casa;
difficilmente sarebbe riuscito a portarne più della volta
scorsa, e
difficilmente sarebbe riuscito a fare più di un viaggio.
Raggiunse
il ceppo su cui era solito tagliare i pezzi di legna e si accorse che
su quella
superficie liscia c’era già qualcosa che emetteva
un flebile suono, un lamento.
Si avvicinò lentamente, socchiudendo gli occhi stanchi a
causa della forte,
seppur fredda, luce del sole. Lasciò cadere
l’ascia e allungò le mani verso
quel fagotto di stoffa scura, due manine piccole e paffute si
allungarono verso
di lui come un invito che lui accettò. Prese il fagotto tra
le braccia
osservando rapito il volto tondo della piccola, non gli importava delle
piccole
ciocche di capelli blu che spuntavano dalla sua nuca, o dell’
intenso rosso
delle sue pupille, quella era la figlia che non avevano mai avuto.
Un
nuovo inverno si abbatté su quel piccolo villaggio, neve e
vento imperversavano
contro case e abitanti che temerari tentavano di resistere al freddo.
Una sola
figura incappucciata e coperta da pesanti abiti sembrava riuscire a
mantenere
un passo veloce anche dentro i cumuli di neve. Aveva già
visto la bancarella
che doveva raggiungere per comprare la cena.
Quando
la raggiunse, la grossa donna stava già mettendo via le
verdure, decisa a
tornare al caldo rassicurante della sua casa.
“Mi
scusi.” Nonostante la sicurezza con cui avanzava nel freddo,
la sua voce
tremava.
La
donna alza appena lo sguardo. “Se vuoi qualcosa lo metto a
metà prezzo proprio
perché me ne sto andando.” Disse la donna tornando
al suo lavoro.
“Prendo
due pomodori e alcune cipolle. Grazie.” Detto questo, prese
gli ortaggi e
infilò la mano in tasca estraendo poi alcune monete
d’oro che porse subito alla
donna che finalmente si degnò di osservare il suo viso; il
suo sguardo ignorò
il grande sorriso per posarsi rapito e spaventato sul colore delle
pupille, di
un rosso intenso come il sangue. Non allungò la mano per
prendere le monete,
semplicemente, fece dei passi indietro e si mise a urlare a quella
giovane
fanciulla di allontanarsi da lei e di non farsi più vedere,
perché tutti, in
quel villaggio, avevano paura di lei, dei suoi occhi e di
ciò che era cresciuto
sulla sua schiena. Le poche persone rimastre fuori si voltarono a
osservare
quella scena, sussurrando parole di scherno con tono spaventato e
disgustato.
Corse
a casa, con la neve che si attaccava ai vestiti e li rendeva gelidi,
con il
vento che ora trasportava pesanti fiocchi di neve e le faceva lacrimare
gli
occhi.
Entrò
in casa sbattendo la porta e lasciando cadere a terra la spesa, rimase
poi per
qualche istante a fissarsi i piedi e gli ortaggi sparsi lì
intorno, nel
tentativo di calmare il respiro affannoso. Chiuse gli occhi scarlatti e
si
strinse nelle braccia, come se si trovasse ancora fuori al freddo.
Arrivò a
toccarsi la schiena, così come aveva fatto pochi anni prima,
in quello stesso
bosco, mentre tornava a casa con il suo cesto di frutti appena
raccolti; aveva
sentito un brezza ghiacciata, troppo fredda per quella stagione,
accarezzarle
le spalle e il gelo aumentare sempre di più, era diventato
presto dolore che si
amplificava di secondo in secondo fino a farle provare un senso di
smarrimento
e nausea che la fece urlare e piegare in due. Non ricordava quanto
tempo aveva
passato in quella condizione piangendo e urlando per il dolore della
carne
della sua schiena che si lacerava, ma quando i suoi genitori
l’avevano trovata
lei ormai era qualcosa di inumano. Qualcosa che la gente del villaggio
aveva
iniziato a chiamare Gear e che aveva imparato ad evitare.
Cos’erano
i Gear? Semplici ingranaggi, armi di distruzione di massa vivente,
soldati sul
campo di battaglia di una guerra ormai finita, umani artificiali.
Un
paio di mani callose e segnate da cicatrici strappò un
manifesto appeso al
muro, sogghignando appena alla vista della cifra da cinque zeri scritta
sopra
un accurato ritratto fatto a matita del volto di una ragazzina; capelli
scuri e
una tonalità particolare degli occhi. Nessun nome era
scritto al di sotto,
semplicemente ‘Gear’.
Entrò
nella solita taverna, sicuro di trovarci i suoi compagni. Si sedette al
solito
tavolo e ordinò la solita birra dopo aver salutato gli altri
cacciatori.
“Allora,
qualcosa di nuovo?” Disse quello con una scura benda
sull’occhio sinistro.
In
risposta tirò fuori il manifesto lasciandolo a volteggiare
dolcemente sul
tavolo prima di posarsi sul legno umido.
“Una
ragazzina?” Fece uno con la barba incolta e la testa rasata
su cui era messa in
bella mostra una grossa cicatrice. Il suo tono era indignato, era
solito
cacciare grossi ricercati e strappare dai muri i manifesti con il
proprio volto
sopra.
“Un
Gear. Non sapevo ce ne fossero ancora in giro.”
Inarcò le sopracciglia, tra le
quali si formò una ruga di preoccupazione.
“Non
scherzare, non può essere un Gear. La loro guerra
è finita e con essa anche
loro. Se non sono morti in battaglia sono stati eliminati dal loro
stesso
creatore.” Ribatté quello con la benda
sull’occhio.
“Come
fai a dirlo?” Quello con la cicatrice sulla nuca strinse con
forza il manico
del boccale di birra, per l’irritazione che tutte le volte
gli faceva provare
contraddicendolo.
“Ho
le mie fonti, so che è stato fatto come un gesto di
umanità verso di noi e
verso loro stessi. Quelli che scappano o chissà come si
ritrovano in rarissime
situazioni come queste…” Indicò il
manifesto. “Vengono braccati e vengono
affisse taglie. O almeno, questo è quello che ne so
io.” Lo
sfregiato rispose con uno sbuffo.
“Eppure
gente, vi assicuro che questa graziosa donzella è quello che
il manifesto dice.
Dovreste vederla.” L’ultimo arrivato, sorrise
osservando i suoi due compagni
che ne stava studiando il candore di quel viso impresso sulla carta
ingiallita.
“Allora,
se è davvero quello che dici ci faremo solo
ammazzare.” Sbatté sul tavolo il
boccale vuoto per dare enfasi alla frase.
“Ehi,
è solo una ragazzina, neanche lei sa di essere un Gear. E
poi…” Si allungò sul
tavolo per indicare una scritta più piccola a lato del
manifesto. “Viva o
morta.” Quella era sempre una buona cosa per i cacciatori.
La
casa era fredda e terribilmente vuota. In un primo momento si era
accorta di
essere l’unica tra quelle quattro mura eppure in quegli
istanti non era
riuscita a preoccuparsene, né a farsi le giuste domande sul
perché la coppia di
anziani che si prendeva cura di lei da sempre non fosse in casa con un
clima
freddo come quello.
Si
chinò e raccolse le verdure ancora a terra posandole
distrattamente sul tavolo
davanti a lei; poi iniziò a girare per la casa,
irrigidendosi e guardando
altrove quando passava davanti agli specchi. Aveva guardato in tutte le
stanze
eppure non erano da nessuna parte e all’improvviso dentro di
lei riaffiorò la
stessa sensazione che aveva provato pochi anni prima nella foresta; si
sentiva
smarrita, senza niente a cui aggrapparsi.
Un
lamento, una porta che sbatte, una corrente fredda che le avvolse le
caviglie.
La
porta sul retro era ora aperta e lei si stava precipitando verso di
essa e
verso ciò che ne era appena uscito.
La
neve la colpì in faccia, bruciandole la pelle per il freddo
e lacrimare gli
occhi per il vento. Abbassò lo sguardo, diverse paia di orme
rompevano il manto
altrimenti perfetto della neve, si mise a correre a testa bassa, senza
distogliere
mai lo sguardo dalla sua pista, affondava nella neve quasi fino a
metà
polpaccio, fino a che non iniziò a sentire delle voci sopra
al ruggito del
vento, allora si fermò, troppo tardi però,
perché ormai il gruppo di cacciatori
l’avevano vista.
Un
coro di risate si sollevò e raggiunse le sue orecchie.
“È
stato facile, visto?” Fece uno con una benda
sull’occhio, stringendo la presa
sul collo dell’anziana signora che quasi si appoggiava a lui,
mentre gli occhi
sembravano farsi sempre più pesanti e la coscienza sempre
più lontana per via
del freddo penetrante. La ragazza rimase paralizzata quando un coltello
sporco
di sangue fresco si avvicinò alla sua gola rugosa.
L’altro, quello con la nuca
pelata che metteva in risalto una grossa cicatrice, era assorto a
osservare con
sguardo lascivo il corpo della ragazza fasciato dal capotto pesante.
“Sonya!”
La vecchia sembrò non accorgersi della sua voce. Il
cacciatore sorrise, quasi
ignorandola. “Che cosa volete? Lasciatela andare!”
Fece alcuni passi avanti.
“Sono
curioso di sapere cosa c’è sotto quel
cappotto.” Fece quello sfregiato,
sogghignando appena, spostando lo sguardo su qualcosa alle spalle della
ragazza. Lei non fece in tempo a voltarsi che qualcosa di estremamente
duro e
pesante di abbatté sulla sua nuca, facendola cadere nella
fredda neve. L’ultima
immagine che vide fu quella del corpo di Sonya che crollava a terra,
accanto ad
un altro corpo accasciato a terra, lasciando nell’aria dietro
di sé una scia
rossa di sangue e macchiando il candore della neve.
Un
corvo gracchiò in lontananza.
Belial,
(Beliar, Bheliar): Nella religione ebraica e il
Diavolo, senza padrone, viltà della terra, Signore
dell'Orgoglio.
Ovviamente il riferimento è per puro sfizio.