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Autore: AriiiC_    18/03/2013    2 recensioni
Finnick Odair aveva quattordici anni, un bel visetto e tanta paura.
Voleva solo tornare nel suo Distretto Quattro sano e salvo.
Non uccidere.
Finnick avrebbe voluto solo un altro giorno per giocare con Tess nella grande villa sul mare degli Odair. Avrebbe speso un po' del tempo per un'ultima nuotata o una notte sulla spiaggia. Avrebbe costruito una rete e portato a casa la cena come faceva di solito. Avrebbe solo voluto che uno di quegli armadi in prima fila gridasse "Mi offro volontario!", come ogni anno. Ma nessuno lo fece, e Finnick rimase in piedi su quel palco, calcolando quante probabilità avesse di tornare.
Poi, Finnick pianse.
Perchè Finnick era solo un bambino che aveva paura.
[Dal secondo capitolo]
Finnick non aveva scampo, non più.
Finnick aveva voglia di scappare, di correre.
Finnick aveva voglia di urlare al mondo che tutto ciò era ingiusto.
Finnick li voleva condannare.
Finnick voleva essere a casa; voleva morire per tornare vicino al mare in una cassa di legno sporca.
Ma Finnick non si mosse: semplicemente, tacque.
Assaporò ogni respiro preparandosi a quella che sarebbe potuta diventare la fine.
E che gli Hunger Games abbiano inizio, caro Finnick Odair.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Finnick Odair
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Chapter thirteen:
  The pariah.







 La bionda fu la prima a destarsi: in uno stato di dormiveglia semipermanente uscì dal suo sacco a pelo barcollante. Spettava a lei il secondo turno di guardia. Il sole ancora non si faceva vedere all’orizzonte, mentre i suoi piedi di piantarono a terra instabili e mosse incerti passi verso il punto in cui il giovane compagno avrebbe dovuto sorvegliare l’arena.
 Non lo trovò.
 Fece più volte il giro del Corno d’Oro, ma Finnick non c’era.
 Era sparito.
 Il buio spettrale rendeva il tutto più simile ad un film che alla realtà. Alliyah fece tre volte il giro della Cornucopia senza trovare il compagno. Controllò il canale, ma nessun corpo vi galleggiava dentro. I suoi pensieri conversero tutti nello stesso punto: Finnick Odair era morto, e loro non avevano sentito il cannone perché troppo addormentati. Assaporò la sensazione come fosse un muffin, che ad ogni morso ti sazia di più: il suo compagno di Distretto, quello bello da fare invidia al cielo, morto. Senza neppure il bisogno che uno di loro lo uccidesse. Se era stato sfortunato, poi, poteva essere stato dilaniato da un ibrido dinosauro come la sciagurata dell’11. Nella sua mente comparve la visione del corpicino del quattordicenne con la tuta sgualcita, strappata di qua e di là. La gola non tagliata di netto, ma lacerata tanto quanto basta per non riuscire a respirare ma non morire ancora. Gli mancavano diverse dita delle mani e, quelle che non mancavano, non avevano più le unghie. I capelli erano intrisi di rosso, mentre l’unico occhio rimastogli non aveva più pupilla, e il suo azzurro s’era scolorito tanto da ricordare il vetro. Il mastodontico Tirannosauro – perché sì: se Alliyah ha una visione la ha fatta bene – si chinava sul cadavere per recidere una gamba con gli artigli prima di mangiarla. E Finn provava ad urlare, ma non ci riusciva. E Finn iniziava a respirare in modo più affannoso e frettoloso, fino a che non ce la faceva più.
Si sentiva come al cinema. Anche se non c’era mai stata, avrebbe scommesso che la sensazione era più o meno quella.
Oppure come se stesse leggendo un libro – cosa che non aveva mai fatto in vita sua –, quando muore quel personaggio che hai tanto odiato e non vedevi l’ora di toglierti dai piedi.
 Alliyah era così, con quell’espressione di beatitudine di chi s’è perso tra le righe già da un pezzo e ci sono ben poche possibilità che torni indietro. Solo che la sua mente era ancora fissa sul corpo trucidato di quel compagno che tanto odiava. Si maledisse per aver perso la scena ma, pensò, la avrebbero sicuramente inclusa nel filmato sui suoi giochi, e la avrebbe vista una volta vincitrice, con Ceasar accanto che faceva commenti del tipo “quanto era stupido quel quattordicenne senza cervello”.
 In realtà, Alliyah ignorava che, se di una persona si diceva che era stupida, non serviva affatto aggiungere che fosse senza cervello.
 Tutto sembrava quadrare nel suo paradisiaco dipinto dell’orrore, se non fosse stato per un particolare che attirò la sua attenzione: in fondo al canale che delimitava l’isolotto dove lei e gli altri Favoriti avevano passato quei giorni in arena, giaceva un pezzo di stoffa. Non ci pensò due volte, quando si tuffò agilmente in acqua e arrivò a prendere il brandello di tessuto. Mentre lo riportava su, si stupì del suo peso incredibilmente eccessivo per il materiale.
 Sarà colpa dell’acqua, si disse. Ma le bastò uscire dal ruscello per capire che non era così. Si passò una delle robuste mani tra i capelli chiari in modo da scompigliarli un po’ e osservò quello che si trovava davanti: un paracadute argenteo che rifletteva la luce del pallido sole che iniziava a lanciare i suoi raggi sul salice sotto il quale Calypso era morta. Era grosso, troppo per contenere solo cibo o acqua. I suoi occhi azzurri si sgranarono involontariamente. Tutti parlavano di continuo di quanto Mags fosse brava ad arruffianarsi sponsor – ma, a suo modesto parere, Caden lo era molto di più e non le aveva ancora mandato niente perché voleva fare le cose in grande –, ma non aveva mai creduto che lo fosse abbastanza da mandare un’arma nell’arena, dove di armi ce n’erano a bizzeffe.
 E poi, che arma?
 Il suo cervello pensò veloce, i suoi neuroni passarono in rassegna tutte le cose che Finnick Odair sapeva fare ma non aveva ancora fatto da quando erano entrati negli Hunger Games. Sapeva pescare, quindi usare le reti, ma il paracadute era troppo grosso per contenere solo delle corde. Usava bene le fiocine ma, stesso discorso, gliene avrebbe dovute mandare quattro o cinque e – in fondo – erano identiche alle lance: tanto valeva usare quelle!
 La prima volta che ci pensò, le parve irreale. Non poteva stare né in cielo né in terra. Poi prese un po’ le misure: veniva anche lei dal Distretto 4, e ne aveva maneggiati abbastanza da ricordarsi quanto fossero grandi. E pesavano, abbastanza da lacerare le corde che chiudevano il paracadute.
 E tutto le parse chiaro.
 E vide il suo compagno correre via, con l’arma incriminata in spalla senza che nessuno lo seguisse.
 E lo vide ridere di gioia.
 E si sentì stupida, perché, fino a pochi minuti prima, era sicura fosse morto.
 Quando il ragionamento quadrò, niente la trattenne dall’urlare, metà trionfante per l’ammirevole deduzione e metà terrorizzata perché, se davvero era così, erano praticamente spacciati.
 Una sola parola, abbastanza forte da svegliare tutti gli altri Favoriti: «Tridente!»
 Le bestemmie di Junior furono abbastanza colorite da far arrossire le perlacee guance di Kae, appena alzatasi e ancora in dormiveglia. Nessuno di loro si spiegava quel brusco modo per destarli, eppure qualcosa doveva essere successo, se Alliyah era così irrequieta e terrorizzata da prendere Marylin per i capelli pur di farla smettere di dormire. La chioma del Rosso era scompigliata intorno al capo. Diligentemente, prese il codino portafortuna che teneva intorno al polso destro e la legò in una coda, in modo che non desse fastidio. Iniziò a chiedersi cosa potesse voler dire la parola “tridente”, ma attese a parlare. Prima cercò di raccogliere tutta la calma che possedeva per non urlare addosso alla prima alleata che gli capitava davanti. Respirò profondamente, osservando i visi che si trovava davanti: un’albina, un gorilla, una bionda inquietantemente sveglia nonostante fino a pochi secondi prima non lo era.
 Si sentì come se mancasse qualcuno, qualcuno importante…
 «Dov’è Odair?» chiese sbadigliando col tono più piatto che il suo repertorio poteva offrire.
 A quella domanda, Alliyah sbottò.
 «Se n’è andato! – strillò. – Quel piccolo ingrato se n’è andato!»
 A sentir quelle parole, tutta la sicurezza di Kae crollò. Perché era scappato? Perché di notte? E, soprattutto, perché non le aveva chiesto di andare con lui? Si sentì come spezzata, come un vaso che cade e non ha nessuno con la voglia e la colla per rimetterlo insieme. Le lacrime le salirono in gola, e minacciavano di uscire.
 Solo una parola sgorgò dalle sue labbra: «Perché?»
 Eppure, non era neanche lontanamente sufficiente a riassumere le sue emozioni. Si sentiva tradita, ferita nel profondo di un cuore che non aveva mai subìto colpi tali. Provò a giustificarlo, dicendosi e ripetendosi che Finnick aveva avuto le sue buone ragioni, che, se l’aveva abbandonata, era stato per il suo bene. Ma nulla resse quando la risposta della diciassettenne del 4 arrivò: «Gli hanno mandato un tridente, gli sponsor…  e ha tagliato la corda.»
 A Junior bastò un solo sguardo verso la compagna per capire che tutta quella situazione stava diventando più seria del previsto. Sapeva fin da troppo tempo che il Figlio del Mare le avrebbe fatto male, ma solo ora si rendeva conto concretamente di quanto gliene avesse fatto davvero. Non gli era mai capitato di vederla in quelle condizioni, combattendo contro i singhiozzi che iniziavano a diventare incontrollabili. Dalla prima volta in cui l’aveva vista, lei era stata per lui la personificazione dell’autorità, della forza, era stata una di quelle persone che passano sopra ogni cosa e non cedono mai. Ma ora si stava spezzando, come farebbe anche un baobab dopo troppe tempeste: arriva l’ennesimo fulmine e il tutto diventa troppo da sopportare.
 L’avrebbe voluta abbracciare, stringere forte cancellando ogni cosa presente in quell’arena.
 «Come lo sai?» chiese ad Alliyah, nascondendo le sue emozioni. Non sapeva come l’avrebbe potuta prendere l’Albina, così non fece nulla. L’unica cosa che li legava, erano sfuggenti occhiate di conforto che le cornee arrossate di Kaelea non avrebbero mai colto. Perché lei era assente, distante da quei momenti troppo dolorosi per il suo cuore, già in tempesta. Sapeva benissimo che sarebbe dovuta morire, se voleva che Finnick vincesse – ed eccome, se lo voleva. Soltanto sperava che sarebbero riusciti a passare un paio di giorni insieme, magari senza Junior. Solo Finn e Kae. Con l’unico intoppo che Finn ora non c’era più e la ragazza aveva come la sensazione che non sarebbe tornato a cercarla.
 «Quando mi sono alzata, - spiegò sbrigativa una delle due bionde. – lui non c’era più. Ho perlustrato tutto qui intorno, e per un momento ho anche pensato che fosse morto. Poi, guardando meglio in giro, ho trovato questo.» lanciò in braccio a Mary il paracadute. Se lo rigirò tra le dita, sentendo la sensazione che quella stoffa le regalava sui polpastrelli: era ruvida, ma non abbastanza da fare male. Piacevole al tatto, ma non abbastanza liscia da scivolare via. Era fatta per affondare ma non scivolare tra le foglie di eventuali alberi, facendo così perdere il dono al prescelto.
«E, precisamente, cosa ti fa pensare che ci fosse dentro un tridente?» chiese.
«Veniamo dal Distretto 4, e Finnick pesca da tutta una vita. Uno più uno fa due.»
 Alliyah si stava palesemente pavoneggiando ma, in fondo al cuore, non le importava: era bello essere, per una volta, la prima ad intuire le cose e non l’ultima ad arrivarci. Si sentiva come la prima della classe a scuola – cosa che non era mai stata.
 «Io non ci credo. – proruppe Kae, sforzandosi di non piangere davvero. – Fino a che non ne avrò le prove, non ci crederò mai.»
 La Kae forte era salita a galla nonostante il dolore la volesse trattenere in basso. Si sentiva come se stesse annegando, ma le sue gambe si muovevano rapide verso la superficie del suo lago di lacrime. Si era sentita così una volta sola in tutta la vita: alla sua quarta mietitura, quando era stato estratto il suo nome, e Junior era salito sul palco.
 
 «Sam, Sam, dove vai?» una bimba di dieci anni, i capelli color della neve, guardava una piccolissima Pel di Carota correrle davanti in direzione dell’orfanotrofio in cui abitava. Non voleva tornare nella struttura buia in cui sarebbe stata costretta a passare tutte le notti che la separavano dai diciotto anni. Ma Sam non capiva: lei era libera, lei non aveva il problema di temere il buio ogni sera. Perché buio significava freddo, freddo voleva dire solitudine. E solitudine sangue.
 «Andiamo, Kae, e davvero mi dovresti fare da babysitter? – le rise in viso la piccola di sette anni. – Io sono Indigo!»
 Era facile confondere le due gemelle Abbey, tanto si somigliavano.
 Alle volte, desiderava con tutto il suo cuore di avere una sorella. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, quindi teoricamente la avrebbe anche potuta avere. Fatto stava, che non l’aveva mai conosciuta e – con ogni probabilità – non lo avrebbe mai fatto. Magari la aveva incontrata in giro per le strade del Distretto 1, i loro occhi si erano scontrati senza riconoscersi e la loro vita aveva ripreso il suo corso.
 In fondo, tutti glielo ripetevano costantemente: sua madre era una puttana.
 Le prime volte, s’era chiesta cosa quella parola significasse ma, a furia di sentirsela ripetere, aveva acquistato significato da sola. E, quel significato, tutto era tranne che positivo.
 «E Sam dov’è?» chiese la ragazza in preda al panico. I genitori della rossa erano tra i più facoltosi del Distretto, e l’avevano assunta come babysitter perché – sostanzialmente – gli faceva pena e la volevano aiutare. C’era chi vociferava che conoscevano suo padre, altri pettegolezzi dicevano che era proprio il signor Holden Abbey il genitore della piccola albina. Ma nessuno poteva darne conferma, dato che l’uomo era morto in fabbrica a causa di un malfunzionamento.
 E, con lui, anche la questione fu sepolta.
 «Sam è in Accademia. – Indigo rispose semplicemente, – è con Junior.»
 Kae aveva sempre desiderato andare in Accademia, ma non ci aveva mai messo piede.
 Le sembrò una buona idea sussurrare in modo complice alla piccola: «Allora la andiamo a prendere!»
 Ma non riuscì mai ad arrivare alla struttura, perché Junior e Sam li scontrarono sulla strada. Gli occhi della giovane erano delusi: in fondo, le sarebbe piaciuto visitare quel posto di cui tutti parlavano e in cui tutti i figli di papà del Distretto 1 dovevano – tassativamente – frequentare per un periodo più o meno lungo della loro vita.
E, quando la signora Abbey li raggiunse per riprendere le due figlie, il dodicenne si offrì di riportare l’amica a casa – casa, se l’orfanotrofio poteva essere chiamato in questo modo.
 «Cos’hai?» chiese il ragazzino dagli occhi verdi e i capelli arancio guardandola attentamente. Riusciva a capire tutto di lei, mentre Kae non capiva nulla. Gli voleva bene, certo, e questo la spaventava. Non era mai stata legata a nessuno, e non voleva esserlo.
 «Mi sarebbe piaciuto venire in Accademia, oggi.» rispose sinceramente la piccola.
«Perché?»
Già, Kae, perché?
 «Perché mi piacerebbe essere allenata, riuscire a vincere… – era la prima volta che pensava agli Hunger Games come ad un trampolino di lancio. La prima e ultima. – vincere, riscattarmi… capisci?»
 E Junior capiva, lo faceva davvero. Anche lui aveva deciso di vincere, così, per ridare onore al nome di quella famiglia caduta in rovina quando il capostipite era morto senza ragione.
 «Vinceremo, in anni consecutivi.» le promise, tendendole la mano.
 Kae esitò. Non sapeva se fosse la cosa giusta o meno.
 «Insieme?» domandò ancora insicura.
 «Insieme o niente.» giurò Junior.
 «Insieme o niente.» acconsentì la piccola, intersecando le dita con le sue.
 E si diresse verso il buio edificio mentre lui la guardava.
 «Cosa farai domani?» domandò prima di andarsene del tutto. Si voltò verso di lui, lo osservò a lungo, e lui ricambiò.
 «Domani vado in Accademia.» le disse sorridendo.
 «Allora vengo con te.»
 La porta buia le si chiuse dietro le spalle.
 Ora, aveva un po’ meno paura.
 Dal canto suo, Junior si sentiva meglio: aveva appena fatto una promessa.
 E l’avrebbe mantenuta.
 
 Ci fu un momento in cui nessun Favorito osò muoversi.
 Poi gli occhi verdi di Junior si puntarono in quelli vitrei della compagna, cercando cosa dire. Tacque un paio di secondi, prima che la sua forza di volontà lo portasse a sentenziare, senza alcuna emozione ad incrinare il suo tono di voce:
 «Io vado a cercarlo.»
 «Vengo con te.»



























 Adolf's corner.

 Quanto tempo fa dovevo aggiornare?
 Un mese, un lunghissimo mese fa.
 Vi chiedo perdono, e non voglio giustificarmi. Voglio solo essere fiera di me perchè, nonostante avessi in programma di mollare tutto, sono di nuovo qui, con questo capitolo.
 Mi spiace di avere un preferito in meno e di aver "perso per strada" cinque e anche più recensori, ma prometto di diventare più costante.
 Che dire del capitolo?
 So che non è granchè, ma meglio di nulla. E poi, inizierà a "saziare" gli shipper di Kaenior (Kae/Junior), in attera del momento clue (?) della loro nonlovestory. E no: non ve lo dico se sono davvero fratelli ùù
 Inoltre, ho deciso di dare più spazio ad Alliyah per rendere felici i suoi fan che la vedono sempre trascurata.
 E sì: Alliyah ha dei fan, e io sono una di quelli ùù
 Bèh... non voglio darvi date precise, ma prometto che aggiornerò entro un mese!
 E grazie mille, proprio a te, lettore che è arrivato fin qui, e ha letto anche il mio sclero. E che, anche se non recensisci, continui a supportare la mia mente malata.
 Un bascio♥
 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall♥










 ps. Il titolo, letteralmente, vuol dire "cane bastardo, senza razza" e penso che, in questo momento, Finnick non sia nè carne e nè pesce. Proprio come i bastardini. E poi mi ispirava.

pps. Parlavamo di cani? Bao!♥
  
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