Avevo scritto una canzone per una girl-band (mai sentito parlare delle Little Mix?) appena uscita da X-Factor.
Erano fortissime, con il mio brano avevano vinto, e alla serata finale, quando lo presentammo, fecero faville.
All’inizio la Contessa non aveva molto approvato un featuring in quanto le ragazze erano “leggermente” alternative, ma alla fine per fortuna aveva ceduto.
Dopo il “nostro” successo molti artisti mi chiedevano di comporre per loro, rifiutavo praticamente sempre.
La musica la facevo fine a sè stessa, non mi serviva un pubblico, il fatto che avessi bisogno di esprimere i miei sentimenti attraverso le corde vocali non implicava il lavorare per gli altri che poi si sarebbero presi (e tenuti) tutto il merito.
Proprio non mi andava.
Avevo iniziato a raccogliere i fogli su cui componevo in un quaderno ad anelli rosso, che custodivo gelosamente nascosto nel doppio fondo del comodino; non mi limitavo più a qualche accordo che accompagnava delle frasi depresse, ma riuscivo ad inventare interi testi con delle melodie più che orecchiabili.
Tra le altre cose, la zia mi mandava a lezione di piano: insisteva nel dire che “una signorina per bene deve saper suonare al pianoforte musica da camera” e non “quel suono orripilante che producono le corde di quella chitarra orribile".
Quella fottuta chitarra valeva migliaia di sterline.
Era un regalo di compleanno di molti anni prima.
Anche secondo miss Swan non era adatta ad una ragazza che doveva mantenere un’immagine così pura e casta, se solo avesse saputo quanto ero ribelle.
Andavo da lei tre volte a settimana, dalle quattro alle sei, facendo (ovviamente!) una pausa alle cinque per il tè.
Gli spartiti che mi assegnava erano principalmente classici di Beethoven o Mozart opportunamente semplificati, controllava anche la postura quando sedevo, pretendeva che alzassi il mignolo mentre tenevo in mano la tazzina ed esigeva che fossi disciplinata come una studentessa di una scuola privata.
Avrei voluto dirle che ero grande abbastanza da non dover farmi insegnare le buone maniere.
Dopo tre mesi mi esibii alla Royal Ballet Accademy, accompagnavo l’orchestra in Giselle con un piano a coda, la camicia bianca abbottonata fino al collo e la gonna sotto al ginocchio.
Odiavo vestirmi così, in questo senso mi mancava la vita di prima.
Avevo promesso ai miei che avrei smesso di diventare Cecilia, anche se molto spesso entravo in camera di Emily e indossavo i vestiti che non aveva portato con sè.
T-Shirt, jeans, tutto andava bene, purché non si trattasse di qualcosa che richiedeva l’uso dei collant.
Vestita così scendevo in città e passavo il tempo, quando non ero dalla Jenkins o dalla Swan, al St. James nel reparto pediatrico.
Adoravo i bambini, e vederli così sofferenti mi faceva stare male.
Con la chitarra improvvisavo qualcosa, leggevo loro delle storie e cantavamo insieme.
A volte qualche visitatore molto educatamente mi fermava per un autografo, mi piaceva vederli felici con il loro foglietto firmato in mano, ma non mi davano tanta soddisfazione quanto gli occhi sorridenti di quei bimbi.
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Capitolo di passaggio!
Nulla di importante, apparte le Litlle Mix!
Ed il quaderno rosso.
E il volontariato.
Sì insomma, diciamo che anche lui ha la sua importanza.
_Nightingale