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Autore: Maiwe    18/03/2013    11 recensioni
La storia di Thranduil e Legolas, dalla loro fuga dal Doriath alla IV Era.
Una mia visione delle loro vite ispirata ai vari Racconti tolkeniani, cercando di rispondere alle tante domande che avvolgono le loro figure, così importanti eppure così schive e poco inclini a farsi raccontare.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Buonsalve a tutti!

Eccoci qua con il secondo capitolo della storia. Si tratta, ancora, del punto di vista di Thranduil. Prometto che, prossimamente, varierò di più!
Chiedo scusissima per non aver aggiornato prima. Questo capitolo è stato un vero parto. L’ho scritto, cancellato e riscritto da capo almeno quattro volte, finché non ho azzerato tutto nuovamente, in uno scatto d’esasperazione, e ho creato questo un paio d’ore fa. Spero vi piaccia – e non mi odierete troppo: con l’altro capitolo c’è chi ha versato lacrime non previste, chiedo umilmente perdono! Preparatevi, dunque. ;)

Un grazie a chi leggerà, un bacio a chi recensirà. Pessima rima, ne sono consapevole.
 
Questo capitolo è dedicato a Charme, che mi crede matta e con la soglia del “Non troppo drammatico” piuttosto alta. Lei è una persona sana di mente, a differenza di me.
 
Baci e lembas a tutti,
 
Maiwe


 




 
Finalmente, mi sfuggì un sorriso. Sorrisi senza pensarci, istintivamente, dal profondo del cuore. Allungava le braccia come a volersi tuffare in acqua senza esitazione, tanto che dovetti stringere ancora di più la mia presa attorno al suo piccolo corpo, rendendomi conto che erano giorni, ormai, che lo tenevo in braccio, stretto a me con tutte le forze, saldo, le braccia sempre più stanche ma puntualmente ignorate.
Voleva avvicinarsi a tutti i costi ai veloci sbuffi di spuma che alcune piccole onde creavano sbattendo contro la chiglia della nave. Ed eravamo a un passo dalla superficie dell’acqua; le navi elfiche erano così basse e ben scavate che, a momenti, avevo paura saremmo sprofondati, appena un’onda si faceva leggermente più alta e minacciosa.
Sembrava così entusiasta, il mio bambino sembrava così felice, di vedere per la prima volta il mare. Non l’avevo mai visto ridere e agitarsi tanto.
Lo avvolsi ancora di più nel mio abbraccio stanco – e non esente da mal di mare - ma pieno di energia al tempo stesso, e gli schioccai un bacio sulla nuca, mentre cercava di sfuggire alla mia presa.
Riuscendoci.
Si proiettò in avanti, verso il centro del ponte della nave, mentre io perdevo qualche battito al cuore.
“Vieni immediatamente qui!”
In tutta risposta, mi giunse una risata di gusto, di chi sa di star facendo un dispetto e la cosa gli provoca un enorme, dannato piacere.
Allora risi anch’io, di sottecchi, mentre mi precipitavo a riprenderlo in braccio. Lui si protese per farsi sollevare, per poi ingannarmi svincolando velocemente tra le mie gambe e correndo in direzione opposta.
Stava crescendo. Nel notarlo, provai un grande orgoglio, una nuova forza, ma anche una fredda fitta al cuore, come uno spillo ficcato nell’esatto centro del petto.
Si era incantato nuovamente a guardare le onde, la vastità dell’acqua scura che ci circondava. Sembrava molto pensieroso e profondamente consapevole, i capelli scuri, ereditati dalla mamma, appena mossi dal vento; sembrava più grande e responsabile, per la sua minuscola età. Mi inginocchiai accanto a lui e lo abbracciai dalle spalle, guardando anch’io oltre il parapetto, ma non vedendo del tutto il mare, perdendomi, anzi, nei pensieri. Lui mi passò un braccio attorno al collo e sospirò. Era completamente assorto.
“A cosa stai pensando?” domandai, a voce bassa, non sicuro di volere sapere davvero la risposta.
Non rispose.
“D-dove siamo diretti, Ada?” domandò poi, in una lingua corrente un po’ strascicata e incerta.
“Te l’ho già detto, tesoro. Stiamo andando a casa.”
Non pareva per niente convinto. Tornò a guardare le onde, poi si sedette su un panchetto, alla poppa della nave, facendo dondolare i piedi.
“Cos’ hai, sei triste?” Mi si strinse il cuore in una morsa glaciale. Lottai per apparire forte. Dovevo esserlo a qualsiasi costo.
Gli sollevai il mento con una mano.
“Testa alta, tesoro. Testa alta.”
Fece come gli dissi.
“Guardami.”
Continuava a tenere gli occhi bassi.
“Guardami.”
“No.”
Respirai a fondo.
“Perché non vuoi guardarmi? Sei arrabbiato con me?”
“Io non sono arrabbiato con nessuno.”
“Però sei triste.”
“Però sì, sono triste.” Voltò lo sguardo.
Mi sedetti accanto a lui. Era stano: non mi ero mai sentito così forte in vita mia come in quel momento in cui, corpo, anima e cuore, avevo toccato il fondo.
“Senti”, gli dissi infine, tornando a inginocchiarmi davanti a lui e costringendolo a guardarmi negli occhi. “Hai paura. Lo vedo bene, sai. Ma la sai una cosa?”
“No.” Tornò a sorridere, ricacciando indietro le lacrime. Eccolo lì, il mio tesoro, saldo come una quercia, forte come il mare.
“Anche io ho paura. Ho tantissima paura, molta più di te.”
“Non è vero! Non è possibile.” Ormai rideva, ce l’avevo fatta.
“E’ la verità. E lo sai il perché?” Mi sforzavo di parlargli in lingua corrente, così che… si abituasse. La nostra vita era ormai stravolta, inesorabilmente ribaltata, e non sarebbe più bastato parlare in elfico sindarin. Doveva sforzarsi di appartenere al nuovo ambiente cui stavamo andando incontro. “Perché, vedi… una volta tornati alla nostra vera casa – te l’ho spiegato, no? Dove abitava il nonno, dove era re della nostra gente – una volta là, dovrò essere io, il re. Sai cosa significa?”
Mi fece cenno di no, ma mi stava ascoltando, un po’ timoroso.
“Significa che saremo finalmente nel posto giusto. Io sono il figlio di un re, un re importantissimo. E tu sei mio figlio. Abbiamo una responsabilità molto grande, che abbiamo rimandato per troppo tempo. Pensa te, doveva succedere tutto questo, perché io mi decidessi a tornare.”
Mi posò una mano sulla fronte. Lo faceva sempre. Lo faceva sentire sicuro. Era un modo per parlarci anche senza usare le parole. Ci ascoltavamo chiaramente. Io gli raccontavo la nostra storia, e lui si concentrava a tal punto che sembrava sperso, all’apparire davanti ai suoi occhi di tutte quelle immagini. Erano come un secondo mondo, di fantasia, quello in cui vedeva mio padre, Oropher, cavalcare e sedere sul trono.
Allontanò la mano di scatto.
“Non voglio andarci.”
“Cosa? E perché no? Guarda che è bellissimo!” Infiorettai, non certo convinto delle mie parole. “Sarà divertente! Sei un principe, tu! Chi non vorrebbe essere un principe? Tutti vorrebbero esserlo!”
Sorrise nuovamente.
“Sono… con… sono contetto che abbiamo visto il mare.”
Gli ricambiai il sorriso, sperando si fosse rinfrancato almeno un po’.
“Però ho fame.”
Il castello che, tassello dopo tassello, gli avevo creato intorno si sbriciolò come se fosse stato fatto di carte in una giornata ventosa, e ripiombai nella realtà.
Non avevo niente, con me. Niente. Una sensazione che un padre non vorrebbe mai provare. Aveva mangiato frutta, nel Region, che gli avevo colto, conoscendo la zona, ma raggiungendo il più in fretta possibile il porto di Capo Halar. Erano stati tre giorni di viaggio con provviste razionate e un cavallo stanco e bizzoso, che avevo ottenuto nel peggiore dei modi. I cavalieri guidati da mio figlio, il mio primogenito, ci erano venuti ad accogliere al valico tra le montagne, alle cascate del Sirion, con qualcosa da mangiare, qualche coperta, e un grande augurio. Erano venuti a dirci addio, avevano saputo.
Avevamo quell’appuntamento già da qualche tempo, da quando mi avevano riferito che avevo perso mio figlio maggiore. Volevano che li incontrassi per potermi consegnare il suo destriero, in un cerimoniale d’encomio.
Ci avevano salutati con un’immensa speranza, pieni di fiducia in me.
Era un ragazzo così forte e robusto che non avrei mai creduto sarebbe potuto cadere sotto la mano degli orchi. Ma non avevo creduto molte cose. Ed ero stato smentito nel peggiore dei modi.
Volli cogliere quel dono come un segno.
Avevo fatto correre il cavallo fino al porto, a perdifiato, con il figlio che mi restava infagottato e intento a mangiare pane biscottato col miele, un dono dei cavalieri.
Ci eravamo imbarcati su quella piccola nave in partenza verso la Terra di Mezzo dando poche e sommarie spiegazioni. Il cavallo avevamo dovuto lasciarlo. Non c’era una stiva grande abbastanza da poterlo ospitare. L’avevo donato al timoniere, che sarebbe tornato a riprenderselo là, nel Beleriand, molto presto. Nel frattempo, sarebbe stato nella stalla della sua casa, e se ne sarebbero occupati i suoi figli. Avevo sussultato, a quella notizia, ma ero salito a bordo col mio bambino e non mi ero voltato indietro.
“Non…” provai a rispondere a mio figlio, dopo una lunga pausa. “Non so cosa darti. Tra pochissimo tempo sbarcheremo. E allora mangeremo quello che vuoi. Sei contento?”
“Insomma.”
“Lascia che mi occupi del bambino” si fece avanti una voce alle mie spalle. “Ho giusto qui delle belle pesche. Ti piacciono?”
“Moltissimo!” esultò lui.
Mi voltai verso l’Elfo che si era offerto di offrire cibo a mio figlio in mia vece, deciso a rifiutare. Ringraziando, certamente, ma non avrei mai potuto accettarlo.
Hannon-ste.” Ringraziò in tutta risposta la sua vocetta di bambino.
“Grazie.” Mi trovai a sussurrare a mia volta al nostro compagno di viaggio. “Non avresti dovuto.”
“I tempi difficili esistono e arrivano per chiunque. Non ce ne dobbiamo vergognare. Se non ci aiutiamo fra di noi, chi altro lo farà?”
Cacciai indietro le lacrime, serrando le labbra e annuendo.
“Chi siete? Dove siete diretti?” Erano domande poste con una voce greve, e bassa.
“Siamo due esuli forzati che si sono decisi a farsi avanti per riconquistare ciò che è loro di diritto.” Buttai fuori d’un fiato. “Arriveranno tempi migliori, e allora potrò ringraziarti a dovere.”
“Proprio così.” Biascicò contento mio figlio, dondolando le gambe, la faccia piena di succo di pesca. “Perché noi stiamo tornando a casa.”
 
 
  
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