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Autore: ___MoonLight    18/03/2013    8 recensioni
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di buono, non solo per te stesso. Qualcosa in cui credi.»
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony. Davvero non puoi farlo ancora?»

L'Afghanistan ha segnato Tony e gli ha donato l'opportunità di cambiare in meglio la sua vita. Ma il destino ha tutte le intenzioni di mettergli nuovamente i bastoni tra le ruote, e l'immagine corazzata che si è costruito e dietro la quale tenta di riparare i torti commessi e quelli subiti non è più abbastanza per proteggerlo. Cosa succede quando l'uomo diventa davvero di ferro, anche senza armatura?
[Storia completa e revisionata]
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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26



Apocalypse, please





"So what ails you is what impales you
I feel like I've been crucified to be satisfied
I'm a victim of my symptom
I am my own worst enemy"

[Restless Heart Syndrome – Green Day]







4 Aprile, Villa Stark

Tony osservò il nuovo progetto della protesi inferiore posizionato sul tavolo davanti a sé. Gli strumenti da lavoro del suo laboratorio erano allineati in ordine lì accanto, pronti a essere utilizzati per creare qualcosa di inesistente o di straordinariamente geniale degno di portare il marchio STARK. Continuò a fissare assente il tutto, muovendosi svagato sulla sedia girevole, poi prese a guardarsi intorno, spaesato, quasi non sapesse dove si trovava. La visione desolata del suo laboratorio illuminato unicamente dalla luce del bancone non contribuì a migliorare il suo umore già tetro.
Non si era ancora del tutto ripreso dalla sbronza: di sicuro il mal di testa non era passato, e preferiva attribuirlo a quella piuttosto che ad altre cause meno piacevoli, come sostanze nocive che non avrebbero dovuto essere nel suo corpo. Ricercare i sintomi dell'intossicazione da metalli pesanti non si era dimostrata una mossa furba, doveva dar ragione a JARVIS.
Si sistemò infastidito la benda sull'occhio: la piaga non gli aveva dato un attimo di tregua dalla sera prima, ballando a tempo con l'emicrania. Quella mattina sul presto, dopo appena un paio d'ore di sonno agitato, aveva ingollato una dose di antidolorifici decisamente rischiosa e si era trascinato in laboratorio con l'intenzione di rimettersi al lavoro. Dopo qualche minuto di traffici inconcludenti, si era reso conto ben presto che non riusciva davvero a comportarsi come se niente fosse accaduto. Così si era semplicemente lasciato sprofondare nei suoi pensieri, aprendo infine quelle porte che aveva tenuto serrate fino ad allora. Il caos che ne era fuoriuscito l'aveva quasi sbalzato via ed aveva impiegato quelle che era abbastanza certo fossero ore a districare ogni filo contorto dei suoi pensieri senza più cercare di nascondersi nulla. Non sapeva cosa stesse cercando di fare, esattamente. Forse sperava ancora di trovare una soluzione a quel che era diventato, forse cercava la conferma del fatto che non esistesse, e in entrambi i casi non riusciva a capire come avrebbe dovuto reagire.
Di certo, le conclusioni a cui era arrivato l'avevano gettato in un pozzo ancora più buio di quanto avesse pensato. Un pozzo vuoto, come quello che gli si allargava nel petto man mano che dipanava quella matassa di pensieri intricata che si abbarbicava nel suo cervello come un'erba infestante.
Sapeva esattamente cosa aveva, ma sapeva anche che cosa gli mancava, ed entrambe le cose rendevano la sua vita insopportabilmente invivibile. Era da quando si era risvegliato mutilato su quel letto d'ospedale che faticava anche a fare le cose più semplici. E non si ricordava un giorno in cui non avesse provato qualcosa che non fosse senso d'impotenza e dolore – quel dolore sordo, che nulla aveva a che fare coi moncherini, che non scompariva mai e che si accentuava quando qualcuno cercava di aiutarlo. La sfiducia lo attanagliava, e a nulla serviva il fatto di non essere del tutto solo in quel disastro. O piuttosto, di costringere gli altri a seguirlo in esso. Se possibile rendeva il tutto ancora più intollerabile.
Al momento, i suoi pensieri avevano preso a roteare minacciosi attorno a un unico fulcro, come un ciclone di dimensioni spaventose che ruota attorno al proprio occhio. Pepper. Non riusciva ancora ad accettare come reale quel che le aveva fatto. Quella mattina non l'aveva vista e ne era stato sollevato, così da non dover riconoscere la prova tangibile della propria meschinità impressa sul suo braccio. 
Voleva pensare e convincersi che quel gesto avventato fosse stato solo colpa della sbronza e magari del palladio – che a quanto pareva causava sbalzi d'umore assieme a un'altra ventina di sintomi che aveva ignorato fino ad allora e che avrebbe preferito continuare ad ignorare. Voleva crederci davvero, ma la verità era che, palladio o no, sobrio o meno, sentiva di non essere più del tutto padrone di se stesso. Era come se ci fosse un difetto di fabbricazione in lui, che lo faceva agire costantemente nel modo sbagliato e reagire in modo imprevedibile e dannoso per se stesso e gli altri. Aveva la consapevolezza che, se anche ci fosse stata una mano tesa verso di lui per aiutarlo a uscire da tutto quel nero, non sarebbe riuscito ad afferrarla né a vederla, o magari non l'avrebbe semplicemente considerata. 
Quanto se la meritava, in fondo? Cosa avrebbe potuto offrire in cambio, se non altri problemi, altri frammenti di sé, altre paure?
Sentiva di non avere più nulla, e niente sembrava più appartenergli: la sua casa, le protesi, Pepper, Iron Man, la sua stessa vita...
Da quant'era che si svegliava con quel senso di apatia totale? Ci aveva messo un po' a capire quando, esattamente, quel buco nero avesse iniziato a risucchiarlo, e ancor di più a individuarne l'origine materiale. Era niente più che una capocchia di spillo nel suo oceano di problemi, ma adesso brillava con pungente intensità nella sua testa, riportandolo al momento in cui la persona a cui avrebbe affidato la propria vita senza pensarci due volte aveva stabilito che non poteva farcela. E a nulla erano serviti i litigi e le riappacificazioni: quelle parole avevano continuato a dibattersi come lame nel suo petto, conficcandosi sempre più a fondo.
Aveva avuto la netta percezione delle proprie mani che lasciavano il volante della propria vita, lasciando che sbandasse a destra e a manca, incurante di ciò che sarebbe successo poi e delle conseguenze. Si era lasciato andare, e tutto era peggiorato dopo l'operazione alla gamba: quella "fase" di prostrazione non era mai passata. Covava dentro di sé, a sua stessa insaputa, nascosta dietro la facciata d'indifferenza e spavalderia che costruiva ogni giorno con cura e dedizione. Ma tornava a galla, sempre, nel cuore della notte, quando era solo coi suoi pensieri: protesi e protesi, miglioramenti, Iron Man, Pepper, ancora protesi e poi il vuoto. Sempre quel vuoto che si faceva strada in lui con le unghie e con i denti, ma piano, lentamente, così lentamente che quando lo aveva percepito la prima volta era già una voragine insanabile.
Il respiro gli tremò e si portò una mano a coprire gli occhi – l'occhio, dannazione.
Sbattè il pugno sul tavolo, lasciando un'intaccatura nel metallo. Poi c'erano quelle volte il cui il vuoto si faceva così profondo da rodergli il cuore e far scattare la scintilla dell'ira. Lui la lasciava divampare, e i risultati si erano visti: una casa distrutta, lividi ovunque e Pepper gelida e ferita come non mai. E lei ancora non sapeva dei marchingegni rotti accatastati in laboratorio, non vedeva i crateri nei muri e i tavoli rovesciati e non sentiva le vetrate rotte e non aveva idea di dove fossero finite le armature, perché lui rimetteva sempre tutto in ordine perfetto, preciso, metodico. Come un assassino che fa scomparire le prove del suo omicidio, rimetteva a posto e ridipingeva la sua facciata d'indifferenza, e tutto sembrava di nuovo lontano e insignificante. Quando persino gestire se stesso e conviverci era un'impresa titanica, non trovava più un senso nel continuare a sperare in qualcosa di impossibile come il "ritorno di Iron Man".
Ripensò alle parole di Bruce: forse un tempo aveva davvero creduto in ciò che faceva, ma adesso si rendeva conto che la sua amata maschera di ferro era solo un'altra facciata che gli infondeva sicurezza, un' armatura difettosa che con le sue falle esponeva il suo cuore alle interperie e al caso mentre lui fingeva di essere indistruttibile. Ma non lo era, e si stava rompendo un pezzo alla volta.
Deglutì a fatica, sentendosi improvvisamente la bocca secca, e si costrinse a mettere da parte quei pensieri e a serrare di nuovo quella porta. Si sarebbe riaperta; l'avrebbe riaperta lui stesso, ne era certo, ma adesso aveva un bisogno fisico di immergersi nei suoi calcoli e in qualcosa di manuale che richiedesse la massima concentrazione. Potersi estraniare a quel modo era una grazia dal cielo, una delle poche.
Ancora frastornato dagli echi dei suoi pensieri, si tirò su la gamba del pantalone e scoprì il punto di contatto tra l'articolazione meccanica e la piastra metallica che si congiungeva alla coscia; con estrema attenzione svitò con un cacciavite una vite della struttura principale e la ripose sul tavolo. Circondò poi la gamba con entrambe le mani e cercò coi polpastrelli della mano buona le due piccole scanalature incassate nel metallo, premendole con forza e tirando lievemente la protesi verso l'esterno. Quel passaggio faceva sempre un po' male, perché i punti di sutura non erano ancora guariti: spiccavano rossastri sulla linea di giunzione tra carne e metallo. Strinse i denti tirando un altro po', e la protesi si staccò infine con un lieve rumore di barattolo sottovuoto appena aperto.
Pensando al paragone, Tony si accorse di non avere nemmeno fame: eppure dal giorno prima si era limitato a mandar giù controvoglia un paio di cracker insipidi e a malapena un bicchier d'acqua, anche perché qualsiasi cibo continuava ad avere uno spiacevole sapore di alcool che gli torceva lo stomaco. Quella mattina si era dovuto forzare persino a bere una tazza di caffè esageratamente zuccherato nella speranza di assimilare con esso un briciolo di sostanze nutritive. Era già da qualche settimana che non sentiva la necessità di mangiare nulla; forse se il suo corpo avesse avuto facoltà di parola avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma lui poteva passare tre giorni senza avvertire i morsi della fame. Probabilmente era un altro degli effetti della clorofilla, che non era la sostanza più semplice da digerire, pur avendo un apporto calorico insignificante. Come di riflesso, ne bevve un paio di sorsi dalla borraccia sempre a portata di mano. Non si chiese quanta utilità potesse avere quel gesto: non aveva neanche la forza di pensarci.
"Sei, sette mesi..." gli balenò in testa, ma soppresse il resto.
I suoi pensieri vagavano un po' troppo liberamente, quella mattina, e si
impose di concentrarsi nuovamente sul perfezionamento delle protesi.
Poggiò la gamba meccanica sul tavolo, ignorando consapevolmente la cavità provocata poco prima dal suo pugno, che trovò un utilizzo pratico quando gli permise di poggiarvi il tallone per mantenere diritto l'arto. Non si sarebbe mai abituato a vedere un pezzo di se stesso davanti ai suoi occhi, ma si fece forza. C'era ancora molto da fare: le dita non erano neanche lontanamente vicine ad avere delle sembianze umane; il piede aveva assunto una forma più naturale, ma doveva ancora ricreare la funzione del tendine d'achille e almeno la maggior parte delle ossa. Doveva anche riparare i danni provocati dallo scontro con Hulk: c'erano vari graffi, un'ammaccatura non indifferente sul polpaccio e vari punti in cui i legamenti ancora scoperti sembravano essersi allentati. Nessuna sorpresa per il fatto che riuscisse a camminare solo con le stampelle e che avesse continuamente l'impressione di doversi perdere l'arto da un momento all'altro. Senza contare che il braccio continuava a fare le bizze ed aveva anch'esso urgente bisogno di riparazioni. Riusciva a malapena a controllarlo e prima o poi avrebbe dovuto affrontare il problema, rimasto parzialmente insoluto sin dallo scontro con Rogers.
Era un carico di lavoro immenso.  Le fitte alla gamba non miglioravano la situazione ed era consapevole del fatto che nel suo stato sarebbe stato impensabile anche solo alzarsi dal letto. D'altronde né Ian, né tantomeno Pepper gli avevano più ricordato quel piccolo dettaglio, forse perché sapevano che li avrebbe semplicemente ignorati. Tony si passò le mani tra i capelli, cercando di riordinare le idee o, più che altro, di eliminarne una parte nella speranza di ridurne il sovraccarico.
Non aveva più tempo. Era troppo tardi per rimediare agli errori e troppo presto per pensare di poter andare avanti, di poter trovare qualcosa dove non c'era niente.
Non ce la faceva più. Aveva solo voglia di chiudere gli occhi e dormire, sperando che quando li avrebbe riaperti, entrambi, si sarebbe risvegliato nella sua casa, insieme alla sua amata assistente dai capelli rossi e alle sue armature... magari anche con un reattore in corpo: poteva sopportarlo, se la sua vita fosse tornata esattamente com'era con un semplice battito di ciglia.
Troppe volte si era risvegliato volendo credere che fosse stato tutto un terribile incubo e che il dolore fosse solo un'illusione. Ma l'illusione non c'era; non c'erano trucchi né inganni ed era tutto assolutamente vero, al punto da avergli distrutto la vita pezzo dopo pezzo, come un castello di sabbia che si dissolve alla prima onda troppo vicina.
Tamburellò distrattamente sul reattore, ormai abituato al netto seppur esitante ticchettio che provocavano le sue dita meccaniche sulla piastra metallica. Scostò il colletto della polo, sbirciando il congegno che lo teneva in vita, o meglio, l'intrico di tenui venature bluastre che si diramavano da esso.
Si era allargato?
Quella più evidente si era ormai congiunta all'altro reticolo semitrasparente che scaturiva dalla protesi, sulla clavicola. La situazione era ancora sotto controllo, si ripeté: non aveva avuto bisogno di cambiare il nucleo di palladio, ma la cosa iniziava a farsi realmente preoccupante. Fissò con astio il congegno che aveva ideato sotto suggerimento di JARVIS per tenere sotto controllo il livello d'intossicazione; quindi lo prese, premette il pollice sul minuscolo ago e lesse il valore che lampeggiò dopo pochi istanti sul display: 11%. Appena il giorno prima era ancora al 10%, realizzò con un'improvvisa morsa di paura.
Questo con un reattore e due micro-reattori in corpo. Non era poi così alto, doveva ammettere, ma per quanto tempo sarebbe rimasto in quei range? In pochi mesi sarebbe salito al 20, 30%. I micro-reattori erano in grado alimentare le protesi ancora per una cinquantina d'anni. Quanti ne avrebbe vissuti lui? Due? Quanto poteva reggere il suo corpo già così indebolito?
Il suo pensiero corse involontariamente a Pepper. Avrebbe dovuto dirglielo, così avrebbe potuto infuriarsi anche per quello, ma il solo pensiero gli causò un dolore sordo allo stomaco, come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno.

Posò di malagrazia il dispositivo sul bancone.
A pensarci bene non aveva alcuna voglia di lavorare sulle protesi, né di fare qualcosa di diverso dallo stare seduto a fissare il soffitto del laboratorio. Scosse la testa e prese l'arto meccanico, reiserendolo nella sua sede con uno scatto secco e un gemito soffocato. Rimase per qualche secondo ripiegato su se stesso, inerte, nel silenzio pesante del laboratorio rotto solo dai suoi respiri profondi.
Si raddrizzò dopo un intero minuto in cui il dolore aveva tenuto lontana qualunque riflessione, risvegliando il malsano istinto di staccare e riattaccare nuovamente la protesi, così da prolungare quel momento di lieto oblio. Dominò quell'impulso e riprese inevitabilmente a pensare. Non si sforzò neanche di indirizzare le sue riflessioni verso una rotta ben precisa: le lasciò scorrere con fare indifferente, come se non gli appartenessero. Se il solo odore dell'alcool non gli avesse dato la nausea, ne avrebbe volentieri bevuto un sorso per accompagnarne l'andazzo ondeggiante.
Iron Man. Pepper. Le protesi. Il sequestro delle protesi. Pepper. Le Stark Industries. Christine. L'Afghanistan. Suo padre. L'intossicazione. Pepper. L'occhio. Ancora Pepper. Sempre Pepper.
Lo aveva perdonato? Ne dubitava. Lo avrebbe mai fatto? Dipendeva da lui. Voleva veramente essere perdonato?
Forse no: avrebbe voluto dire che sfasciare la casa, farle male, ridursi sull'orlo del coma etilico, vomitare l'anima, attirarsi le ire dei Vendicatori ed essere irremediabilmente ingrato erano tutti comportamenti perdonabili.
Si passò le mani sul volto, in un gesto stremato. Come diavolo ci era arrivato, lì?
Eppure all'inizio non era sembrato così difficile.
Un paio di protesi: poteva farcela; un occhio andato: poco male, avrebbe trovato una soluzione; capi d'accusa che piombavano da tutte le parti: probabilmente se tutti non fossero stati così preoccupati non si sarebbe neanche presentato in aula. Poi era arrivato una sentenza definitiva dall'unica persona di cui si fidasse ancora. Verdetto: irrecuperabile.
E poi aveva cominciato a pensare, a ripercorrere le volute contorte che l'avevano condotto a quello sfacelo. Gli capitava troppo spesso di perdersi nella freneticità del momento e realizzare solo troppo tardi cosa vi fosse all'origine.
Iron Monger, certo. Era stato lui a ridurlo in quello stato pietoso. E dentro la macchina, l'uomo, l'amico.
Cercava di non pensarci, ma quelle rare volte riusciva solo a provare un'atroce delusione e una rabbia cieca e ingiustificata: Obadiah ormai era morto. L'aveva ucciso lui, a quanto pareva. E se all'inizio ne era rimasto quasi scioccato, adesso rimpiangeva di non riuscire a ricordare l'esatto momento in cui quello che avrebbe dovuto essere la sua guida era stato carbonizzato dal reattore. Poteva dire di aver avuto almeno un briciolo di giustizia per ciò che aveva subìto. Per quanto non fosse un pensiero nobile ne traeva una qualche, seppur amara, consolazione. 
Era a quel punto, quando la sua mente si districava tra il groviglio dei suoi ricordi fino al nodo di Stane, che intravedeva le radici della sua rabbia inconsumabile, e in quel punto cercava di ritrarsi di scatto, distoglieva i pensieri, serrava l'unico occhio fingendosi completamente cieco. Perché l'immagine successiva che lo colpiva era la sabbia rossa del deserto, proiettili che sibilavano e una bomba con sopra impresso il suo nome che gli esplodeva in faccia. E l'esplosione rimbombava all'infinito, nell'eco di centinaia di altre bombe, mine, ordigni, tutti con il netto e preciso marchio STARK che spiccava sulla corazza plumbea. Ad ogni detonazione, un ferito, un morto, un mutilato. Un viscido senso di colpa che gli mordeva le viscere.
Avrebbe pensato che fosse a causa di una qualche remota giustizia divina che si trovava con qualche pezzo di ferro in più, se non fosse stato per il fatto che quei pezzi di ferro lo tenevano in piedi e gli permettevano di vivere. Un privilegio, assieme a quello di aver potuto dirottare la propria vita in una direzione migliore, che lui stava sprecando e buttando al vento. In quei momenti avrebbe voluto strapparsi le protesi, il reattore, l'anima, se solo avesse potuto.
Che se ne faceva un corpo rotto, di un'anima?
Magari la "giustizia divina" aveva solo fallito nel suo intento e non c'era alcun profondo motivo da conferire alla propria esistenza. Magari stava solo lottando contro qualcosa che in fin dei conti era ineluttabile.
Riprese a tamburellare sul reattore, mordendosi il labbro inferiore con fare concentrato, lo sguardo fisso sulla parete delle armature ancora schermata. Non le vedeva, ma vedeva il proprio riflesso leggermente distorto. Si chiese quanta differenza ci fosse, ormai, tra i resti contorti delle armature e il suo corpo rotto e mutilato.
"Forse..." quella considerazione fu troncata di netto dal suo buon senso, il poco che gli era rimasto.
Il suo corpo non lo ascoltò e si trovò a posare una mano sul reattore stringendo le dita sul bordo metallico. Lo fissò, poi fissò di sfuggita il suo riflesso; poi di nuovo le armature, infine il reattore. Si accigliò, frenato da una forza invisibile che però si rivelò estremamente facile da contrastare. Estrasse il congegno dal suo petto e ne fissò il bagliore azzurrino. Il nucleo di palladio fumava appena, ma era pressoché integro.
Peccato non si potesse dire lo stesso del resto. Di tutto il resto.
Esitò, rigirandosi in mano quel cilindretto vitale ed indispensabile, il dono di qualcuno che aveva creduto in quello che avrebbe potuto fare. Qualcuno che lui, puntualmente, aveva deluso.
Perché era troppo debole, senza la sua armatura. Perché nessuno voleva davvero fidarsi di qualcosa di rotto. Perché non meritava di essere vivo senza un motivo. Perché, in fondo, era sempre stato irrecuperabile.
La luce sembrava pulsare nel suo palmo, quasi fosse dotato di vita propria. Iniziava a sentire un senso di vuoto claustrofobico al centro del petto, col cuore che rincorreva i battiti mancati.
"Ho sentito spesso parlare di quella vocina che ti dice 'stai facendo una stronzata'..."
Poggiò il reattore sul tavolo, reclinò la testa all'indietro e chiuse l'occhio, in quieta attesa.
"...io non la sento."




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Revisione effettuata il 04/03/2018
 

Note delle Autrici:
 
Carissime seguaci, nuove e vecchie, buonasera! *tono da presentatrici televisive*
Avevamo promesso di pubblicare il 18... e in effetti è così. un po' in ritardo, ma è ancora il 18 Marzo. Impegni vari ci hanno impedito di essere puntuali, ma... non è quello che vi interessa. Vi interessa piuttosto la sorte di quel pover'uomo *omino indica in alto*.  
Siete autorizzate a prendere torce e forconi e a porci sotto assedio, ma sappiate che questo era il fondo, e da qui non si può che risalire! *lettori scuotono la testa, chiedendosi quanti doppifondi abbia questa maledetta storia*
A parte ciò: è già passato un anno da quando abbiamo pubblicato questa fan fiction, e sembra davvero incredibile: a pensarci, sembra un giorno *cliché piovono dal cielo*
È una storia a cui siamo veramente molto legate e speriamo davvero che continuerete a seguirla, perché noi ci siamo divertite e ci divertiremo ancora a scriverla -pensa te che sadiche...- e ci auguriamo che trasmetta le nostre stesse emozioni a voi che leggete. 
Perché, su, a parte l'angst dirompente, ammettete che ogni tanto vi strappiamo un sorriso o una voglia di suicidarvi per il fluff -o forse no.
 
Hoc dicto *Moon tramortisce Light reduce dallo studio*, vogliamo ringraziare tutti, proprio TUTTI coloro che hanno seguito, recensito, aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
In ordine (cronologico o alfabetico):
 
Recensori: _Sof_, alliearthur, Rogue92, Sherlock_Watson, Micchi, blackpearl_, bluephoenix, Lupoz91, DigiGaia, xhellosweety, Alley, julialicious, MissysP, The_best_who_sing, Julyet_M, aston, Thirrin, 81serena e my brother under the sun.
 
Preferiti: BENNYloveEFP, bluephoenix, Camilla85, Checca Cullen, crow_, C_laudine, Dark_Lucy, DigiGaia, DirtyVale, Edward_Son 2, Enigmista96, feddy92, Frosba, Fuckthisshit, girlstreet, julialicious, laFlo, Lupoz91, my brother under the sun, Ookami_96, Sherlock_Watson, Van, WhiteRabbit e _Willenna_.
 
Seguite: Alley, alliearthur, almostnice, Amaerise, aston, blackpearl_, cleme_b, DigiGaia, Doctor Smith, Elena Salvatore, Eleonoraa11, Enigmista96, Fairy84, fior di loto, Frosba, itsandreea, kay33, kh2zvn, Lady Holmes, LaFolie108, LifeCristal, Luna_Bella, Lupoz91, MANDARINO ZEN, MissysP, Morrigan, Nature_, NemesiS_, Nightly Blossom, ny152, Rogue92, serysaku, Sherlock_Watson, Sophiathebest, The_best_who_sing, valedisy, Vehuel, WhiteRabbit, xhellosweety, _Elentari_, _M4r3TT4_ e _Sof_.
 
Ricordate: crystaleyes, Eleonoraa11, Frosba, HollyCupcake, Rayne e Sherlock_Watson.

(Siete tantissimi! *-*)
 
Un grazie speciale a Rogue, irreducibile, intrepida seguace e recensitrice dal primo all'ultimo capitolo (speriamo!), a Sherlock_Watson julialicious che ci hanno rese felicissime coi loro disegni splendidi, ad Alley, che arditamente s'è letta d'un fiato tutti i capitoli e continua a seguirci coprendoci di splendidi complimenti, a MissysP, instancabile seguace, a Micchi, che ci colma di gioia (e risate impagabili) con le sue recensioni, a blackpearl_, le cui recensioni sono di quanto più solare e meraviglioso ci sia al mondo e a Darkshines_, che pur non avendo mai recensito ha avuto l'onore (o l'onere) di sorbirsi tutte le anteprime, le bozze e gli schizzi di questa storia in prima persona, scleri inclusi, dimostrando un livello di sopportazione che non credevamo possibile -soprattutto per un essere di sesso maschile. 

Grazie di cuore a tutti e per tutto! 
E... al prossimo capitolo! <3
 
Moon&Light

*Tony fa ciao ciao, un po' moribondo*

P.S.: Ci scusiamo per l'estremo ritardo, ma l'editor faceva i capricci. Ed è venuto fuori un "Text-wall" assurdo. Ooops.
P.S.2: Non abbiamo risposto alle recensioni nello scorso capitolo, e ci scusiamo, ma come avrete capito è stato un miracolo riuscire a pubblicare per tempo a causa di imprevisti e impedimenti vari. Promettiamo di rispondere al più presto: sabato noi menti malvagggie ci vedremo e rimedieremo ;)




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