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Apocalypse, please
"So
what ails you is what impales you
I feel like I've been crucified to be satisfied
I'm a victim of my symptom
I am my own worst enemy"
[Restless Heart Syndrome – Green Day]
4 Aprile, Villa Stark
Tony
osservò il nuovo progetto della protesi inferiore
posizionato
sul tavolo davanti a sé. Gli strumenti da lavoro del suo
laboratorio
erano allineati in ordine lì accanto, pronti a essere
utilizzati
per creare qualcosa di inesistente o di straordinariamente geniale
degno di portare il marchio STARK.
Continuò a fissare assente
il
tutto, muovendosi svagato sulla sedia girevole, poi prese a
guardarsi intorno, spaesato, quasi non sapesse dove si trovava. La
visione desolata del suo laboratorio illuminato unicamente dalla luce
del bancone non contribuì a migliorare il suo umore
già tetro.
Non si
era ancora del tutto ripreso dalla sbronza: di sicuro il mal di testa
non era passato, e preferiva attribuirlo a quella piuttosto che ad
altre cause meno piacevoli, come sostanze nocive che non avrebbero
dovuto essere nel suo corpo. Ricercare i sintomi
dell'intossicazione da metalli pesanti non si era dimostrata una
mossa furba, doveva dar ragione a JARVIS.
Si sistemò infastidito
la benda sull'occhio: la piaga non gli aveva dato un attimo di tregua
dalla sera prima, ballando a tempo con l'emicrania. Quella mattina sul
presto, dopo appena un paio d'ore di sonno agitato, aveva ingollato una
dose di antidolorifici decisamente rischiosa e si era
trascinato in laboratorio con l'intenzione di rimettersi al lavoro.
Dopo qualche minuto di traffici inconcludenti, si
era reso conto ben presto che non riusciva davvero a comportarsi come
se
niente fosse accaduto. Così si era semplicemente lasciato
sprofondare nei suoi pensieri, aprendo infine quelle porte che
aveva tenuto serrate fino ad allora. Il caos che ne era
fuoriuscito l'aveva quasi sbalzato via ed aveva impiegato quelle che
era abbastanza certo fossero ore a districare ogni filo contorto dei
suoi pensieri senza più cercare di nascondersi nulla. Non
sapeva cosa stesse cercando di fare, esattamente. Forse sperava ancora
di trovare una soluzione a quel che era diventato, forse cercava la
conferma del fatto che non esistesse, e in entrambi i casi non riusciva
a capire come avrebbe dovuto reagire.
Di certo, le
conclusioni a cui era arrivato l'avevano gettato in un pozzo ancora
più buio di quanto avesse pensato. Un pozzo vuoto, come
quello che
gli si allargava nel petto man mano che dipanava quella matassa di
pensieri intricata che si abbarbicava nel suo cervello come un'erba
infestante.
Sapeva esattamente cosa aveva, ma sapeva anche che
cosa gli mancava, ed entrambe le cose rendevano la sua vita
insopportabilmente invivibile. Era da quando si era risvegliato
mutilato su
quel letto d'ospedale che faticava anche a fare le cose
più semplici. E non si ricordava un giorno in cui non avesse
provato qualcosa che non fosse senso
d'impotenza e
dolore – quel dolore sordo, che nulla aveva a che fare coi
moncherini, che non scompariva mai e che si accentuava quando qualcuno
cercava di aiutarlo. La sfiducia lo attanagliava, e a nulla serviva il
fatto
di non essere del tutto solo in quel disastro. O piuttosto, di
costringere gli altri a seguirlo in esso. Se possibile rendeva il tutto
ancora più intollerabile.
Al momento, i suoi pensieri avevano preso a roteare minacciosi attorno
a un unico fulcro, come un ciclone di dimensioni spaventose che ruota
attorno al proprio occhio. Pepper. Non riusciva ancora ad accettare
come reale quel che le aveva fatto. Quella mattina non l'aveva
vista e ne era stato sollevato, così da non dover
riconoscere la prova tangibile della propria meschinità
impressa sul suo braccio.
Voleva pensare e
convincersi che quel gesto avventato fosse stato solo colpa della
sbronza e magari del
palladio – che a quanto pareva causava sbalzi d'umore assieme
a
un'altra ventina di sintomi che aveva ignorato fino ad allora e che
avrebbe preferito continuare ad ignorare. Voleva crederci davvero, ma
la verità era che,
palladio o no, sobrio o meno, sentiva di non essere più del
tutto padrone di se stesso. Era come se ci fosse un difetto di
fabbricazione in lui, che lo faceva agire costantemente nel modo
sbagliato e reagire in modo imprevedibile e dannoso per se stesso e gli
altri. Aveva la consapevolezza che, se anche ci fosse stata
una mano tesa verso di lui per aiutarlo a uscire da tutto quel nero,
non sarebbe riuscito ad afferrarla né a vederla, o magari
non
l'avrebbe semplicemente considerata.
Quanto se la meritava, in fondo? Cosa avrebbe potuto offrire in cambio,
se non altri problemi, altri frammenti di sé, altre paure?
Sentiva di non avere più nulla, e niente sembrava
più
appartenergli: la sua casa, le protesi, Pepper, Iron Man, la sua stessa
vita...
Da
quant'era che si svegliava con quel senso di apatia totale? Ci aveva
messo un po' a capire quando, esattamente, quel buco nero avesse
iniziato a risucchiarlo, e ancor di più a individuarne
l'origine materiale. Era niente più che una capocchia di
spillo nel suo oceano di problemi, ma adesso brillava con pungente
intensità nella sua testa, riportandolo al momento in cui la
persona a cui avrebbe affidato la propria vita senza pensarci due volte
aveva stabilito che non poteva farcela. E a nulla erano serviti i
litigi e le riappacificazioni: quelle parole avevano continuato a
dibattersi come lame nel suo petto, conficcandosi sempre più
a fondo.
Aveva avuto la netta percezione delle proprie mani che lasciavano il
volante della propria vita, lasciando che sbandasse a destra e a manca,
incurante di ciò che sarebbe successo poi e delle
conseguenze. Si era lasciato andare, e tutto era peggiorato dopo
l'operazione alla gamba: quella "fase" di prostrazione non era mai
passata. Covava dentro di sé, a
sua stessa insaputa, nascosta dietro la facciata d'indifferenza e
spavalderia che costruiva ogni giorno con cura e dedizione. Ma
tornava a galla, sempre, nel cuore della notte, quando era solo coi
suoi pensieri: protesi e protesi, miglioramenti, Iron Man, Pepper,
ancora protesi e poi il vuoto. Sempre quel vuoto che si faceva strada
in lui con le unghie e con i denti, ma piano, lentamente,
così
lentamente che quando lo aveva percepito la prima volta era
già una
voragine insanabile.
Il respiro gli tremò e si portò una mano a
coprire gli occhi –
l'occhio, dannazione.
Sbattè il pugno sul
tavolo, lasciando un'intaccatura nel metallo. Poi c'erano quelle
volte il cui il vuoto si faceva così profondo da rodergli il
cuore e
far scattare la scintilla dell'ira. Lui la lasciava divampare, e i
risultati si erano visti: una casa distrutta, lividi ovunque e Pepper
gelida e ferita come non mai. E lei ancora non
sapeva dei
marchingegni rotti accatastati in laboratorio, non vedeva i crateri
nei muri e i tavoli rovesciati e non sentiva le vetrate rotte e non
aveva idea di dove fossero finite le armature, perché lui
rimetteva
sempre tutto in ordine perfetto, preciso, metodico. Come un assassino
che fa scomparire le prove del suo omicidio, rimetteva a posto e
ridipingeva la sua facciata d'indifferenza, e tutto sembrava di nuovo
lontano e insignificante. Quando persino gestire se stesso e
conviverci era un'impresa titanica, non trovava più un senso
nel
continuare a sperare in qualcosa di impossibile come il "ritorno
di Iron Man".
Ripensò alle parole di Bruce: forse un tempo
aveva davvero creduto in ciò che faceva, ma adesso si
rendeva conto
che la sua amata maschera di ferro era solo un'altra facciata che gli
infondeva sicurezza, un' armatura difettosa che con le sue falle
esponeva il suo cuore
alle interperie e al caso mentre lui fingeva di essere indistruttibile.
Ma non lo era, e si stava rompendo un pezzo alla volta.
Deglutì
a fatica, sentendosi improvvisamente la bocca secca, e si costrinse a
mettere da parte quei pensieri e a serrare di nuovo quella porta. Si
sarebbe riaperta; l'avrebbe riaperta lui stesso, ne era certo, ma
adesso aveva un bisogno fisico di immergersi nei suoi calcoli e in
qualcosa di manuale che richiedesse la massima concentrazione.
Potersi estraniare a quel modo era una grazia dal cielo, una delle
poche.
Ancora frastornato dagli echi dei suoi pensieri, si tirò
su la gamba del pantalone e scoprì il punto di contatto tra
l'articolazione meccanica e la piastra metallica che si congiungeva
alla coscia; con estrema attenzione svitò con un cacciavite
una vite
della struttura principale e la ripose sul tavolo. Circondò
poi la
gamba con entrambe le mani e cercò coi polpastrelli della
mano buona
le due piccole scanalature incassate nel metallo, premendole con
forza e tirando lievemente la protesi verso l'esterno. Quel passaggio
faceva sempre un po' male, perché i punti di sutura non
erano ancora
guariti: spiccavano rossastri sulla linea di giunzione tra carne e
metallo. Strinse i denti tirando un altro po', e la protesi
si staccò
infine con un lieve rumore di barattolo sottovuoto appena
aperto.
Pensando al paragone, Tony si accorse di non avere nemmeno
fame: eppure dal giorno prima si era limitato a mandar giù
controvoglia un paio di cracker insipidi e a malapena un bicchier
d'acqua, anche perché
qualsiasi cibo continuava ad avere uno spiacevole sapore di alcool
che gli torceva lo stomaco. Quella mattina si era dovuto forzare
persino a bere una tazza di caffè esageratamente zuccherato
nella speranza di assimilare con esso un briciolo di sostanze
nutritive. Era già da qualche settimana che non
sentiva la necessità di mangiare nulla; forse se il suo
corpo
avesse avuto facoltà di parola avrebbe avuto qualcosa da
ridire, ma
lui poteva passare tre giorni senza avvertire i morsi della fame.
Probabilmente era un altro degli effetti della clorofilla, che non
era la sostanza più semplice da digerire, pur avendo un
apporto calorico insignificante. Come di
riflesso, ne bevve un paio di sorsi dalla borraccia sempre a portata di
mano. Non si chiese quanta utilità potesse avere quel
gesto: non aveva neanche la forza di pensarci.
"Sei, sette
mesi..." gli balenò in testa, ma soppresse il resto.
I
suoi pensieri vagavano un po' troppo liberamente, quella
mattina, e si impose
di concentrarsi nuovamente sul perfezionamento delle protesi.
Poggiò la gamba meccanica sul tavolo,
ignorando
consapevolmente la
cavità provocata poco prima dal suo pugno, che
trovò un utilizzo
pratico quando gli permise di poggiarvi il tallone per mantenere
diritto l'arto. Non si sarebbe mai abituato a vedere un
pezzo di se stesso davanti ai suoi occhi, ma si fece forza. C'era
ancora molto da fare: le dita non erano neanche lontanamente vicine
ad avere delle sembianze umane; il piede aveva assunto una forma
più
naturale, ma doveva ancora ricreare la funzione del tendine d'achille
e almeno la maggior parte delle ossa. Doveva anche riparare i danni
provocati dallo scontro con Hulk: c'erano vari graffi,
un'ammaccatura non indifferente sul polpaccio e vari punti in cui i
legamenti ancora scoperti sembravano essersi allentati. Nessuna
sorpresa per il fatto che riuscisse a camminare solo con le stampelle
e che avesse continuamente l'impressione di doversi perdere l'arto da
un momento all'altro. Senza contare che il braccio continuava a
fare le bizze ed aveva anch'esso urgente bisogno di riparazioni.
Riusciva a malapena a controllarlo e prima o poi avrebbe dovuto
affrontare il problema, rimasto parzialmente insoluto sin dallo scontro
con Rogers.
Era un carico di lavoro immenso. Le fitte alla
gamba non miglioravano la situazione ed era consapevole del fatto che
nel suo stato sarebbe stato impensabile anche solo alzarsi dal letto.
D'altronde né Ian, né tantomeno Pepper gli
avevano più ricordato
quel piccolo dettaglio, forse perché sapevano che li avrebbe
semplicemente ignorati. Tony si passò le mani tra i capelli,
cercando di riordinare le idee o, più che altro, di
eliminarne una parte nella speranza di ridurne il sovraccarico.
Non
aveva più
tempo. Era troppo tardi per rimediare agli errori
e troppo
presto per pensare di poter andare avanti, di poter trovare qualcosa
dove non c'era niente.
Non ce la faceva più. Aveva solo voglia di
chiudere gli occhi e dormire, sperando che quando li avrebbe
riaperti, entrambi, si sarebbe risvegliato nella
sua casa,
insieme alla sua amata assistente dai capelli rossi e alle sue
armature...
magari anche con un reattore in corpo: poteva sopportarlo, se la sua
vita fosse tornata esattamente com'era con un semplice battito
di ciglia.
Troppe volte si era risvegliato volendo credere che fosse
stato tutto un terribile incubo e che il dolore fosse solo
un'illusione. Ma l'illusione non c'era; non c'erano trucchi
né inganni ed era tutto assolutamente vero, al
punto da avergli distrutto
la vita pezzo dopo pezzo, come un castello di sabbia che si dissolve
alla prima onda troppo vicina.
Tamburellò distrattamente sul
reattore, ormai abituato al netto seppur esitante ticchettio che
provocavano le sue dita meccaniche sulla piastra metallica.
Scostò
il colletto della polo, sbirciando il congegno che lo teneva in vita,
o meglio, l'intrico di tenui venature bluastre che si diramavano da
esso.
Si era allargato?
Quella più evidente si era ormai
congiunta all'altro reticolo semitrasparente che scaturiva dalla
protesi, sulla clavicola. La situazione era ancora sotto controllo,
si ripeté: non aveva avuto bisogno di cambiare il nucleo di
palladio, ma la cosa iniziava a farsi realmente preoccupante.
Fissò
con astio il congegno che aveva ideato sotto suggerimento di JARVIS
per tenere sotto controllo il livello d'intossicazione; quindi lo
prese, premette il pollice sul minuscolo ago e lesse il valore che
lampeggiò dopo pochi istanti sul display: 11%. Appena il
giorno
prima era ancora al 10%, realizzò con un'improvvisa morsa di
paura.
Questo con un reattore e due micro-reattori in corpo. Non
era poi così alto, doveva ammettere, ma per quanto tempo
sarebbe
rimasto in quei range? In pochi mesi sarebbe salito al 20, 30%. I
micro-reattori erano in grado alimentare le protesi ancora per una
cinquantina d'anni. Quanti ne avrebbe vissuti lui? Due? Quanto
poteva reggere il suo corpo già così indebolito?
Il suo pensiero corse
involontariamente a Pepper. Avrebbe dovuto dirglielo, così
avrebbe
potuto infuriarsi anche per quello, ma il solo pensiero gli
causò un
dolore sordo allo stomaco, come se qualcuno gli avesse sferrato un
pugno.
Posò di
malagrazia il dispositivo sul bancone. A pensarci bene non aveva alcuna voglia di
lavorare sulle
protesi, né di fare qualcosa di diverso dallo stare seduto a
fissare
il soffitto del laboratorio. Scosse la testa e prese l'arto
meccanico, reiserendolo nella sua sede con uno
scatto secco e un gemito soffocato. Rimase per qualche secondo
ripiegato su se stesso,
inerte, nel silenzio pesante del laboratorio rotto solo dai suoi
respiri
profondi.
Si raddrizzò dopo un intero minuto in cui il dolore aveva
tenuto lontana qualunque riflessione, risvegliando il malsano istinto
di staccare e riattaccare nuovamente la protesi, così da
prolungare quel momento di lieto oblio. Dominò
quell'impulso e riprese inevitabilmente a pensare. Non si
sforzò neanche di indirizzare le
sue riflessioni verso una rotta ben precisa: le
lasciò
scorrere con fare indifferente, come se non gli appartenessero. Se il
solo odore dell'alcool non gli avesse dato la nausea, ne avrebbe
volentieri bevuto un sorso per accompagnarne l'andazzo ondeggiante.
Iron Man. Pepper. Le protesi. Il
sequestro delle protesi. Pepper. Le Stark Industries. Christine.
L'Afghanistan. Suo padre. L'intossicazione. Pepper. L'occhio. Ancora
Pepper. Sempre Pepper.
Lo aveva perdonato? Ne dubitava. Lo avrebbe mai fatto?
Dipendeva da lui. Voleva veramente essere
perdonato?
Forse
no: avrebbe voluto dire che sfasciare la casa, farle male, ridursi
sull'orlo del coma etilico, vomitare l'anima, attirarsi le ire dei
Vendicatori ed essere irremediabilmente ingrato erano tutti
comportamenti perdonabili.
Si passò le mani sul volto, in un
gesto stremato. Come diavolo ci era arrivato, lì?
Eppure
all'inizio non era sembrato così difficile.
Un paio di protesi:
poteva farcela; un occhio andato: poco male, avrebbe trovato una
soluzione; capi d'accusa che piombavano da tutte le parti:
probabilmente se tutti non fossero stati così preoccupati
non si
sarebbe neanche presentato in aula. Poi era arrivato una sentenza
definitiva dall'unica persona di cui si fidasse ancora. Verdetto:
irrecuperabile.
E poi aveva
cominciato a pensare, a ripercorrere le volute contorte che l'avevano
condotto a quello sfacelo. Gli capitava troppo spesso di perdersi nella
freneticità del momento e realizzare solo troppo tardi cosa
vi fosse
all'origine.
Iron Monger, certo. Era stato lui a ridurlo in quello
stato pietoso. E dentro la macchina, l'uomo, l'amico.
Cercava
di non pensarci, ma quelle rare volte riusciva solo a provare
un'atroce delusione e una rabbia cieca e ingiustificata: Obadiah
ormai era morto. L'aveva ucciso lui, a quanto pareva. E se all'inizio
ne era rimasto quasi scioccato, adesso rimpiangeva di non riuscire a
ricordare l'esatto momento in cui quello che avrebbe dovuto essere la
sua guida era stato carbonizzato dal reattore. Poteva dire di aver
avuto almeno un briciolo di giustizia per ciò che aveva
subìto. Per quanto non fosse un
pensiero nobile ne traeva una qualche, seppur amara,
consolazione.
Era a quel punto, quando la sua mente si districava
tra il groviglio dei suoi ricordi fino al nodo di Stane, che
intravedeva le radici della sua rabbia inconsumabile, e in quel punto
cercava di ritrarsi di scatto, distoglieva i pensieri, serrava l'unico
occhio fingendosi completamente cieco. Perché l'immagine
successiva che lo
colpiva era la sabbia rossa del deserto, proiettili che sibilavano e
una bomba con sopra impresso il suo nome che gli esplodeva in faccia.
E l'esplosione rimbombava all'infinito, nell'eco di centinaia di
altre bombe, mine, ordigni, tutti con il netto e preciso marchio STARK che spiccava
sulla corazza plumbea. Ad ogni
detonazione, un ferito, un morto, un mutilato. Un viscido senso di
colpa che gli mordeva le viscere.
Avrebbe pensato che fosse a
causa di una qualche remota giustizia divina che si trovava con
qualche pezzo di ferro in più, se non fosse stato per il
fatto che
quei pezzi di ferro lo tenevano in piedi e gli permettevano di
vivere. Un privilegio, assieme a quello di aver potuto dirottare la
propria vita in una direzione migliore, che lui stava sprecando e
buttando al vento. In
quei momenti avrebbe voluto strapparsi le protesi, il reattore,
l'anima, se solo avesse potuto.
Che se ne faceva un corpo rotto, di
un'anima?
Magari la "giustizia divina" aveva solo
fallito nel suo intento e non c'era alcun profondo motivo da
conferire
alla propria esistenza. Magari stava solo lottando contro
qualcosa che
in fin dei conti era ineluttabile.
Riprese a tamburellare sul reattore,
mordendosi il labbro inferiore con fare concentrato, lo sguardo fisso
sulla
parete delle armature ancora schermata. Non le vedeva, ma vedeva
il proprio riflesso leggermente distorto. Si chiese quanta differenza
ci fosse, ormai, tra i resti contorti delle armature e il suo corpo
rotto e mutilato.
"Forse..." quella
considerazione fu troncata di netto dal suo buon senso, il poco che
gli era rimasto.
Il suo corpo non lo ascoltò e si trovò a posare
una mano sul reattore stringendo le dita sul bordo metallico. Lo
fissò,
poi fissò di sfuggita il suo riflesso; poi di nuovo le
armature, infine il
reattore. Si accigliò, frenato da una forza invisibile che
però si rivelò estremamente facile da
contrastare. Estrasse il congegno dal
suo petto e ne fissò il bagliore azzurrino. Il nucleo di
palladio
fumava appena, ma era pressoché integro.
Peccato non si potesse
dire lo stesso del resto. Di tutto il resto.
Esitò,
rigirandosi in mano quel cilindretto vitale ed indispensabile, il dono
di qualcuno che aveva creduto in quello che avrebbe potuto fare.
Qualcuno che
lui, puntualmente, aveva deluso.
Perché
era troppo debole, senza la sua armatura. Perché nessuno
voleva davvero fidarsi di qualcosa di rotto. Perché non meritava di essere vivo senza
un motivo. Perché, in fondo, era sempre stato
irrecuperabile.
La luce sembrava pulsare nel suo palmo, quasi fosse dotato di vita
propria. Iniziava a sentire un senso di vuoto claustrofobico al
centro del petto, col cuore che rincorreva i battiti mancati.
"Ho sentito spesso parlare di quella vocina
che ti dice 'stai facendo una stronzata'..."
Poggiò il
reattore sul tavolo, reclinò la testa all'indietro e chiuse
l'occhio, in quieta attesa.
"...io non la sento."
Revisione effettuata il 04/03/2018
Note delle Autrici:
Avevamo promesso di pubblicare il 18... e in effetti è così. un po' in ritardo, ma è ancora il 18 Marzo. Impegni vari ci hanno impedito di essere puntuali, ma... non è quello che vi interessa. Vi interessa piuttosto la sorte di quel pover'uomo *omino indica in alto*.
Perché, su, a parte l'angst dirompente, ammettete che ogni tanto vi strappiamo un sorriso o una voglia di suicidarvi per il fluff -o forse no.
(Siete tantissimi! *-*)
Grazie di cuore a tutti e per tutto!
*Tony fa ciao ciao, un po' moribondo*
P.S.: Ci scusiamo per l'estremo ritardo, ma l'editor faceva i capricci. Ed è venuto fuori un "Text-wall" assurdo. Ooops.
P.S.2: Non abbiamo risposto alle recensioni nello scorso capitolo, e ci scusiamo, ma come avrete capito è stato un miracolo riuscire a pubblicare per tempo a causa di imprevisti e impedimenti vari. Promettiamo di rispondere al più presto: sabato noi menti malvagggie ci vedremo e rimedieremo ;)
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