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Autore: bloody_lily    22/08/2004    3 recensioni
Non so come abbia potuto pensare a una cosa con questa ambientazione proprio oggi, dopo essere stata tutto il giorno al mare… mah. C’est la vie, Lily, come dice la canzone di Joe Dassin…
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Here Today, Gone Tomorrow

Here Today, Gone Tomorrow.

 

Non so come abbia potuto pensare a una cosa con questa ambientazione proprio oggi, dopo essere stata tutto il giorno al mare… mah. C’est la vie, Lily, come dice la canzone di Joe Dassin…

 

 

“And I think of times we were together
As time went on it seemed forever
But times have changed
Now things are better
Someone had to pay the price”

Here Today Gone Tomorrow, Ramones

 

Non avevo mai visto una Milano così tremendamente grigia e fredda e costretta in un’aura di gelo invernale apparentemente perenne. Neanche quando ero solo uno stronzetto liceale e le maniche della giacca mi sembravano sempre troppo corte e la mia corporatura sempre troppo affilata per resistere alla foschia satura di smog mi ero mai sentito così solo e dimenticato e sconfitto. Non credevo di essermi sentito tanto infelice neanche nel ricordo in cui mia madre mi trascinava in giro per la città umida e distaccata e cementificata e io invano esercitavo tutta la mia forza per scappare lontano.

E allora guardavo il pavimento di marmo e i vetri appannati delle finestre e mi giravo una sigaretta di erba indiana, bestemmiando davanti alla televisione orientata su un programma di cucine natalizie. Odiavo la vecchietta in grembiule che saltava la pasta e il conduttore che sorrideva e il pubblico che sorrideva e l’operatore che li inquadrava a turno. Odiavo il manoscritto incompleto che sapevo giacere da qualche parte nel cassetto della scrivania e la macchina da scrivere che mi ero comprato apposta per finirlo e il suono dei tasti che produceva. Odiavo quello che alla fine ero riuscito a fare della mia vita e di quella di Chiara e probabilmente ciò che avrei fatto di quella del bambino che Chiara stava aspettando. Odiavo il mio potenziale sprecato e la mia incessante ricerca di felicità che non arrivava mai e la mia difficoltà a rapportarmi con i compromessi e la praticità della vita e la vita in generale. Odiavo il pensiero di non capire un cazzo.

Quando è squillato il telefono stavo odiando anche la neve che stava cominciando ad ovattare la città. Un nevischio fino e obliquo e inquinato che sentivo quasi nelle ossa nonostante fossi chiuso in un appartamento al di là di tutto riscaldato più che decentemente.

Ho detto “Pronto” e tossito appena. Maledetti lustri di fumo assiduo.

Ho detto “Chi è?” dopo qualche secondo di silenzio. Maledette prese per il culo da vigilia di Natale.

Stavo già per sfoderare un qualche “Me ne batto il cazzo di chi sei e vattene affanculo” quando ho sentito una voce conosciuta.

“Martino?”

Non sentivo né tantomeno vedevo il Maltese da mesi. Probabilmente anni. Ricordavo con precisione il giorno in cui era partito per Amsterdam, ci eravamo lasciati con due baci sulle guance e la promessa di scriverci o telefonarci. Ma alla fine ci eravamo dimostrati due grandi marinai.

In ogni caso lui era il mio migliore amico dal ’76 e precisamente dal giorno in cui incrociandomi per i corridoi del liceo aveva guardato la mia copia di Stato e Anarchia e sorriso.

Ho detto “Buon Natale, Maltese” con tono più cinico e stanco e arrochito di quanto avrei voluto. Ma ero più cinico e stanco e arrochito di quanto avrei voluto.

Ha risposto “Anche a te. Sei a preparare la cena?” ho immaginato che stesse come sorridendo, e mi sono incupito ancora.

Ho grugnito, credo. Ho detto “No, mi sto tagliando le vene. Niente cena” e mi sono passato una mano fra i capelli.

Ha fatto un’altra pausa cauta. Daniele, cazzo…

Alla fine ha chiesto “Tutto a posto?” e mi è sembrato di vederlo guardare in tralice con quelle sue occhiate ruvide la cabina da cui immaginavo stesse chiamando. Non ricordo chi di noi due avesse iniziato -molto tempo prima- a parlare evidenziando certe parole. Una delle tante espressioni e abitudini e posizioni che non ricordavo da chi provenissero e che alla fine erano diventate patrimonio comune.

Comunque certo. Tutto a posto caro.

E mi è venuta voglia di rivederlo. Vedere se esistono davvero dei punti di riferimento o se lo scivolare della merda nei tubi si porta via tutto. Se il tempo lascia terra bruciata e deserta dietro di sé o se qualche oasi ce la lascia come appiglio.

Ho detto “Sei qui a Milano?”. Ho sperato di sì. Poi di no. Infine ancora di sì.

Ha risposto “Sì. Mi è venuto un certo capillare di masochismo, credo”.

Gli ho detto “Ti va di tagliarti le vene con me?” senza neanche rendermene conto. Ho realizzato che gli andava ma soprattutto che mi stava chiamando dalla cabina sotto il palazzo quando qualche secondo più tardi ha suonato il campanello.

 

Ci siamo salutati con due pacche sulle spalle. Non mi sono vergognato di mostrargli l’appartamento spoglio di ogni arredamento natalizio, ma ho immaginato che entro qualche ora sarebbe arrivato in una casa vera, riempita di ghirlande e arance arrostite e presepi e alberi addobbati e lucine e bucellati e mi sono incupito ancora. Poi ho pensato che non era nel suo stile né in quello di Linda fare tanto casino per una festa così convenzionale e speculativa. Rimaneva il fatto che entro qualche ora sarebbe arrivato in una casa vera, riscaldata con due stufe e un camino e il sorriso di Linda l’avrebbe illuminato di un immenso piuttosto languido, mentre io sarei rimasto in quella gabbia d’oro di attico nel centro di Milano solo e senza sigarette e bastoncini di liquirizia e avrei cercato inutilmente quanto disperatamente qualcosa da fare per non mettermi a piangere come un bambino che nella calza della befana trova solo carbone.

Daniele è arrivato in salotto, si è seduto sul sofà e ha dato un tiro alla sigaretta d’erba che avevo lasciato incustodita mentre andavo ad aprire.

Ha ripetuto “Tutto a posto?” e si è acceso subito una Marlboro, guardandomi con lo sguardo a fessura che ha sempre assunto per sboffare in alto il fumo.

Mi sono lasciato cadere sulla poltrona e l’ho guardato in silenzio, finendo la mia paglia.

Portava un dolcevita ocra un paio di jeans lisi un po’ ovunque e un paio di Doc color ciliegia slacciati. Era arrivato così, senza giacca o borsa o alcun altro accenno di bagaglio e ho pensato che io e lui eravamo sempre stati così uguali in questo nostro ridurre al minimo la zavorra materiale. Non ci sentivamo radicati in nessun posto né oggetto e incoscientemente rifiutavamo i possibili legami con entambi.

Ho detto “Come no. Chiara è da qualche parte del mondo con un bambino che nascerà fra due mesi e il mio editore mi ha dato le paste fin’ora per un cazzo di libro che non ho ancora scritto e suppongo che mi fanculizzerà entro la fine di quest’anno. Che vita di merda. Quando ci arriverò, lassù avranno un bel da fare per impedirmi di sfasciare tutto”.

Daniele mi ha guardato ancora più intensamente, mi ha porto il suo pacchetto di Marlboro e dato una pacca sulla spalla.

Ha sospirato “Peccato. Credevo che non vi avrebbe diviso neanche il giudizio universale. È tutto troppo avanti e irrecuperabile?”

Ho pensato alla faccia di Chiara che usciva di casa con il borsone della piscina pieno di abiti, al suo cipiglio deciso e sconvolto e malinconico e dolceamaro e alla ruga di preoccupazione impressa sulla sua fronte su cui tante volte avevo passato il dito e alla felpa larga che gli copriva la pancia e alla coda alta che imprigionava la sua chioma dorata e ai capelli boccolosi che scendevano a incorniciare l’ovale grazioso del suo viso. Ho rivissuto i suoi occhi celesti su di me per la prima volta e annuito “La frenesia di questo periodo non mi ha lasciato pensare a niente, mi sono lasciato trasportare troppo dai ritmi e dalle sensazioni sgradevoli che mi guidano quando sto qui a Milano. Ma siamo dovuti tornare: la stagione giù alla Maddalena era finita, d’inverno non ci sono turisti a cui far fare il giro dell’arcipelago. Abbiamo tirato su la barca e deciso di trasferirci qui per l’inverno, anche visto lo stato di Chiara. Ma ho sbagliato tutto. Non posso più vivere a Milano, sono diventato ancora più estremista e stronzo e incapace e infelice e antisociale. E lei non ha potuto sopportare la situazione da sola. È andato tutto a puttane in qualche settimana. Alla fine ha preso e se n’è andata da sua madre. Se n’è andata, Maltese, e io sono rimasto con un pugno di pagine da scrivere in mano e senza di lei che era la mia poesia. E, porca puttana, sono diventato maledettamente svenevole”.

Daniele mi ha sorriso triste, ha spento la cicca ormai ridotta al filtro e ne ha accesa un’altra.

Ha detto “Anche Linda se n’è andata. Ieri l’altro, con il nostro piccolo Marino” e ha sospirato.

Mi sono passato una mano fra i capelli, mi sono morso il labbro inferiore. Ho detto “Sai, Maltese, per quanto abbiate sempre litigato e discusso e vi siate sempre presi e mollati io ho sempre assunto il vostro legame come qualcosa di indistruttibile e intoccabile e imperituro”.

Daniele ha annuito assorto, tirato un’altra boccata e sorriso triste di nuovo.

Dopo un po’ ha detto “Ce ne andiamo, Marti?” e mi ha guardato acceso d’interesse come sapeva esserlo prima di ogni idea apparentemente stronza, come ubriacarsi la notte prima della discussione della tesi. Ha detto “Ce ne andiamo a passare uno stupidissimo Natale a Parigi, a casa mia. O nel mio pub…”

E dopo un altro po’ ha detto “Vuoi guidare tu?”, ha indicato con un paio di chiavi una Jeep probabilmente non del tutto integra parcheggiata dall’altro lato del portone che si stava chiudendo dietro di noi.

Ho scosso la testa ghignando, e lui ha sorriso con l’aria di un bimbo che ha appena ricevuto il suo regalo.

 

L’orologio sul cruscotto segnava mezzanotte e venti. Ovvero era praticamente Natale.

Daniele guidava rilassato. Teneva il volante con una mano, mentre l’altra era abbandonata fuori dal finestrino, aperto nonostante il freddo quasi polare. Camminava a velocità costante, senza bisogno di scalare marce, nella corsia di sorpasso. Guardava la strada, i campi brillanti di ghiaccio ai lati, il cielo buio e cirroso, me, e sorrideva, pensava a voce alta, parlava. Parlava muovendo un angolo solo della bocca perché nell’altro era imprigionata una Marlboro. Non aveva ancora imparato a tenerla tra le dita, perché quando l’ha presa in mano per smoccolare quasi gli è caduta sui pantaloni. Non avrebbe mai imparato, ho pensato. Le sue mani sarebbero sempre state troppo occupate per una sigaretta. Rideva, anche. E poi scanticchiava su una vecchia canzonaccia dei Ramones, dandomi pacche sulle ginocchia secondo i suoi impulsi quasi aggressivi di contatto affettuoso.

L’ho visto così sradicato dalla mia realtà, così rock e serenamente affatto padrone delle circostanze in cui viveva che sono arrivato ad attribuirgli la colpa di tutto. Il litigio furibondo con Chiara, la sua scomparsa, il bambino, la desolazione profonda degli ultimi tempi. Covavo dentro la rabbia per la scoperta di essere stato abbandonato quando invece avevo bisogno di un amico vicino. Lo ascoltavo senza parlare e traducevo in prese in giro tutte le espressioni affettuose o per lo meno cortesi che mi rivolgeva, dimentico del fatto che soffriva della sua situazione quanto io soffrivo della mia, ma come al solito non ne parlava per non farlo pesare.

A un certo punto ha detto “Marti, mi dispiace”.

Gli ho risposto bruscamente “Dispiace anche a me”.

Lui ha stirato le labbra, malinconico, ed è tornato a guardare la strada dritta. Ho continuato a guardarlo. I capelli gli arrivavano adesso fino alle spalle, mossi e scarruffati più che mai. Aveva una cicatrice sulla parte destra del mento e le guance ispide di barba biondastra. Ho cercato di sovrapporre la sua immagine di adesso con quella di quando eravamo all’università, ma le sue parole hanno catturato la mia attenzione prima che potessi controllare se combaciavano.

Ha continuato “Ho lasciato correre il tempo. Questa volta ne è passato troppo. Ma per quello che ne sapevo tu avevi Chiara e una vita felice e io solo un mare di guai. Ho pensato che forse era ora di crescere, imparare a cavarmela da solo… e alla fine ho rovinato tutto lo stesso. Linda se n’è andata portandosi via Marino, tu hai lasciato Chiara… con un bambino. E avevi bisogno di me, e io non c’ero”.

Ho chiesto “Sei cresciuto, almeno, come volevi?”. Sentirlo parlare così era come ufficializzare il tradimento, e mi faceva incazzare ancora di più.

Ha detto “No”. Si è girato e mi ha sorriso appena, ancora più malinconico.

Ho esitato qualche secondo. “Siamo due coglioni. Siamo due coglioni grandi e grossi che non hanno capito un cazzo della vita”.

Ha ridacchiato, ma credevo che l’avrei visto piangere di lì a poco.

Seguendo il filo dei miei pensieri ho detto “Le immagini non combaciano, alla fine. Ma a questo punto mi chiedo se combaceresti con la tua copia allo specchio”.

Ha accostato nella corsia di emergenza in qualche secondo, è sceso dalla macchina e si è seduto sul guardrail. Sono sceso anch’io.

Ha detto “Sono cambiate tante cose, Marti, e voglio che cambino ancora. Non voglio più crescere, se significa che non dobbiamo più occuparci l’uno dell’altro”.

Non credevo che la rabbia si sarebbe sciolta al suono di una dozzina di parole e non credevo che avrebbe trovato quelle giuste ma soprattutto non credevo di saper ancora piangere, dopo tutto quel tempo. Invece un luccicone solitario mi ha sceso la guancia. L’ho lasciato disegnare una curva morbida sulla mia gota arrossata dal freddo, prima di cancellarlo, perché non riuscivo a capire se stavo proprio piangendo.

Daniele si è alzato e mi ha pizzicato una guancia, mi ha abbracciato. Era commosso, credo, e felice. Lui che cercava la felicità così ardentemente da bruciarsi con i suoi stessi desideri.

Ho realizzato che erano davvero cambiate tante cose, ma le sue mani continuavano ad essere troppo occupate per imparare a tenere una sigaretta, le sue braccia continuavano ad essere stupidamente consolatorie, i suoi maglioni continuavano a odorare di muschio bianco e della giacca di pelle con cui li copriva e probabilmente lui stesso continuava sul serio ad essere capace di ubriacarsi la notte prima di un evento importante come la discussione della tesi.

Gli ho detto “Mi sei mancato, stronzo di un Maltese”. Gli ho stretto una spalla e allora – forse per la prima volta nella mia vita – ho cominciato a sentire in me un certo slancio la notte di Natale.

 

 

 

 

 

  
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