Blind
Don’t go and leave me
and
please don’t drive me blind
Non
aveva
mai conosciuto nessuno come Albus.
Mai.
Questo
pensiero era diventato velocemente un ritornello, mentre camminavano
uno
accanto all’altro, abbastanza vicini da potersi toccare
allungando una mano, ma
abbastanza lontani da non sfiorarsi per caso. Quasi un tarlo nella sua
mente.
Un chiodo fisso.
Non
conosceva nessuno come Albus.
Lanciò
uno
sguardo furtivo verso di lui. Non lo stava guardando, concentrato sulla
fitta
vegetazione di un brillante verde smeraldo ai bordi del selciato. Un
sottile
percorso di terra battuta, creato dal passaggio di altri visitatori
prima di
loro.
Ancora una
volta si stupì della confidenza e della fiducia che il
ragazzo riponeva nei
suoi confronti.
Aveva la
guardia completamente abbassata. Non si preoccupava neanche di tenerlo
d’occhio.
Sciocco.
Avrebbe
potuto attaccarlo. Sopraffarlo, anche. Se in condizioni normali,
avrebbe avuto
remore a farlo per paura di un esito sfavorevole, adesso avrebbe
potuto. E
avrebbe vinto, ne era certo.
Ma
non
l’avrebbe fatto.
E
forse lo
sapeva anche Albus. Forse, la sua fiducia era stata dettata proprio da
questa
conoscenza. O magari dalla speranza.
Stizzito,
raddrizzò il bavero del cappotto affinché gli
coprisse meglio il viso. La lana
spessa gli solleticò la pelle delicata della mascella,
facendogli storcere il
naso.
L’aria
era
spessa, densa, ma in qualche modo rinvigorente.
L’umidità si poteva quasi
toccare e le piccole gocce d’acqua, che si raccoglievano
sulle foglie delle
fronde cascanti, cercavano lentamente lo scontro con il terreno,
scivolando
verso il basso.
Nonostante
fosse metà Agosto, non c’era caldo, ma un fresco
pungente. Del resto, le
montagne di Wicklow erano famose proprio per il loro clima rigido, e la
stessa
Irlanda vantava una lunga tradizione di estati piovose e di acquazzoni
improvvisi.
Non era
sicuro di apprezzarlo, ma ciò non aveva la minima
importanza. Erano venuti lì
con un intento ben preciso, dopo il quale se ne sarebbe andati. Senza
il minimo
rimorso per l’abbandono della Terra di Smeraldo, per quello
che gli riguardava.
Erano
passati dieci minuti scarsi quando arrivarono al piccolo cimitero.
Aveva appena
cominciato a piovere. Una pioggerellina fitta ma leggera che lasciava
sul viso
un velo impercettibile. Come il sudario di un moribondo.
Superarono
senza una parola le tombe e le imponenti croci celtiche che le
vegliavano, così
come la piccola chiesetta, ormai in rovina. Dopo poco, giunsero
finalmente alla
loro meta.
La
torre
circolare.
Ovviamente
i
Babbani non sapevano cosa fosse davvero quella costruzione di una
trentina di
metri, senza nessuna entrata visibile.
Visibile per
loro, almeno.
Vide
Albus
girarvi intorno con fare incuriosito e calcolatore fino a fermarsi
d’improvviso
di fronte ai mattoncini irregolari su un lato. Li sfiorò
delicatamente con una
mano e poi si girò verso di lui, un lieve sorriso ad
increspargli le labbra
sottili.
« Vuoi avere l’onore, Gellert?
» chiese affabile, inclinando appena la
testa di lato.
Lui spinse in avanti il mento, invitandolo a
procedere con un
movimento della mano e Albus gli diede di nuovo le spalle, per
guadagnare
l’entrata alla torre con un paio di decisi e complicati
movimenti della
bacchetta.
Fu questione di pochi secondi e una serie di mattoncini
svanì,
rivelando un’entrata stretta che lasciava intravedere alcuni
scalini che si
perdevano nel buio.
Questa volta Albus non lo interpellò e fece strada,
precedendolo nella
rampa di gradini stretti e sconnessi che salivano seguendo il moto
circolare
della torre. L’oscurità non era un problema per
lui e, a quanto pareva, neanche
per Albus, che procedeva spedito e sicuro, senza appoggiarsi neppure
alle
pareti in cerca di sostegno.
Una volta arrivati in cima poté liberare un sospiro
soddisfatto.
Era esattamente quello che stavano cercando.
La croce di Saint Kevin.
O meglio, la pietra incastonata al centro della
grande croce celtica
di granito.
Lo
splendido
artefatto si trovava nel mezzo della piccola stanzetta circolare, posta
su un
cuscino di velluto. Era l’unico oggetto presente, fra quelle
pareti spoglie e
chiazzate dall’umidità, ma non era quello il
motivo per cui era impossibile
distoglierne lo sguardo. Il potere che emanava era quasi percepibile
fisicamente. Lo sentiva. Non ad ondate, ma una presenza imponente,
ingombrante,
quasi solida.
Sentì dei
brividi corrergli lungo la spina dorsale di fronte
all’evidenza di tanto potere.
L’anticipazione di quello che avrebbe potuto finalmente
compiere lo eccitava.
Era vicino. Così vicino.
Impaziente
di raggiungere la pietra, cominciò a controllare gli
incantesimi di difesa e si
apprestò subito a disfarli.
La mormorata
litania in latino fece brillare per un attimo nell’aria delle
rune celtiche,
che però scomparvero immediatamente.
Questa volta
fu lui a precedere Albus e si chinò fluidamente
sull’oggetto, studiandolo.
L’altro ragazzo gli si accostò silenziosamente e
prese ad osservare anch’egli
la croce.
Una
bruciante vampa di irritazione lo invase dopo pochi secondi.
Irritazione e
delusione. Delusione e furia.
Solo la voce
calma di Albus lo distolse dal prendere la croce e scagliarla contro il
muro.
«
“Abbiate fede” »
recitò,
leggendo dall’incisione sotto l’incastonatura.
« Conosci il gaelico, Albus? »
mormorò, il tono così piatto da
sembrare più un’affermazione che una domanda.
« Ti sorprende? » ritorse lui,
un leggero sorrisetto divertito a
curvargli le labbra.
« No » fu la secca risposta.
Non lo sorprendeva minimamente, infatti. Aveva
già avuto modo di
constatare e ammirare i molti talenti di Albus Dumbledore. Non a caso
erano lì
insieme.
Era l’unico, Albus.
L’unico con cui avrebbe potuto accettare
di dividere quella missione,
l’unico che avrebbe potuto aiutarlo. L’unico che
potesse capire.
L’unico e il solo.
« Lo conosci anche tu. E la cosa non mi
sorprende affatto » affermò
dolcemente il ragazzo al suo fianco, sempre con quel leggero sorriso.
Sembrava
che ultimamente, niente potesse cancellarglielo dal viso.
Che cos’era?
Interesse per la ricerca?
Certo, certo. Quello c’era. Lo sapeva
bene. Albus era affascinato dai
Doni quanto lui. Era ansioso di trovarli. Soprattutto questo.
Soprattutto la pietra. La desiderava come niente prima.
E Gellert intuiva il perché.
Avrebbe potuto riavere
la sua
famiglia indietro.
E con loro, la sua libertà.
Ma non era per quello che sorrideva.
Era per lui? Per la sua compagnia?
Era consapevole di cosa Albus provava per lui.
Quell’affetto, quella fiducia nei suoi confronti erano la
causa del
suo sorriso? Quella fiducia..
Sciocco.
« Fede! » sputò
Gellert con disprezzo « Abbiate fede! »
« Non è lei »
asserì Albus in tono greve.
« No, infatti! Non lo è!
» sibilò lui « E noi abbiamo solo perso
tempo! »
Non importava più il potere che
proveniva da quella croce. Non contava
più che l’artefatto magico lo avesse attirato fino
ad un minuto prima con
lusinghe e promesse di forza e possibilità. Non poteva
più farlo. Non quando
era così palese di che tipo di magia, di che tipo di potenza
si trattava.
Fede.
Quella era la fede di una piccola e insignificante
comunità di monaci
Babbani che un mago demente aveva raccolto e racchiuso lì.
Assolutamente inutile.
« E’ sicuramente un oggetto
potente, Gellert » considerò invece
l’altro ragazzo, il suo consueto sfavillio negli occhi.
Per la prima volta odiò quel luccichio
in quei profondi occhi azzurri.
Li aveva sempre, se non ammirati, apprezzati, almeno. Quello sguardo
penetrante, rivelatore di un’intelligenza e di un acume fuori
dal comune. Di un
abilità innata. Quell’azzurro limpido che
più volte si era acceso di
convinzione ai suoi discorsi più accorati. Lo stesso
scintillio che lo aveva
accarezzato durante i loro progetti più dolci.
I loro sogni migliori.
In quel momento lo odiò.
Sembrava prendersi gioco della sua disfatta, del
suo fallimento.
No.
Era la loro disfatta,
ormai.
Il loro fallimento.
« Non ci serve. Non possiamo neanche
utilizzarla » disse in tono
asciutto, trattenendosi dal sottolineare
in tono acido un “e lo
sai”.
« Sì. Ma è comunque
interessante » osservò il ragazzo, tornando a
sorridere.
Ah! Mero interesse scientifico, dunque!
Avrebbe dovuto immaginare che ad Albus sarebbe
piaciuto studiare anche
questo tipo di magia, per quanto completamente inutile ed inapplicabile
alla loro
causa.
« Non abbiamo tempo per questo
» fece notare, questa volta con un tono
più calmo e indulgente.
« No, infatti. Abbiamo questioni
più pressanti al momento » commentò
il ragazzo, raddrizzandosi con un movimento fluido ed elegante
« Andiamo ».
Gellert lo seguì giù per i
ripidi scalini, senza riservare un
ulteriore sguardo alla croce dietro di sé e alla pietra che
rifletteva un cupo
bagliore.
Si Smaterializzarono a Godric’s Hollow
senza difficoltà, nonostante
l’enorme distanza. Non appena toccò il suolo,
Gellert Grindelwald riprese a
camminare con passo veloce e deciso, quasi una marcia.
C’era vento. Molto più di quanto fosse tollerabile
per una passeggiata
all’aperto, ma Gellert realizzò che non gli
interessava.
Voleva solo muoversi. Magari anche correre. E urlare. Sì.
Voleva
gridare, strepitare, rompere qualcosa, forse.
La
delusione
e la rabbia gli stringevano il cuore in una morsa.
Pensava…
aveva
creduto… gli era sembrata così vicina…
così vicina… a portata di mano…
lì
davanti a lui…
Ma
non era
lei, si ripeté con frustrazione. Non era lei.
Non
tenne
conto di dove i piedi e la sua necessità di movimento lo
stessero conducendo
sino a che non si arrestò bruscamente. Non era minimamente
sorpreso della meta
raggiunta.
Si trovava
al limitare del villaggio, ai bordi del piccolo boschetto di querce che
circondava l’antica casa del grande Godric, cofondatore di
Hogwarts.
Scorse un
angolino appartato, fra le fronde di un albero storto e particolarmente
inclinato verso il basso in una linea sinuosa.
Era il loro
posto quello.
Il
loro
rifugio.
Albus
ci
andava quando non riusciva più sopportare la sua prigionia.
Quando stava per
scoppiare. Quando era esasperato abbastanza da voler solo urlare la sua
frustrazione e fuggire, andare via.
Lo
aveva incontrato
lì per la prima volta. Ancora prima che sua zia glielo
presentasse. Lo aveva
visto durante una passeggiata, un ragazzo magro e sottile, appoggiato a
quel
tronco. Lo aveva sentito respirare profondamente nel tentativo di
calmarsi, i
lunghi capelli rossi disordinati sul viso.
Si
era
avvicinato, curioso.
Ed
era stato
colpito. Trafitto. Perforato da quello sguardo così
inadeguato su quel viso
dolce, così inopportuno.
Ti
leggeva
dentro, Albus Dumbledore. E Gellert aveva scoperto di non dispiacersene
neanche
un po’. Neanche quanto avrebbe dovuto.
Non
si erano
parlati, ma quello sguardo non lasciava adito a dubbi.
Albus
sapeva. Albus avrebbe capito. Lo avrebbe capito.
Quello
era
diventato il loro punto di ritrovo. Il custode dell’angoscia
di Albus si era
mutato in protettore dei loro segreti, benevolo spettatore dei loro
progetti.
Riparati dalla piega di quel tronco, gli avevano affidato i loro
desideri più
intimi, le loro brame più nascoste e tutte le ambizioni mai
confessate prima.
E
ora
avrebbe lenito anche le delusioni più brucianti.
Si
gettò sul
prato, poggiando la schiena sul tronco, la parte anteriore del corpo
rivolta
alla parte più interna del bosco.
Sentiva
l’ira crescere sempre di più invece di scemare e
l’irritazione si espandeva ad
ondate per tutto il suo corpo. Pulsava, quasi.
Non prestò
attenzione al vento che gli gonfiava la veste e gli scompigliava
furiosamente i
capelli, persino in quell’anfratto riparato, fino a quando
questo non cessò di
colpo.
Magia.
Non
si mosse,
lo sguardo fisso davanti a se ma senza mettere a fuoco niente. Non
accennò
alcun movimento neanche quando sentì qualcuno posarsi
delicatamente al suo
fianco.
Albus,
ovviamente.
Nessuno
dei
due parlò. In fondo cosa c’era da dire? Il viaggio
a Glendalough era stato un
fallimento. Fine. E’ solo che ci aveva creduto
così tanto..
Contrariamente
a quanto si sarebbe aspettato, la presenza dell’altro ragazzo
non lo
disturbava. In fondo c’erano dentro insieme, no?
Rimasero
silenti per un tempo indeterminato, ognuno perso nei propri pensieri.
Si
accorse di stare disegnando sul terreno con la punta della bacchetta
solo
quando finì il cerchio. Un cerchio dentro un triangolo,
diviso da una linea
verticale.
Maledizione.
Un
mano
leggera si posò sul suo ginocchio.
« Gellert »
Scattò la testa di lato e si
trovò di nuovo immerso in quello sguardo.
E, di nuovo, per un momento quel luccichio azzurro lo
infiammò di rinnovata
ira.
Voleva che la smettesse. Voleva farlo smettere. Voleva..
« Gellert » ripeté
Albus, il volto serio. Non sorrideva, no. Aveva
pronunciato il suo nome con solennità, quasi come un
giuramento.
Quel tono calmo sgonfiò il suo moto di
risentimento all’istante.
« Lo so, lo so »
berciò prima che potesse aggiungere altro «
E’ un
comportamento stupido! »
« No, non lo è. Sono deluso
anche io »
Non
rispose. Sapeva che era
vero. Ma lui era l’unico che stava reagendo in quella
maniera, no?
Ma del resto non sapeva anche quello? Lui era
quello emotivo.
Albus era sempre così calmo,
imperturbabile, anche quando quel povero
idiota del suo fratellino lo faceva diventare matto. Lo aveva visto al
massimo
sbuffare e respirare profondamente. Già, lui
respirava e ritrovava la pace interiore.
Per un momento provò
l’impellente impulso di turbarlo, di fargli
sgranare gli occhi in sorpresa, in preoccupazione, di farlo agitare,
reagire
violentemente. Fargli male, anche.
L’attimo si esaurì
immediatamente. Bastò un altro sguardo, un sorriso
accennato, la sua voce e qualunque istinto avesse avuto pochi secondi
prima
scomparve nel nulla.
« Continueremo a cercare. Era normale che
una tale ricerca richiedesse
tempo ed energie. L’avevamo già considerato, in
fondo» disse tranquillamente
per poi continuare con più risolutezza e decisione « Siamo gli
unici che possono farlo, Gellert.
Gli unici con sufficiente capacità. E quando li troveremo,
diventeremo più
forti ancora, i soli che avranno le facoltà e la
determinazione necessarie per
fare quello che va fatto. Lo faremo, Gellert… »
Socchiuse gli occhi.
Lo faremo,
Gellert…
Sì. Lo avrebbero fatto.
Perché andava fatto. Perché erano gli unici a
capire.
« Per
il Bene Superiore »
sussurrò, accarezzando le parole sulle labbra.
Vide Albus distendere le labbra in un sorriso
compartecipe.
« Sì. Per il Bene Superiore
»
Non avrebbe saputo dire quanto rimasero
così, seduti fianco a fianco.
Non avrebbe saputo dire neanche quanto a lungo la mano sottile di Albus
rimase
leggera sul suo ginocchio. Rimasero così, insieme,
cullandosi ancora una volta nel loro vagheggiato sogno.
Era passata una settimana dal loro ritorno
dall’Irlanda e si erano
buttati a capofitto nelle ricerche. Era fiducioso, Gellert. Lui ed
Albus
stavano facendo importanti progressi nel rintracciare il passaggio
della
bacchetta. Una scia di sangue e morte che prestissimo li avrebbe
condotti al
più potente, al migliore dei Doni.
Fra poco sarebbero dovuti partire. Era necessario. C’erano
tracce che
non potevano essere tralasciate e richiedevano un indagine accurata sul
campo.
Dovevano andare via.
Via da Godric’s Hollow.
Via dall’Inghilterra.
« Albus, è tempo ormai.
»
Silenzio.
« Non possiamo più restare
qui. Dobbiamo andare. La ricerca dei Doni
è- »
« Lo so » lo interruppe lui
« Lo so. Non c’è bisogno di ripetermelo.
So cosa bisogna fare »
Gellert annuì, compiaciuto, mentre
l’altro ragazzo fissava assorto un
angolo del salottino nel quale si trovavano, dove una piccola ragazzina
stava
scarabocchiando su dei fogli con una piuma colorata.
« Vedrai, Albus. Costruiremo un mondo
migliore. Un mondo nel quale non
succederà mai più niente di simile a quello che
è successo ad Ariana. Noi- »
« Lo so » lo interruppe ancora.
Non avrebbe mai accettato un
comportamento di questo tipo in altre occasioni, ma sapeva quanto fosse
difficile per l’altro ragazzo venire meno a quelle che
considerava sue
responsabilità verso quanto rimaneva della sua famiglia. Un
inutile fratello e
una sorella squilibrata.
Per questo ricacciò indietro
l’irritazione e si accostò ad Albus.
Posò
delicatamente una mano sulla sua. Albus ricambiò la stretta,
guardandolo con
determinazione, un fuoco bruciante nell’azzurro.
« Devi partire, Albus? »
Una voce sarcastica e aspra li fece voltare
contemporaneamente verso
l’entrata che collegava il salotto alla cucina.
Un adolescente magro e sporco era appoggiato allo
stipite della porta
e rivolgeva verso di loro lo stesso azzurro penetrante degli occhi di
Albus,
carico però di biasimo e rancore.
« Aberforth »
sussurrò il fratello, socchiudendo gli occhi, quasi
avesse appena ricevuto un colpo doloroso. Stava evitando quello
sguardo,
realizzò Gellert. Non voleva vedere il disprezzo di suo
fratello.
Come se un ragazzino mediocre e rozzo come quello
potesse permettersi
di giudicarli!
« Albus » ritorse quello,
facendosi avanti « Allora, vuoi andartene?
Vuoi abbandonarla? » lo incalzò, assottigliando
gli occhi con rabbia « Non
credi che abbia sofferto abbastanza, eh?
Allora? Rispondimi, fratello! Rispondimi! »
« No! » rispose Albus con un
singulto « Non la voglio abbandonare.
Io.. »
« Tu cosa? La vuoi portare con te? Non
puoi spostarla, lo sai che non
sta abbastanza bene per muoversi. Non te la puoi portare dietro,
ovunque tu
stia pensando di andare, per cercare questi
Doni » sputò la parola con disprezzo
« o ovunque tu voglia andare per fare
i tuoi grandi discorsi su un mondo nuovo, a cercare di convincere le
persone a
seguirti. Non puoi. E’ meglio che lasci perdere adesso,
Albus. »
« No, noi.. »
cominciò Albus, la voce incrinata ma Gellert intervenne,
allontanandosi dal tavolo dov’erano seduti, per fronteggiare
il minore dei
Dumbledore.
« Smettila, ragazzino. Tu non capisci
niente » sibilò con odio,
torreggiando su di lui.
« Io capisco che lui non può
lasciarla! » urlò quello in risposta,
indicando il fratello un dito.
« Sei solo uno stupido ragazzino!
» replicò « Non vedi che la tua
povera sorellina non dovrà più nascondersi una
volta che avremo cambiato il mondo?
Una volta che avremo liberato i maghi dalla clandestinità e
messo i Babbani
dove spetta loro? Come puoi essere così ottuso?
Sarà un mondo migliore! »
« Non mi interessa! E’ nostra
sorella! Non sarà un ostacolo nella
strada al vostro stupido mondo perfetto, non lo permetterò!
» si dibatté,
cercando di raggiungere il fratello seduto.
« Tu non farai proprio niente e non
intralcerai né me né Albus! »
replicò con la freddezza tipica dell’ira
più grande.
« La vedremo! »
berciò rovistando nella veste.
La bacchetta.
Lo stava minacciando con la bacchetta.
« Levati! » intimò.
« No, Aberforth! »
tentò Albus, alzandosi subito in piedi.
Gellert vide rosso. Come poteva quel sudicio e
ridicolo ragazzino
minacciarlo? Lui! Lui che avrebbe potuto ridurlo in cenere! Lui che-
« Ho detto levati!
Stupeficium!
»
Deviò l’incantesimo con
movimento veloce della bacchetta e gliela
puntò al petto, premendo forte.
«Crucio!» sbraitò, accecato dalla rabbia.
« NO! Gellert! »
gridò Albus da dietro.
Dovette fermare la Maledizione Cruciatus per parare
l’incantesimo che
gli aveva scagliato contro Albus.
« Basta! »
« Smettetela! »
« No, Ariana! »
Ci furono dei lampi, delle esplosioni, delle grida.
E poi solo dei
singhiozzi.
« No… no… per
favore, per favore, no… no… »
Il ragazzino era in ginocchio, per terra, la
bacchetta abbandonata
lontano. Stringeva la piccola Ariana tra le braccia, le accarezzava i
capelli
meccanicamente, gemendo e pregando.
« No, Ariana, no… per favore,
per favore no… ti prego… »
Dondolava avanti e indietro, piangendo.
No.
« No »
Un tonfo lo fece girare di scatto.
Albus era crollato per terra, sulle ginocchia, le
mani abbandonate ai
lati del corpo. La bacchetta giaceva accantonata da un lato. Lo sguardo
era
vuoto, perso. Disperato.
Spezzato.
« Non può essere »
sussurrò flebilmente. Una sola lacrima gli solcò
il
viso, scendendo lungo il naso aquilino.
Chi? Chi, di loro?
Non importava.
Doveva fuggire. Doveva andare via da lì.
Indietreggiò fino al muro. Con il
respiro rotto guardò un ultima volta
il ragazzo genuflesso sul pavimento e poi corse via.
Due uomini stavano ritti uno di fronte
all’altro, un cerchio di
persone intorno a loro.
Era passato tanto tempo.
Troppo tempo.
« Buon pomeriggio, Albus »
recitò in tono limpido e chiaro.
« Buon pomeriggio anche a te, Gellert
» rispose l’uomo educatamente,
inclinando la testa di lato leggermente , a mo’ di saluto.
Aveva i capelli
lunghi. Più lunghi di quanto li avesse portati tempo prima.
« Hai scelto proprio una
località adorabile, devo ammettere. Davvero,
molto »
Trattenne un sorriso alla mondanità del
commento. Come se non stessero
per affrontarsi in duello.
« Lieto che tu approvi » gli
concesse, avanzando di un passo
lentamente.
« Davvero » annuì in
assenso.
Gellert si rese conto che il mago sembrava assorto,
quasi distratto.
Preoccupato per il duello, forse?
No. Non credeva che il grande Albus Dumbledore
avesse realmente paura
di scontrarsi con lui.
Non era quello il motivo per cui aveva aspettato tanto, comunque.
Non voleva scontrarsi con lui.
Ma non aveva paura.
« Vogliamo iniziare, Albus? O preferisci
che organizzi una visita al
villaggio? » propose in maniera sarcastica, agitando una mano
verso il piccolo
paesino nel cuore della Foresta Nera, che si intravedeva oltre la folla
di
persone riunite per assistere allo spettacolo.
Una metà di loro erano suoi seguaci, ovviamente.
Non si sarebbe mai esposto così tanto.
« Oh, no, no. Immagino non ci sia tempo,
per quanto la cosa mi
piacerebbe » assicurò lui con un sorriso.
L’espressione di Gellert si
adombrò. Quella cortesia cominciava ad
irritarlo.
Stavano per combattere, per l’amor di Merlino! E ancora lui
manteneva
la calma! Quella stupida e fastidiosa tranquillità. Era
indisponente. Non la
sopportava. Non l’aveva mai sopportata. Eppure lo sapeva che
non era sempre
così. L’aveva visto. Era stato lui. Lui,
l’aveva infranta quella serenità una
volta…
Stranamente quel ricordo non gli diede alcun
sollievo.
« E’ tempo di mettere la parola
fine a tutto questo » disse
Dumbledore, abbandonando il tono spensierato.
Finalmente.
« Per l’appunto. Ho delle
questioni a cui attendere. Preferirei finire
in fretta » lo
provocò e con un unico,
fluido movimento, estrasse la bacchetta e gli lanciò contro
una maledizione.
Ovviamente venne deviata prima ancora che potesse arrivargli anche
solo vicino. Non lo vide neanche tirare fuori la bacchetta.
Chiaramente non credeva che quell’incantesimo lo avrebbe mai raggiunto. Lo stava
solo stuzzicando.
Era ben cosciente dell’incredibile forza di Albus Dumbledore.
Un vero peccato che sarebbe dovuto morire quel
giorno.
« Ansiosi, eh? Spero che ci metterai un
po’ più di convinzione,
Gellert. Non vorrei che tutto questo finisse troppo in fretta. Sai fare
meglio
di così, sono sicuro » ritorse lui, lanciandogli
contro un raggio di luce
violetta.
Gellert glielo rispedì contro e Albus lo
deviò verso un albero ai lati
che prese fuoco. Le persone in circolo indietreggiarono freneticamente.
Branco
d’idioti.
Credevano che si sarebbero tirati addosso
fiorellini?
« Spero di provvederti un po’
di divertimento, Albus » biascicò,
continuando a scagliare e deviare incantesimi « Prima di
ucciderti, s’intende »
« Credi davvero di riuscirci? »
« Certo » asserì.
Credeva davvero che i loro trascorsi lo avrebbero
fermato? Allora era
più sciocco di quanto credesse.
« Bene »
Queste ultime battute decretarono un cambio nel
loro duello. Lo
scambio di fatture divenne più serrato.
Miravano a ferire. Ad uccidere.
Più volte Albus evitò l’ Avada Kedavra.
Più volte scansò le
maledizioni più pericolose. Altrettanto dovette fare lui.
Contro ogni previsione, si trovò a
sorridere nella foga della
battaglia. Sentiva una libertà che non provava da molto,
molto tempo.
Un suo pari, infine.
Il solo che avesse mai trovato.
Era l’unico, Albus. Sempre stato.
Il ritmo diventò sempre più
sostenuto e
cominciarono a ferirsi l’un l’altro. Un
taglio non troppo profondo gli solcava una guancia, mentre Albus era
rimasto
ferito ad una mano.
Diventava sempre più difficile rispondere adeguatamente agli
attacchi.
E Albus non pareva stancarsi. Anzi, sembrava aumentare la potenza
dell’assalto
ogni volta di più. Aveva faticato molto anche solo per
sfiorarlo, per infliggergli
delle piccole ferite.
« Non puoi fermarmi, Albus. Non puoi!
» urlò, in preda alla rabbia e
al panico.
E poi tutto finì.
Incredibilmente in fretta, improvvisamente.
Un ultimo movimento deciso e violento della
bacchetta di Albus sferzò
l’aria e il raggio blu elettrico che lo colpì lo
immobilizzò senza possibilità
di fuga. Prima che potesse rendersene conto non aveva più la
bacchetta.
Mentre altri maghi lo portavano via
intercettò gli occhi di Albus.
E’ tua,
adesso.
Finalmente l’hai avuta.
L’unica risposta che lesse in quel
profondo azzurro fu infinita
tristezza.
E rimpianto.
Aveva aspettato tanto questo momento.
Finalmente tutto sarebbe finito.
Un lieve vapore si insinuò nella
strettissima fessura nella pietra
nera. Si tirò a sedere con fatica, trascinando con se la
coperta sottile.
« E così sei venuto. Sapevo
che saresti arrivato… un giorno » sorrise
alla figura incappucciata davanti a lui «Ma il tuo viaggio
è stato inutile. Io
non l’ho mai avuta. »
« Tu menti! » sibilò.
Certo che mentiva.
Ora aveva capito.
Aveva capito.
Rise, rise di una risata sprezzante, arida. Ma la
più felice che
avesse avuto da un lontano Agosto di tanto tempo prima.
« Allora uccidimi, Voldemort, io accetto
volentieri la morte! »
tossicchiò per recuperare il fiato « Ma la mia
morte non ti darà quello che
cerchi… ci sono tante cose che non capisci…
»
Così tante cose, così tante
cose…
Oh, lui le aveva capite. Lui sapeva, adesso.
Era stato così cieco, così
cieco…
« Stupido vecchio! Dimmi la
verità!
Legilimens! » sbraitò.
Occhi rossi. Rossi come il sangue. Solo rosso.
Vedeva rosso.
Un muro rosso.
Rise. Rise più forte che poté.
Non l’avrebbe permesso. Non avrebbe
sbagliato anche questo.
Guardò la figura curvarsi su di lui.
Percepì la rabbia, la furia più
nera. Lo avrebbe ucciso.
Bene.
« Uccidimi, allora! » rise
ancora. Rise di lui. « Tu non vincerai, non
puoi vincere! Quella bacchetta non sarà mai, mai
tua… »
Lo vide, vide l’odio e la rabbia e
capì che era giunto il momento.
Chiuse gli occhi, in modo che l’ultimo
colore che avrebbe visto non
sarebbe stato il verde.
No, sarebbe stato l’azzurro.
Il limpido azzurro di uno sguardo inopportuno.
NdA
Ovviamente, il mondo di Harry
Potter e tutto quello che ne consegue, non mi appartengono e scrivo
solo per mio gusto personale.
Detto ciò, questa one-shot partecipa al contest "Paddy's
Day- Festeggiamo San Patrizio".
L'immagine lì su è stata presa a casaccio su
Internet, ragion per cui, ringrazio chiunque ne sia l'autore e
qualcunque tipo di diritto gli appartiene. le foto qui sotto invece
sono due baldi giovanotti che vedrei piuttosto bene nei panni di Albus
e Gellert. Mmm..
Ora, le note vere e proprie:
1. Il titolo "Blind", il riferimento che fa Gellert alla fine e la citazione all'inizio vengono dalla canzone Blind dei Placebo ( un qualcosa di spettacolare! ) che mi ha ispirato mentre scrivevo.
2. L'ambientazione irlandese della prima parte è ovviamente un omaggio all'Irlanda e ad un contest sull'Irlanda ;) Ad ogni modo, il piccolo villaggio monastico di Glendalough esiste davvero e si trova nelle montagne di Wicklow. La croce di Saint Kevin è in realtà una croce celtica di una tomba nel cimitero e la torre circolare serviva a nascondere gli oggetti preziosi durante le incursioni vichinghe ( o almeno così ci dicono i ricercatori Babbani).
3. La discussione con Aberforth e quella con Voldemort sono prese dai Doni della Morte con qualche modifica.
4. Ho voluto lasciare il cognome Dumbledore all'inglese. Non me ne vogliate, mi suonava bene! xD
Per la relazione Albus/Gellert ho cercato di attenermi al canon ( cioè che Gellert non ricambiava i sentimenti di Albus ) ma ehi, non sono riuscita a trattenermi. Qualche volta mi sfugge. Sappiate che per me quei due stavano insieme e non penso che cambierò idea ;)
Bene, chi volesse lasciare una recensione è più che ben accetto :)
Elena