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Autore: e m m e    20/03/2013    6 recensioni
In un mondo dove l’amore è sempre più spesso una condanna, due persone, per uno strano e ironico intreccio di momenti sbagliati, si trovano, si perdono e sono costrette a cercarsi nello sguardo alieno di perfetti estranei.
[Johnlock Soulbond!AU]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte II – Ghosts that we knew

You saw my pain, washed out in the rain
And broken glass, saw the blood run from my veins
But you saw no fault no cracks in my heart
And you knelt beside my hope torn apart
But the ghosts that we knew will flicker from view
And we’ll live a long life
So give me hope in the darkness that I will see the light
‘Cause oh that gave me such a fright
But I will hold as long as you like
Just promise me we’ll be alright

Ghosts that we knew – Mumford & Sons

 

I

 

Sherlock si sedette sulla poltrona e accavallò le gambe, percepì una bruciatura ormai praticamente guarita che gli tirava la pelle sotto il leggero bendaggio all’addome e ignorò la sensazione chiudendola fuori dalla propria mente. Attorno a lui, nel buio perenne in cui era costretto, il dottor Watson rumoreggiava con pentole, vestiti, detersivi, il bollitore, le tazze da tè. All’inizio lo trovò irritante, ma dopo pochi minuti si scoprì ad essere cullato da quei rumori che sapevano di tranquillità e sane abitudini e si concentrò senza problemi sul caso di omicidio.

Non c’erano infatti più dubbi: si trattava di un omicidio, e tutto sommato si trattava di un caso semplicissimo e abbastanza noioso per modalità. Era solo necessario uno stratagemma per riuscire a smascherare il colpevole e non sarebbe stato male un ulteriore indizio, tanto per andare sul sicuro.

Il problema era un altro, Sherlock ne era perfettamente consapevole. Il problema era però suo e non doveva permettergli di uscire fuori.
Chiuse gli occhi al di là delle bende – perché così era abituato a fare – e si portò le mani giunte davanti al naso. Ebbe bisogno di riflettere solo per una mezz’ora prima di giungere alla soluzione ottimale.
« Dottore » disse alla stanza, non appena emerse dai meandri della propria mente. Nella poltrona davanti a lui Watson fece un movimento brusco, abbassando di colpo il giornale che stava leggendo.

« È ancora vivo? » domandò la voce della quale stava imparando a leggere ogni espressione, che era l’unico modo per tentare di risolvere quel mistero che ogni giorno diventava John Watson.
« Dovresti mandare un sms per me » rispose Sherlock, ignorando l’ironia nella sua voce.
« Dal mio cellulare, scrivi a Lestrade: “voglio il numero di casa della signora Amberley”. Mi raccomando, il numero di casa. »

« D’accordo, il numero di casa. Fatto. E adesso? »
Sherlock fece un sorriso, forse il primo da quando era stato costretto a chiudere la porta che aveva sul mondo. Se avesse potuto vedere si sarebbe forse stupito – ma più probabilmente no – del sorriso quasi identico che si disegnò sulle labbra di John Watson.

 

***

 

Non fecero assolutamente niente per quel pomeriggio e Sherlock avrebbe volentieri lasciato trascorrere le ore che lo separavano dall’azione in completo silenzio, ma il suo dottore aveva altri piani.

« Com’è che non lo fai per lavoro? Voglio dire... sei un chimico, ma tutto questo ti diverte molto di più. L’ho notato. »

Sherlock, che non aveva alcuna intenzione di parlare a lui della sua vita privata, rispose: « In realtà ci avevo pensato, da ragazzo. Avevo anche inventato un lavoro: il Consulente Investigativo... sarei stato il primo al mondo a svolgere questo tipo di lavoro. »

Non aveva alcuna intenzione di parlare della sua vita privata eppure lo stava facendo. Strinse le labbra con forza, stizzito.

« Avresti avuto un discreto successo » commentò l’altro con voce piatta, no, non piatta: tranquilla, interessata.

« Non importa più. Sono stato distratto » rispose Sherlock abbandonando la testa all’indietro e allungando le gambe sul tavolino basso che sapeva essere davanti a lui.
Disgraziatamente i suoi piedi incontrano una tazza di tè e la rovesciarono. Tirò via le gambe con uno scatto e si alzò allungando le mani avanti:  era la prima volta dal giorno dell’incidente che non riusciva a cavarsela senza conseguenze nelle azioni di tutti i giorni.

Le sue dita incontrarono le dita di Watson e rimasero lì per qualche secondo, a bagnarsi di tè e di sudore freddo.
« Mi dispiace » si affrettò a dire.

« Non fa niente » rispose l’altro con la voce un po’ roca.

Sherlock si sedette di nuovo, badando bene che nessuna delle sue estremità uscisse fuori dalla poltrona e si raggomitolò come un gatto.

« Non deve essere facile » lo scusò la voce del dottore dalla cucina dove si era di certo recato a prendere una spugna per rimediare al disastro.

« È come stare al di là di una porta di vetro oscurato. »
Dalla cucina arrivò il rumore di cocci in frantumi e Sherlock si voltò di scatto. « Tutto bene? »

Per un lungo attimo non giunse alcun suono a rassicurarlo, poi la voce del suo dottore viaggiò leggera fino a lui nascondendo ogni sfumatura di dolore che poteva, forse, contenere: « Mi è solo sfuggita la tazza dalle mani ».

 

***

 

Lo fece telefonare alle nove di mattina, obbligandolo a spiegare che sarebbero andati a fare una visita alla signora entro un’ora e che era davvero molto urgente per le indagini.

La donna domandò subito se stessero seguendo una pista, Watson rispose che erano certi di essere vicini alla soluzione del caso e che lei di certo non doveva preoccuparsi.

Una volta che l’altro ebbe chiuso la telefonata, Sherlock si diresse con passo sicuro verso la scrivania del loro salotto e aprì il cassetto di destra. Ne estrasse una pistola che porse direttamente al dottore.

« Che cosa sarebbe? »

« Una pistola, dottore » spiegò pazientemente Sherlock con la mano protesa.

« E che cosa dovrei farci? »
Rimase stupito da quella domanda e chiese a sua volta: « Vuoi dirmi che non sai usarla? »

« Per quale diavolo di motivo ti è venuto in mente che sapessi usarla?! » si infervorò lui. La voce gli giunse alterata all’orecchio, era la prima volta che la sentiva sotto quella sfumatura.

Sherlock abbandonò lungo il corpo il braccio che stringeva la pistola, rimase immobile per quella che parve un’eternità e poi, con voce totalmente asettica, disse: « Non lo so. Mi sembrava plausibile. »
« Be’, non lo è affatto! E poi dove stiamo andando non abbiamo certo bisogno di una pistola, Cristo! »
Sherlock non disse niente, ma la sua immaginazione volò avanti e si figurò un uomo in piedi, davanti ad una finestra. Urlava il suo nome e poi sparava. Strinse i denti e si concentrò sul presente.
Ma nel presente stava fronteggiando John Watson senza avere la possibilità di usare i propri occhi e non aveva assolutamente idea di quello che sarebbe successo. Rimase solo immobile, con la testa voltata nella direzione del dottore e le labbra strette.
« D’accordo! » sbottò infine Watson. « D’accordo. Dammi quella maledetta pistola. Lo sai che potrebbero arrestarmi per porto d’armi abusivo, vero? »
Sherlock sorrise. « Sono i rischi del mestiere, dottore » e non sapeva nemmeno lui a quale mestiere si stesse riferendo.

***

Sherlock avanzò con circospezione lungo il vialetto d’ingresso già percorso il giorno precedente, aiutandosi con il bastone bianco e cercando di prestare costante attenzione alla figura del dottore accanto a lui. Non inciampò mai e si sentì per questo un po’ meno smarrito di quanto di solito accadeva.

La signora Amberley aprì quasi subito la porta, dopo che Watson ebbe suonato il campanello, e li fece entrare con voce gentile.

La prima cosa che Sherlock percepì fu un intenso e penetrante odore di vernice fresca.

« Sta ritinteggiando il salotto?! » esclamò il dottore al suo fianco.

Sherlock immaginò la donna fare un sorriso di circostanza e la sentì rispondere: « Bisogna sempre tenersi impegnate. Aveva qualcosa da chiedermi, signor Holmes? » aggiunse poi, rivolta a lui.

Nel frattempo si erano tutti seduti nel salotto e Sherlock aveva preso posto quasi esattamente nello stesso punto in cui si era seduto il giorno prima. Da un leggero refolo d’aria che gli veniva dalle spalle individuò di nuovo la finestra, anche quel giorno chiusa. Non c’era altro da sapere.

« Ho solo una domanda per lei, signora: che cosa ne ha fatto dei corpi? »
« Sherlock! » lo rimproverò Watson con foga, ma non aggiunse altro e Sherlock percepì come la sua attenzione fosse adesso tutta concentrata sulla donna davanti a loro. Poté solo vagamente immaginare l’espressione che le si era dipinta in volto, ma chiunque l’avesse vista avrebbe capito che la verità era appena saltata fuori.

 

II

 

John fissava allibito la bella bocca elegante della signora Amberley distorta in una smorfia di dolore e soddisfazione. Non credeva possibile che un volto umano potesse racchiudere una gamma tanto diversa di emozioni nello stesso istante, eppure ne aveva la prova davanti agli occhi.

Accanto a lui Sherlock non attese risposta e continuò: « In realtà avrei potuto evitarle questa domanda, dato che so perfettamente dove ha nascosto i corpi, ma non volevo perdermi la sua reazione. Pare che me la sia persa comunque, ma dal silenzio del dottor Watson deduco che sia alquanto interessante. »
La donna strinse sulle cosce le mani macchiate di vernice bianca e aprì la bocca: « Come lo sa? »
Gesù, era stata lei davvero. A John girava la testa, nella sua tasca sentiva il peso della pistola, divenuto all’improvviso familiare ed estraneo allo stesso tempo. Guardare negli occhi quella donna era incredibilmente doloroso, eppure non riusciva a smettere di osservare, nonostante lei fosse concentrata solo su Sherlock.

« Signora, nessuno – nessuno – che abbia perso il suo Soulmate se ne starebbe chiuso in casa a fare torte che poi lascia bruciare e a ritinteggiare una parete. Cosa che tra l’altro ha iniziato a fare nemmeno un’ora fa, ovvero quando il mio amico Watson le ha telefonato per avvertirla della nostra venuta. Avrei potuto ignorare la storia della torta se, una volta entrati in casa, lei avesse spalancato tutte le finestre, ma sembrava stranamente sollevata che si fosse un odore tanto forte da coprire qualsiasi altra cosa. Due settimane chiusi in cantina. L’aroma non deve essere dei migliori. »

« Sherlock... stai insinuando che nella cantina di questa casa... »
« Non sto affatto insinuando. Sto solo esponendo i fatti. Può darsi che non siano entrambi in cantina, può darsi che abbia avuto il tempo di far sparire il corpo della bambina, ma di sicuro, se sarai così gentile da andare a controllare, troverai qualcosa di interessante. Signora Amberley, la chiave. »

La donna spostò il suo sguardo allucinato dall’uomo bendato a John e viceversa per due volte, poi, con grande circospezione, si infilò una mano in tasca ed estrasse una piccola chiave.

John si alzò in piedi con il cervello che si rifiutava di attivarsi e la prese dalle sue dita fredde. Senza nemmeno voltarsi, la signora indicò una porticina alle sue spalle, incastrata nel sottoscala, che il giorno prima John aveva preso per un ripostiglio.

Si avviò lentamente verso di essa e infilò la chiave. La serratura scattò senza problemi e quando abbassò la maniglia l’odore pungente della decomposizione corse a fare compagnia a quello di vernice.

« Cristo » sussurrò cercando di deglutire.

Allungò una mano contro il muro e trovò subito l’interruttore. Le scale per scendere erano strette e vecchie, l’ambiente era piccolo e quasi del tutto occupato da ciarpame, vecchi mobili, una piccola riserva di bottiglie di vino, il cadavere di una ragazzina ben disposto sul terreno con le mani giunte sul petto, i capelli pettinati ai lati del volto e gli occhi chiusi. Indossava una maglietta chiara e dei jeans, entrambi gli indumenti macchiati di sangue ormai rappreso. Infine il cadavere di un uomo, impiccato al soffitto tramite una cravatta.

John si portò una mano alla bocca, con gli occhi sgranati, senza che la sua mente riuscisse a spiegarsi la scena in alcun modo.

Fece il giro attorno alla ragazzina e scoprì quattro colpi di arma da taglio, di cui due mortali. Il coltello non si trovava da nessuna parte. L’uomo, però, era il più assurdo: sembrava proprio che si fosse impiccato da solo. Con un rapido calcolo osservò l’altezza a cui si trovava, il punto in cui aveva scalciato via la scatola che gli era servita per arrampicarsi, la lunghezza della cravatta e il nodo che era stato fatto.

La donna che si trovava al piano di sopra non sembrava abbastanza forte per sollevare un uomo di quella stazza e, inoltre, perché avrebbe dovuto farlo?

Risalì le scale più in fretta possibile, anelando a quell’aria satura di pittura, piuttosto che a quella satura di decomposizione, e appena fu uscito dalla cantina si diede dello stupido almeno tre volte di seguito.

« Sembra proprio che abbiamo trovato l’arma del delitto » commentò Sherlock con estrema calma mentre Catherine Amberley gli puntava alla gola un coltello da cucina perfettamente pulito.

« Non sia sciocca » disse John del tutto a sproposito, visto che quella donna era una povera pazzae tentare di ragionarci sembrava del tutto inutile. Nondimeno continuò: « Anche se lo uccide dove pensa di poter andare? »
La vide tremare visibilmente e, quando lei distolse gli occhi dal suo volto e li portò su Sherlock, John ne approfittò per infilare la mano in tasca ed estrarre la pistola.
Sherlock gli aveva spiegato come togliere la sicura e lo fece, con mani ben ferme.

« Posi quel coltello e si calmi » ordinò John con voce secca.

Lei sbuffò in una risata che si interruppe con un singhiozzo: « Crede che mi interessi di vivere o morire? »

« Se non le interessa non ha alcun senso puntare quel coltello. Lo posi. »

Lei sembrò rifletterci, ma John non aveva alcuna intenzione di lasciarglielo fare: si rese conto con un sussulto che se fosse accaduto qualcosa a Sherlock avrebbe ucciso quella donna senza pensarci nemmeno un secondo e senza provare il minimo rimorso.

« Lo posi » disse di nuovo, e questa volta fece un passo avanti.

Catherine lo guardò, smarrita e spaventata, e così come aveva impugnato l’arma all’improvviso allo stesso modo la fece cadere a terra, molto vicina alle scarpe di Sherlock.

John le fu accanto in soli tre passi e le posò una mano sulla spalla tremante, obbligandola a sedersi.

« In effetti è stato un po’ imprudente lasciarti scendere da solo. »

« Imprudente?! IMPRUDENTE?! » si infervorò John. « Se non fossi convalescente ti picchierei. »

Sherlock fece un debole sorriso che John colse con la coda dell’occhio, intento com’era a controllare che la donna non decidesse di armarsi in qualche nuovo modo.

« Non dovremmo chiamare la polizia? » domandò a quel punto.

« Già fatto. Ho avvertito Lestrade questa mattina di presentarsi qui alle undici, dovrebbe mancare poco. »

John lo avrebbe volentieri schiaffeggiato: non riusciva a capire come potesse essere così calmo e come continuasse a sedere composto. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo guardare negli occhi e decifrare finalmente quell’eterna espressione pacata. C’era qualcosa di sbagliato in quell’espressione; mancava qualcosa, un certo attivismo, una volontà di azione, che gli sarebbe andata a pennello. Ma Sherlock si limitava a sedere tranquillo, con le mani sopra le ginocchia e il volto sereno.

Non passò nemmeno un minuto intero che Lestrade aveva già fatto irruzione nella casa e John aveva potuto ricominciare a respirare con calma.

« Che diavolo è successo qui!? » esclamò. « Sherlock! Ti ho detto mille volte di non fare queste cose da solo. »

« Ma non ero affatto da solo » replicò Sherlock voltandosi nella direzione dell’ispettore. John si sentì chiamato in causa, ma non sapeva bene se sentirsi in colpa per aver acconsentito oppure orgoglioso per essere stato all’altezza delle aspettative.

Ci volle solo qualche minuto per spiegare tutta la faccenda e per mettere le manette a Catherine Amberley. La casa fu immediatamente ricolma di uomini della scientifica e John si sentì di troppo.
Aiutò Sherlock ad alzarsi e uscirono entrambi nel vialetto seguiti dall’ispettore, che si fregava il volto con entrambe le mani. Sembrava sopraffatto dalla gravità della situazione.

« Come lo sapevi? » domandò a Sherlock dopo qualche attimo. « E, precisamente, che cosa è successo? Lei non dice una parola. »

« La storia più vecchia del mondo, Lestrade. Lei ama lui, ma lui ama un’altra, così lei si vendica sulla rivale. »

« Ma... una ragazzina di quattordici anni?! »

« Accade sempre più spesso, vero? Le segnalazioni sono aumentate, soprattutto nelle grandi città: anni fa trovare il proprio Soulmate era praticamente impossibile, ma nell’ultimo decennio le cose sono cambiate. »

John iniziò a capire, iniziò finalmente a capire e ne rimase inorridito.

« Vuoi dire che la bambina era la Soulmate di quell’uomo? »

« Sì. »

Sherlock spiegò come, con l’ispezione della camera della ragazza e il dialogo con i genitori, avesse capito che lei non era l’elemento anomalo del caso: si trattava di una normale adolescente, con poster di cantanti sui muri della stanza, segreti che non raccontava ai genitori e un diario pieno di sciocchezze.

E se in lei non c’era niente di strano, l’elemento anomalo doveva essere presente nell’altra famiglia.

« Non appena la signora Amberley ha detto che suo marito era – era, state attenti – il suo Soulmate, ho capito che qualcosa non tornava. La torta bruciata e il pavimento- »

John lo bloccò di colpo: « Il pavimento? »

« Ho finto di inciampare per capire se il pavimento fosse a livello del terreno oppure se potesse esserci una stanza sotterranea, o una cantina. Ovviamente avrebbe anche potuto metterli in soffitta, ma dalla tua descrizione ho capito che la signora era singolarmente minuta. »

« Incredibile » fece John ammirato, guardandolo con attenzione.

« Comunque » li interruppe Lestrade, « ha ammazzato prima la ragazzina e poi il marito nascondendoli in cantina. »

« Certo che no! » rispose Sherlock piccato. « Ha ammazzato la ragazzina e l’ha chiusa in cantina e quando il marito è tornato lo ha spinto a scendere di sotto con qualche scusa, chiudendocelo poi dentro. »

Rimasero tutti in silenzio di fronte alla realtà dei fatti.

Con un dolore sordo al petto che quasi gli impediva di respirare, John si chiese che cosa avrebbe fatto se fosse stato costretto ad entrare in una stanza e trovare il cadavere di colui o colei che aveva appena intravisto una sola volta all’aeroporto, tanti anni prima. Si chiese che cosa avrebbe fatto se fosse stato costretto a guardare i suoi occhi privi di vita aperti nell’oscurità.

Forse si sarebbe inginocchiato accanto al suo corpo, avrebbe giunto le mani di quella persona sul petto, le avrebbe accarezzato i capelli, le avrebbe chiuso gli occhi e poi avrebbe trovato il modo più veloce e rapito di togliersi la vita.

Esattamente quello che aveva fatto Eric Amberley.

Fu in quell’istante che portarono fuori dalla casa la donna tradita, tradita non per proprio volere ma per un ironico e tragico incontro casuale. Ha ucciso una ragazzina che nemmeno si era accorta di quello che stava accadendo attorno a lei, pensò John con profonda pena.

« Non l’avrebbe mai amato come lo amavo io. Non l’avrebbe mai amato, non lo capite?! »

Fu l’unica cosa che disse prima che la chiudessero dentro la macchina e la portassero via.

Sherlock continuò a rimanere voltato verso la casa, ma John seguì la macchina con lo sguardo fino a che non scomparve dietro ad una curva.

« Grazie, Sherlock » li riscosse Lestrade a quel punto. « E lei, dottore, farebbe bene a rimettersi in tasca quella pistola. Non so per quanto ancora potrò tenere un occhio chiuso. »

John sollevò stupito la mano destra, che stringeva ancora la pistola tra le dita, e osservò se stesso inserire la sicura e riporla nella tasca.

L’ispettore li lasciò dopo essersi assicurato che non servisse loro un passaggio a casa. Rimasero entrambi in piedi qualche attimo, poi John finalmente ritrovò le parole: « Che schifo » disse con un filo di voce. « Mio Dio, che schifo. »

« Vedo che la pensiamo allo stesso modo su questo punto » commentò Sherlock incamminandosi verso la strada principale alla ricerca di un taxi.

« Quale punto? »

« Sul fatto che i Soulmates siano la peggiore sciagura che potesse capitare all’umanità. »

John sollevò una mano per richiamare l’attenzione di una vettura e non aggiunse altro.  E in effetti non c’era proprio nient’altro da aggiungere.

 

III

 

« Abbiamo rimandato più che a sufficienza » disse John una settimana dopo i fatti appena narrati, spegnendo la televisione nel bel mezzo di un servizio che parlava del caso di omicidio che avevano contribuito a risolvere. Per esperienza sapeva che dopo quel servizio ne sarebbe andato in onda uno che parlava dei Soulmates e di come stessero aumentando i casi di incontro e soprattutto i crimini legati a quella condizione. E non aveva alcun desiderio di sentirne parlare ancora.

« No » rispose Sherlock, che si intratteneva da almeno sei ore ad imparare il braille.

« Fino a prova contraria sono io il dottore. »
« Non ne ho mai dubitato. »

« Sono passati sei giorni dall’ultima medicazione che ti ha fatto il dottor Jones. È davvero necessario Sherlock, credimi. »

Con la voce di un bambino molto vicino a piantare un capriccio, Sherlock rispose: « Ho detto di no. »
« Ascolta, se non ti fai medicare quei dannati occhi rimedierai un’infezione di quelle pesanti. Capisco che tu non ti fidi di me, d’accordo, ma qualcuno deve pur- »

« Ti ho dato la mia pistola, certo che mi fido di te! Non è questo il problema. »

John respirò con molta calma mentre finalmente Sherlock decideva che era tempo di smetterla di dargli le spalle e si voltava verso di lui, lasciando perdere lo studio del braille. « E allora qual è il problema? » chiese stizzito.

« L’ultima volta non riuscivo a vedere niente. »

John aprì la bocca per replicare che era assolutamente normale non vedere niente dopo solo una settimana di cure, soprattutto nel suo caso, ma poi ci ripensò e capì che il problema di Sherlock era che non voleva scoprire di non riuscire ancora a non vedere niente, e magari di non riuscire a vedere niente nemmeno la settimana successiva e quella dopo ancora. Non voleva sapere di non essere migliorato.
Senza capire come – perché lui era il dottore e Sherlock era pur sempre il suo paziente – trovò la cosa commovente e si scoprì ad alzarsi in piedi e a dirigersi verso di lui. Gli posò una mano sulla spalla e si trovò a guardarlo dall’alto, visto che Sherlock era ancora seduto alla scrivania. Lui sollevò la testa verso John ed era bruttissimo il fatto che non potesse guardarlo negli occhi.

« D’accordo. Ho un’idea » disse, e non si accorse nemmeno di stare sussurrando.

 

***

 

Preparò tutto nella stanza di Sherlock in modo da avere subito sotto mano il collirio, la crema e le bende che gli sarebbero servite. Chiuse tutte le imposte e incastrò pezzetti di carta igienica appallottolati in qualsiasi fessura che lasciasse trapelare i raggi del sole.

Fece una prova spegnendo l’interruttore e rimanendo per cinque minuti al buio con gli occhi aperti e, per quanto si sforzasse, non riuscì a vedere nemmeno una singola particella di luce invadere la stanza.

Allora fece entrare Sherlock, che aspettava nel corridoio.

« Sappiamo entrambi che è una cosa stupida: se siamo a questi livelli potrei farlo anche da solo, visto che dobbiamo stare al buio. »
« Se hai un’altra idea è il momento adatto per tirarla fuori, altrimenti stai zitto e siediti. »

Non credeva che Sherlock avrebbe obbedito, ma invece lo fece e, allungando le braccia dietro di sé per trovare il letto, si sedette sulle coperte.
John chiuse la porta e si assicurò di tappare bene ogni fessura, poi spense la luce. Di nuovo controllò per qualche minuto che non ci fossero infiltrazioni e finalmente si mise all’opera.

Allungò una mano in avanti, cercando il punto dove sapeva trovarsi Sherlock, ma prima di incontrare la sua spalla, come si era aspettato, incontrò la sua mano, che lo guidò fino a che non raggiunse l’attaccatura dei capelli, proprio sopra alla benda.

Deglutendo piano cercò il cerotto che la teneva ferma e con rapidi passaggi liberò gli occhi del suo paziente.
Li cercò con la punta delle dita – i pollici che sostavano ai lati del naso, la pelle calda sotto i polpastrelli – e li trovò, ancora chiusi anche se non serrati.
« Tira indietro la testa » disse alla notte e la notte si mosse sotto le sue dita per obbedirgli.

Sul comodino a pochi centimetri di distanza aveva posizionato le medicine e non fu difficile trovare il collirio. « Apri il destro. »
Sherlock lo fece e John con molta attenzione vi lasciò cadere un paio di gocce del liquido. Sherlock serrò le palpebre di colpo.
« Male? »
« No » e il suo respiro si scontrò contro i polsi di John, « è freddo. »

John sorrise appena: « Apri l’altro adesso. »

La scena si ripeté identica anche per la crema che gli spalmò attorno alle palpebre, macchiandogli le ciglia, finché nuove bende fresche presero il posto di quelle abbandonate sul pavimento e la luce poté essere di nuovo accesa.
In effetti John l’avrebbe anche accesa, sennonché Sherlock gli impedì di farlo afferrandolo per l’avambraccio e bloccandolo davanti a lui.

« Perché non sei entrato nell’esercito? »

Era una domanda talmente assurda e fuori contesto che John impiegò un lasso di tempo imbarazzante a cercare di capirla.

« Cosa- come- »

« Mio fratello ha... consultato gli appunti che la tua psicanalista ha preso su di te. Hai smesso di andarci. Perché non sei entrato nell’esercito? »
La serie sconclusionata di affermazioni e domande lo lasciò ancora più sperso, quell’invasione del suo spazio personale lo rese arrabbiato e quel buio indotto in cui risuonava soltanto la voce profonda e baritonale del suo coinquilino lo distraeva dal pensare razionalmente.

Non voleva parlare del perché avesse scelto di rimanere in Inghilterra – a Londra – invece che entrare a far parte di un’istituzione che con ogni probabilità lo avrebbe condotto all’estero per anni e anni. Non voleva dirlo.
Senza sapere come avrebbe fatto ad uscire da quella situazione, strinse i denti e chiuse le mani a pugno, e lo fece con così tanta forza che si ferì con le forbici che ancora aveva nella destra.
« Ahi! Merda! » esclamò aprendo le dita di scatto e lasciandole cadere.
« Cosa!? »
« Niente, mi sono tagliato con le forbici, niente di grave. »
Le mani di Sherlock scivolarono in basso fino ad afferrargli i polpastrelli, tastandoglieli uno per uno.

Fece per allontanare il braccio e correre ad accendere la luce, ma lui non glielo permise, individuando finalmente la ferita.
« Sul serio » continuò John sconcertato, « non è- » ma non fu in grado di aggiungere altro, perché Sherlock provvide a portarsi la sua mano alle labbra e succhiargli via il sangue.
Fu come se tutto quel buio che li stava circondando si chiudesse sopra di lui a soffocarlo e al contempo che lo avvolgesse come una coperta calda, mentre la sua pelle saggiava la morbidezza della lingua di Sherlock e i denti di Sherlock gli solleticavano le dita.

Gesù, basta! pensò con disperazione, poi fece un balzo all’indietro, divincolandosi, spalancò la porta senza nemmeno disturbarsi a schiacciare l’interruttore e si lasciò abbracciare – finalmente, finalmente! – dalla luce del pomeriggio.
Cinque minuti dopo era per la strada e il suo respiro era talmente accelerato che temette sul serio di essere nel bel mezzo di un attacco di panico.

Una goccia di sangue scivolò dalla sua mano fino al marciapiede e John la fissò a lungo, ipnotizzato e con il cuore che gli batteva furiosamente nel petto. Non era mai stato così spaventato in tutta la sua esistenza.

 

 

 

IV

 

Il campanello suonò all’improvviso, ma Sherlock non si lasciò distrarre dalla lettura di un libro di chimica che Mycroft era riuscito a procurargli in braille. Era diventato abbastanza rapido nel leggere in quella strana scrittura, anche se dopo un po’ diventava faticoso, soprattutto quando si trattava di simboli chimici che dovevano essere riprodotti per esteso e non abbreviati come lui era abituato a vedere da sempre.

In ogni caso il campanello suonò e nessuno andò ad aprire, perché il suo dottore era uscito due ore prima e ancora non era rientrato. Si era assicurato che Sherlock avesse tutto l’occorrente per sopravvivere a portata di mano e che la signora Hudson non dovesse uscire a fare compere e poi se ne era andato.

Non avevano più parlato dell’episodio avvenuto nella stanza di Sherlock. Lui stesso aveva fatto finta di niente, e il dottor Watson si era comportato come se nulla fosse accaduto per i successivi quattro giorni.

Sherlock non gli aveva più posto quella domanda imbarazzante – perché non si fosse arruolato nell’esercito – ma bramava quasi con disperazione di conoscere la risposta.

Era una sensazione strana, ma sentiva dentro di sé che a quell’uomo era stato impedito di vivere interamente la sua vita. Un po’ come era successo a lui, del resto.

Era stato distratto a diciassette anni di età e adesso che ne aveva ventisette non era ancora riuscito a ritrovare quella concentrazione perduta.

Non era felice chiuso nei laboratori del Barts assieme a Molly, ma non si era mai reso conto di questo semplice fatto perché non c’era stato mai un momento della sua vita di adulto in cui fosse stato realmente felice, in modo da poter usare quel momento come termine di paragone.

Non era mai stato felice. Fino a poche settimane prima, almeno.

Era imbarazzante e stupido, ma nel momento in cui il suo dottore aveva puntato la pistola – un’arma che mai aveva usato in vita sua, se non per difendere Sherlock – contro la donna che minacciava la sua vita, si era sentito invadere da un senso di appagamento inaudito.

Si rese conto che il campanello aveva suonato per la terza volta e che il suo dito era bloccato sulla stessa parola da almeno tre minuti.

Distrazione costante.

I passi leggeri della signora Hudson invasero le scale che portavano al loro appartamento, seguiti da quelli ticchettanti di Molly, e Sherlock sospirò.

« Sherlock! Ma non rispondi mai al citofono? E John non è ancora tornato? »

« No » replicò Sherlock ad entrambe le domande e poi invitò Molly a sedersi.

Una ragazza strana, Molly. La conosceva da quando avevano circa cinque anni ed erano cresciuti insieme, anche se non aveva mai pensato a lei come ad una vera e propria amica.

Per un certo periodo lei aveva pensato di frequentare il corso di medicina legale all’università, ma poi aveva seguito lui verso i corsi di chimica senza apparente ragione.

« Grazie, signora Hudson » disse la ragazza e Sherlock la immaginò sorridere con quel sorriso titubante che nascondeva la sua vera personalità.

« Ma ti pare, cara? Volete che prepari una tazza di tè? »

Sherlock scosse la testa, un po’ scocciato senza apparente motivo: « No, non è necessario. »

La vecchia signora se ne andò e i due giovani rimasero da soli.

Ci fu solo un attimo di silenzio, poi Molly iniziò: « Ormai manca poco, vero? »

« Tre settimane » annuì Sherlock senza lasciar trasparire tutta l’ansia che in realtà provava.

La sentì alzarsi e camminare con nervosismo su e giù per la stanza.

Attese per un po’, poi sbottò: « Solo perché sono temporaneamente cieco non vuol dire che non abbia nulla da fare. Magari potresti muoverti a parlare, qualsiasi cosa tu voglia dire. »

« Sherlock... il fatto è che- Non vorrei che tu pensassi- Ho deciso di tornare all’università e prendere una laurea in medicina legale. Ecco. »

Sherlock incrociò le braccia sul petto e sollevò le sopracciglia, anche se lei non avrebbe potuto vederlo.

« Ok » disse.

« Ok? Voglio dire... non ti dispiace? »

« No. Non mi pare di aver voce in capitolo sulle scelte che fai nella tua vita. »

Ci fu un attimo di silenzio, poi Molly si avvicinò alla sua poltrona e Sherlock sentì le giunture delle sue ginocchia scricchiolare quando si accucciò accanto a lui. Gli prese la mano e gliela strinse tra le dita.

« Sherlock... sono così stupida. Lo sai perché mi sono laureata in chimica insieme a te, vero? »

Sherlock lo sapeva quindi annuì.

« Lo so, lo so di non aver mai avuto nemmeno mezza possibilità, e so anche che non è colpa tua. Non è nemmeno colpa mia, ma non posso decidere io di chi innamorarmi. Tu lo sai meglio di chiunque altro.

Non sei il mio Soulmate, voglio che tu lo sappia. Non me l’hai mai chiesto, ma te lo voglio dire lo stesso così potrai smetterla di tormentarti almeno su questo punto. »

Sherlock deglutì piano, con la gola secca, e strinse le sue dita attorno al polso della ragazza.

« Io non mi tormento. »

« Certo che lo fai. Lo fai da sempre... ma almeno adesso puoi essere certo di- »

All’improvviso lo colse una rabbia violenta e priva di senso che riversò subito all’esterno, senza trattenersi: « Di che cosa posso essere certo, Molly? Non sono il tuo Soulmate. Splendido, meraviglioso. Ma chi mi dice che non posso essere il Soulmate di una ragazza spagnola che mai incontrerò, o di un norvegese di novant’anni? »

« Ma tu... l’hai incontrato. Me lo hai detto. » C’era gentilezza nel suo tono, e una punta di compassione, più dolorosa di ogni altra cosa.

« Io l’ho incontrato solo per un attimo e poi l’ho perso, ma non c’è una legge che dica che io sia il suo. Non lo posso sapere, non finché non l’avrò trovato di nuovo. »

Finalmente Molly lo lasciò andare e Sherlock si trovò di nuovo ad annaspare nella sua notte obbligata che non riguardava semplicemente il concetto di vista.

« Mi dispiace così tanto, Sherlock. »

« Già. Anche a me. »

Rimase per un’altra ora a fargli compagnia e guardare la TV, mentre Sherlock fingeva di leggere il suo libro di chimica con profonda concentrazione.

Poco prima di andarsene, mentre indossava il cappotto, domandò: « John doveva incontrare sua sorella, vero? »

Sherlock voltò la testa nella direzione della ragazza e la corresse: « No, suo fratello, si chiama Harry. »

Molly rise coprendosi la bocca con la mano e soffocando così la risata che aveva invaso per un attimo la stanza: « Ma no! » replicò divertita. « Non si chiama Harry, si chiama Harriet ed è una ragazza! Harry è solo il suo diminutivo. »

Distrazione. E Sherlock non sentì nemmeno i suoi piccoli passi ticchettanti che uscivano dalla stanza, sostavano sul pianerottolo salutando la signora Hudson e si inoltravano nella City.

 

V

 

« Come va con Clara? » domandò John addentando il panino che avevano appena deciso di comprare da un chioschetto nel parco.

« Bene. È adorabile, sia con me che con la mamma » non era quello di cui lei voleva parlare, ma John apprezzò lo sforzo di pazienza che sua sorella stava facendo.

« Come stai, John? » continuò lei senza nemmeno tentare di assaggiare il frullato di lamponi che aveva preso. John sospirò e briciole di pane gli caddero sul cappotto.

« Me lo hai già chiesto tre volte. »

« E per tre volte hai risposto con una cazzata. Sono preoccupata per te. »

John sospirò di nuovo e lasciò scivolare il panino appena addentato nel primo cestino che si trovò a superare. Camminavano piano, la gente attorno a loro li superava di corsa o passeggiando. Spostò i suoi occhi su un bambino dai folti capelli scuri e senza alcun motivo pensò a Sherlock.

« Non riesco a ricordare un solo giorno della mia vita in cui non sei stata preoccupata per me, Harry. »

La ragazza sbuffò e i capelli neri, tagliati a caschetto, le scivolarono sugli occhi chiari. « Io invece sì. Prima che tutto andasse a puttane. »

« Non fa niente » tentò di tranquillizzarla John, che non apprezzava molto quando la sorella ricorreva al turpiloquio.

« Cazzate » replicò Harry convinta, « ti stai fottendo la vita per un tizio che nemmeno hai visto bene. »

« L’ho visto bene. »

« Ma se non sai nemmeno se è uomo o donna! »

« Senti » fece John accasciandosi su una panchina libera e ignorando l’umido che si spandeva dal legno bagnato, « non ho la pretesa che tu capisca quello che sto passando- »

« Certo che no! Ppovero piccolo John, ha trovato il suo Soulmate e da quel giorno ha smesso di vivere per se stesso e ha iniziato a vivere per l’altro. Quanto è romantico, John, romantico e patetico. Non hai voluto arruolarti per evitare di essere mandato lontano per anni, e questo posso anche arrivare a capirlo, non fraintendermi. Lo trovo comunque folle e privo di senso, ma ti capisco. Ma adesso... sei laureato in medicina con ottimi voti, potresti trovare lavoro ovunque e invece eccoti qui, a fare da infermiera ad un ragazzino viziato. E non guardarmi in quel modo, ti stai fottendo la vita e nemmeno te ne accorgi. »

John aveva sollevato lo sguardo e puntava gli occhi dritti sul viso rosso e accaldato della sorella: era seria, concentrata e aveva le lacrime agli occhi. Si sentì riempire di affetto e gratitudine, ma la prima cosa che disse dopo quella tirata fu: « Non è affatto un ragazzino viziato. »

« Dio del cielo, John » continuò Harriet come se non avesse nemmeno sentito quello che le aveva appena detto, « a volte vorrei solo schiaff- cosa?! »

John lo ripeté più convinto: « Ho solo detto che Sherlock non è affatto un ragazzino viziato. »

Harriet lo fissò per un lungo, lunghissimo istante, squadrandolo da capo a piedi e infilandosi poi all’improvviso le mani nelle tasche. Tirò su col naso e fece: « Ci sei andato a letto? »

Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiedere quella era l’ultima a cui John avrebbe mai potuto pensare.

Un « Eh? » sconcertato uscì dalla sua bocca prima che potesse trattenersi.

« Ti ho chiesto se ci sei andato a letto. »

« Da dove diavolo ti è uscita un’idea del genere?! » balbettò infine, con gli occhi sgranati.

Harry sollevò entrambe le sopracciglia perché era una di quelle persone biologicamente incapaci di sollevarne solo una – data la sua natura caustica, per lei quello era sempre stato un enorme problema –  e con il suo miglior tono ironico spiegò: « Sono dieci anni che quando parliamo di questa cosa ti inalberi per far valere il tuo punto di vista, continui a ripetere che la vita è tua e che hai il diritto di farne quello che ti pare, e oggi invece te ne esci fuori con una patetica difesa dell’onore del tuo coinquilino barra paziente per una battuta che ho fatto? John, stupido fratello, che cosa mi stai nascondendo? »

John balzò in piedi cercando di nascondere l’improvviso, quanto incomprensibile, imbarazzo e sbottò: « E tu per una cosa del genere credi che ci sia andato a letto? »

Pensò alla gente con cui era effettivamente andato a letto nel corso della sua vita e poteva contare quelle persone sul palmo di una mano. La prima era la sua ragazza del liceo con la quale aveva rotto, per fortuna, prima di entrare all’università, poi negli anni si erano susseguiti partner occasionali dei quali John non ricordava né la faccia, né tantomeno il nome. Non era colpa sua, avrebbe voluto che quelle persone – ragazze e ragazzi buoni e meritevoli di affetto – avessero significato qualcosa per lui, ma in loro cercava solo qualcuno che non avrebbe mai potuto essere rimpiazzato.

Pensò a Sherlock, alle sue dita lunghe e rovinate, alla sua pelle chiara e trasparente, a quei ciuffi di capelli che scivolavano sulla sua fronte come... scosse la testa all’improvviso, rendendosi conto che Sherlock, in poco più di un mese, era diventato importante per lui. Con orrore misto a sollievo si accorse che Sherlock era l’unica persona a cui si fosse davvero affezionato da dieci anni a quella parte.

« John! John, mi rispondi?! Che ti prende?! »

« Credo di dover tornare a casa, adesso » disse a voce alta, senza nemmeno sentirsi parlare.

L’appartamento del 221B era diventato casa. Le mani di Sherlock nel buio, le ciglia di Sherlock sotto le dita, la pelle di Sherlock su cui si rifletteva la luce di una lampada alogena... tutte queste cose erano diventate, senza alcun dannato preavviso, la sua casa.

« Cosa? Ma- »

« Devo davvero tornare a casa, Harry. Scusami » e senza nemmeno abbracciarla si incamminò verso l’uscita del parco. Compiuti cinque passi stava già correndo.

 

 

Note:

Come si evince dalla lettura l’OOC è improvvisamente diventato molto più evidente, soprattutto nel caso di Sherlock. Spero con tutto il cuore che si capisca che è giustificato dalla situazione in cui entrambi i protagonisti si sono trovati a vivere, dalla giovane età in cui si incontrano – John ventitreenne, Sherlock appena diciassettenne.

Ho scelto di farli incontrare la seconda volta più o meno come accade nel canone, ma le tempistiche sono di nuovo diverse, Sherlock ha solo ventisette anni e John trentatré, hanno compiuto percorsi di vita ben diversi e  i sentimenti che sono stati costretti a provare l’uno per l’altro hanno in qualche modo modificato il loro modo di vedere il mondo, più cupo nel caso di John, meno isolato (e isolante) nel caso di Sherlock.

Insomma, spero che sia tutto comprensibile e che la storia sia comunque godibile, nonostante la trasformazione dei personaggi.

 

Ah, il caso in cui si trovano invischiati è l’ultimo caso dell’ultima raccolta di racconti di Conan Doyle: “Il caso del portabandiera in pensione”. Se qualcuno fosse interessato a controllare la fonte originaria sappia che mi sono ispirata a quel racconto in particolare per dare a Sherlock modo di lavorare con i soli sensi che gli rimangono. E poi è uno dei miei preferiti! XD

 

Grazie a chiunque passerà di qui. <3

  
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