Prologo
Hector Wilbur Arrow, Signore di Fort Primer e terre limitrofe, Conte di Mash-on-Lynn
e Primo Giostriere del Regno per volontà di sua
Grazia l’Imperatore, aveva un forte mal di denti quella mattina. Era stato il
dolore a svegliarlo, facendogli aprire gli occhi sul proprio morbidissimo
guanciale, già illuminato dal sole del mezzodì. Era rimasto a fissare i tendaggi
in pregiato velluto rosso del proprio letto a baldacchino e ad ascoltare il
russare pigro dell’uomo di guardia, che aveva probabilmente abbandonato il viso
flaccido contro il petto e si era addormentato. Di tanto in tanto pensava che
lo avrebbe fatto bandire dalle sue terre. O magari lo avrebbe fatto bollire del
cuoco. Vivo, preferibilmente.
Eppure, né
il mal di denti né l’irritazione per quell’inetto riuscivano a fargli perdere
il buonumore. Gli si leggeva nello sguardo orgoglioso e determinato, nel mezzo
ghigno di furbizia che gli increspava le labbra, pure nella fronte liscia e
priva delle rughe dei crucci. Gli si leggeva ovunque che era soddisfatto.
Intimamente soddisfatto, incredibilmente compiaciuto. E ne aveva ben donde:
tutto quello che sarebbe accaduto quel giorno era merito suo. Aveva messo in
campo tutta la sua diplomazia, le sue strategie e, soprattutto, tutta la sua
forza fisica perché quell’alleanza fosse siglata. E ci era voluto parecchio
tempo e qualche goccia di sangue in più di quello che aveva calcolato: alcuni
dei suoi consiglieri, malfidati o forse solo troppo ingenui, ci avevano perso
la testa. Letteralmente.
Ma il
Signore di Fort Primer era sempre stato certo della
riuscita dei suoi piani. Non a caso, lo chiamavano “L’Inesorabile”.
Inesorabile, lo era davvero, ma anche superbo, eccessivamente vanitoso,
spregevolmente calcolatore e, quando ne aveva l’occasione, funestamente sanguinario. Gli appellativi, in
effetti, per lui si sprecavano. Per sua moglie era il Padrone, per la sua gente
era il Tormento e per la sua Corte era semplicemente il Male. Il Male lo era,
ma, se confrontato ai Barbari, be’… era decisamente
il Male minore. Meglio leccare i piedi a lui che guardarli da sotto terra, i
piedi degli altri.
Quel giorno
era il suo trionfo. Quel giorno avrebbe messo al sicuro il suo potere per tutti
i giorni a venire. Quel giorno sarebbe stato il giorno dell’Alleanza con Petronius, il più potente dei Signori delle terre vicine,
che spadroneggiava scelleratamente su cento ettari di fertilissimo terreno
coltivato e più di mille vilissime anime, fra servitù, cavalieri e contadini.
Era davvero
riuscito nel suo intento. Il patto era praticamente già siglato, poco importa
che includesse anche il matrimonio di Petronius con
la propria figlia, una volta che avesse raggiunto i sedici anni. Era sua
figlia, dopotutto: era suo pieno diritto farne quello che voleva.
Ghignava
ancora quando si alzò finalmente dal letto. Si diresse velocemente verso le
porte, le spalancò con gran frastuono, svegliando la guardia incauta. Ad essa
si rivolse con tono cordiale:
“Credete che
sia una bella giornata?”
“Signore…” L’uomo era confuso, un po’ per il sonno un po’
per l’irruenza dell’altro.
“Allora
indossate qualcosa di nuovo. Indossate un cappio”.
“Ma io…”
“Vi servirà.
Abbiate fede, vi servirà”.