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Autore: ericapenelope    21/03/2013    1 recensioni
« La devo informare, signorina, che la mia storia non è solo una storia di cronaca rosa. In realtà non è affatto una storia recente » incominciò Miss Grace.
[...]
« Miss Lorentz, di questo non si deve preoccupare. Le eleganti donne di questa città potranno spettegolare della storia che le racconterò fino all'era prossima a questa. E' una storia senza tempo, una storia che non ha bisogno di essere odierna e fresca. E' una storia d'amore e, come tutte le storie d'amore, il tempo è relativo ».
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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V

Rivelazioni

 

Beth Hart e John Bonamassa lasciavano scorrere note di blues all'interno della vettura. Tutto sembrava essere ovattato ed isolato, tanto che le note pronunciate con voce grezza e calda dei due cantautori rimbalzava contro le orecchie di Dawson. Aveva ancora il sapore di Sally Grace sulle labbra. Aveva ancora il suo odore impresso nei vestiti. Aveva ancora il suo sguardo vuoto addosso, smeraldo ad accoglierlo e a riscaldarlo. 

Non si era accorto di essere salito in auto e di aver richiesto di proseguire dritto verso il Chicago Hospital. Non si era accorto di essere su un taxi. Non si era accorto di essersi perso nei meandri dei suoi pensieri e di essere arrivato. E non si era accorto di ignorare completamente il conducente dell'auto che, dalle tonalità rudi della voce, sembrava avere molta fretta.

« Ehi, ragazzo, ci senti? Siamo arrivati! »

Salve Dawson Reed, che piacere risentirti.

« Non farmi fare tardi ragazzo, anche io devo andare a cena! »

Resti a cena?

« Sto perdendo la pazienza. Ti muovi o no a scendere? »

Baciami ancora.

Dawson stava fissando piccole gocce di umidità imperlare il finestrino. Seguiva le loro strade, divise ulteriormente da altre gocce. Le seguiva, guardava, osservava prendere velocità e poi perdersi in altre piccole vie nascoste, unirsi ad altre piccole goccioline e diventare più grandi. Solo quando il conducente del taxi lo destò dai suoi pensieri tastandolo con una mano, Dawson si percosse voltando in sua direzione uno sguardo spaesato e confuso.

« Ragazzo, sei sveglio o no? Sono 2 dollari e sessantasette. E sbrigati! »

Smosse le braccia e le palpebre, tirando fuori dalla giacca un altro biglietto da cinque dollari. Questa volta però attese il resto, prima di scendere dalla vettura e sbattere la portiera della vettura. Avrebbe giurato di sentire il tizio imprecare, ma non se ne curò.

Quanto tempo era rimasto seduto su quel sedile, a fissare il vuoto? Quanto tempo era trascorso da quando aveva lasciato la casa di Sally? Mesi, settimane, giorni? 

Ventitré minuti e diciassette secondi.

Non aveva la minima idea di dove fosse la stanza di Juliet Seacock, e dallo sguardo che poneva a qualsiasi particolare del pronto soccorso, sembrava tutt'altro che pronto per una conversazione.

« Tesoro, posso aiutarti? » gli chiese l'infermiera al banco informazioni.

Masticava la gomma con aria assente, aveva un trucco pesante e i capelli cotonati sembravano appena usciti da un'alveare pieno zeppo di api.

« Può indicarmi la stanza di Juliet Seacock? »

L'infermiera, che portava il nome di “Gillian” sul cartellino appeso al petto, scrutò con attenzione l'elenco dei pazienti ricoverati. Ci mise un po' per individuare il nome di Juliet.

« Sei un parente, tesoro? »

« Ha importanza? »

« Ne ha. E' in terapia intensiva ed è solo ammessa la famiglia. Tu sei un suo parente? »

Tanto valeva la pena rischiare. Doveva vederla e parlarle. Doveva entrare ad ogni costo. Doveva, non poteva aspettare un altro secondo di più.

« Sì, sono suo fratello maggiore. Henry Seacock. »

Henry. Se voleva proprio passare per un bugiardo avrebbe potuto inventarsi un nome migliore. Ad ogni modo l'infermiera, che continuava a masticare la gomma con la bocca aperta, gli indicò dove firmare. Dopodiché gli indicò piano e stanza, ripetendo le norme anti-fastidio-paziente. 

Stanza 209, terzo piano.

Prese le scale che fece correndo, sorpassando un paio di medici in pausa e molte altre stanze con persone di ogni età distese su un lettino. Quando arrivò al piano notò subito la calma e la pace che governavano sovrane. Non vi erano lamenti né urla. C'erano persone per i corridoi, ma alcune sembravano assenti, altre sembravano preoccupate, molte altre avevano esaurito le lacrime prima ancora di arrivare lì. Per un tratto smise di correre, persino di camminare, evidenziando con lo sguardo i volti afflitti di giovani madri e giovani padri. Non vi era traccia di Mr Seacock, probabilmente era tornato in albergo. Avanzò leggendo nella mente i numeri di ogni stanza.

199, 200, 201...

Il corridoio era lungo, lindo e pulito. Un inserviente stava appena finendo di passare lo strofinaccio in terra, inumidendo il linoleum con gesti meccanici, sintomi di chi fa quel lavoro per abitudine.

202, 203, 204...

Il suo pensiero era rivolto a Sally. Quel volto così sorpreso e così fresco che l'aveva avvolto poco fa. Sarebbe rimasto volentieri a cena. Sarebbe rimasto volentieri con lei. Sarebbe rimasto a baciarla ancora, a sfiorarle le spalle e a massaggiarle i polsi. Ma prima doveva chiarire le cose con Juliet. Prima doveva mettere dei paletti, fare un passo indietro. Prima doveva capire cosa provava lei.

205, 206, 207...

Non aveva programmato di cadere così, nella bocca di Sally Grace. Non aveva programmato di baciarla e di avvolgerla e di cedere a quella tentazione che non aveva desiderato affatto. Desiderio d'amore.

208...

Aveva solo programmato di ascoltare del blues, sognandola di notte magari, baciando altre donne che non fossero lei. Perché aveva la brutta abitudine di ferire le persone più belle. Aveva la brutta abitudine di fare sempre il passo sbagliato. E questa volta non l'avrebbe permesso, perché si trattava di Sally Grace e della sua musica. Dei suoi capelli rossi e dei suoi occhi verdi.

209.

La porta della stanza era aperta. Fece un passo avanti. Juliet era irriconoscibile con il bendaggio sulla fronte e un braccio ingessato. Le gambe sembravano a posto, ma non poteva dire la stessa cosa del costato. Probabilmente aveva subito un intervento, perché sembrava alquanto costipata e debole. Juliet aveva gli occhi chiusi; occhi senza trucco, arrossati. Le labbra erano più piccole di quanto si ricordasse, rosee e naturali. Se l'aspettava sveglia, invece dormiva tranquilla. Se ne stava lì, a sognare chissà cosa, quando lui era venuto solo per parlare con lei.

Ad un tratto Dawson si sentì più libero. Libero da un peso enorme. Aveva corso per parlarle, aveva corso per dirle quanto davvero teneva a Sally, senza preparare un vero discorso. Non si era accorto di quanto fosse in ansia, nervoso. Non si era accorto di niente, fino a quel momento. Quel momento di sollievo che lo fece ricadere sulla poltrona accanto al lettino. Si mise lì, a fissarla, con una mano sulla tempia, a massaggiare la frustrazione che aveva provato ma non sentito.

Si addormentò subito, sprofondando in un sonno senza sogni. 

 

 

**

 

« E' lì da quanto? »

« Non lo so. Può essere lì da qualche ora o da tutta la notte. Quando mi sono svegliata era già lì. »

« Dovremmo chiamare i suoi genitori, saranno in ansia per lui. »

Ciò che Dawson sentì prima di aprire le palpebre furono una serie di frasi soffocate dal dormiveglia. Soffocate dal tepore caldo della stanza, ma disturbate dalla posizione scomoda e frustrante della poltrona. Si svegliò di soprassalto, indugiando sulla figura di June, viva e vegeta, più sveglia che mai. Gli stava sorridendo con quell'espressione strafottente, sua solita. Non si era accorto di essere in presenza di una terza persona, niente di meno che Owen Seacock, il padre di June. 

« Buongiorno giovanotto » lo salutò Mr Owen.

« Buongiorno signore... » rispose di rimando Dawson.

Si guardarono per un istante, poi Mr Seacock avanzò verso l'uscita.

« Anche se non sapevo di avere un altro figlio, mi ha fatto piacere vederti di nuovo. Ora, se non vi dispiace, vi lascio un po' da soli » uscì facendogli l'occhiolino. 

Dopo che Owen si auto-congedò, Dawson prese tutto il fiato che aveva, si stropicciò gli occhi e si preparò la miglior frase che avrebbe elargito a quella testa quadra di June.

« Che ore sono? »

Lei scoppiò a ridere e lui fece lo stesso. June aveva un aspetto migliore della notte scorsa, aveva un paio di flebo attaccate al braccio e il pallore della sera prima era svanito. Era una cosa positiva, no? Il braccio continuava ad essere ingessato e il costato era leggermente fasciato; la posizione lievemente piegata e non completamente seduta di June, gli fecero intuire che si era rotta qualcosa. Molto di più che una commozione cerebrale.

« Mi dimetteranno tra una settimana. Da quanto tempo sei seduto su quella cosa? Sembra davvero scomoda » elargì lei.

« Lo è » fece lui, alzandosi per sgranchirsi le gambe. « Allora, come ti senti? »

« Non c'è male. Mi hanno dovuto togliere i piercing e ingessarmi il braccio. Ho anche una mini frattura alla seconda costola, respirare mi fa male. Non sai ridere, che angoscia! »

Parlava come se si fosse rotta un'unghia. Dawson intravide la luce solare entrare dalla finestra, probabilmente era mattino presto. Aveva dormito tutto il tempo seduto su quella scomodissima poltrona; per quello ora aveva il torcicollo.

Entrambi sapevano di affrontare la domanda che Dawson doveva - perché doveva - farle. Gli sguardi si intercettarono un paio di volte, silenti, prima che lui si decidesse ad abbassare lo sguardo e a parlare.

« Perché eri sopra l'albero davanti la stanza di Sally? »

« Non bastava chiedermi cosa ci facessi sopra un albero? »

« Sai che mi frega più la seconda parte della domanda, che la prima. Potevi anche cadere da un grattacielo, non credo ti avrei chiesto cosa ci facessi lì sopra se non ci fosse stata traccia di lei. »

« Alla faccia del volermi essere amico! »

« Prerogative. »

June si mordicchiò il labbro inferiore, scostò lo sguardo di lato e rimase in silenzio per un tempo infinito. Dawson era un ragazzo paziente e non disse nulla, non la costrinse a buttare fuori ciò che voleva sentire, ma le sue mani tremavano e tremavano per una buona causa.

« Mi hai baciato » enfatizzò lei, sussurrando.

Dawson inarcò un sopracciglio. 

« Non pensavo ti potessi piacere, all'inizio. Avevo dato idea di essere... sai... dell'altra sponda. Ma tu mi eri sempre attorno e poche volte mi chiedevi di Sally. Quando lo facevi, però, ti si illumivano gli occhi. Ti si illuminano ancora, naturalmente. » Aveva le labbra screpolate, disidratate. « Eppure, non so perché, ma quando mi hai baciata, ho pensato per un millesimo di secondo che fossi io, quella desiderata. Per quello ti ho risposto, baciandoti a mia volta. »

« Mi hai baciato perché pensavi di essere desiderata? »

« Perché pensavo ti avrebbe fatto piacere » rispose June. Non aveva rimorsi nello sguardo, nemmeno un segno di piccolo pentimento. Non aveva nemmeno occhi lucidi; era cosciente ed attiva. Parlava tranquillamente, senza remore alcuna. « Ovviamente mi sbagliavo e di gran lunga anche. Tu hai sempre voluto Sally. Dalla prima volta che l'hai vista gli sei sempre andato dietro. Anche se non la vedevi, l'avevi di fianco, ogni notte, con quella cavolo di musica che ascoltate tutti! »

« Come fai a saperlo? » 

« So molte più cose di quanto pensi, Dawson. Non so se da bambini si ami, ma se si ama, credo di avere sempre amato Sally Grace come nessuno abbia mai amato me. Le sono stata sempre vicina, sebbene lei non mi volesse. Le sono sempre stata accanto, sebbene lei mi odiasse. Non ho mai smesso di esserle amica, non ho mai smesso di amarla e di volerle bene. Sally è una persona che vale la pena di conoscere, una volta nella vita. Ti apre le strade della sua anima e non ti fa più uscire. Anche se ti chiude le porte, un piccolo pezzo di te farà sempre parte della sua vita. » 

Ma Dawson non stava capendo nulla. Che lei provasse qualcosa per Sally, l'aveva capito fin da subito. Probabilmente non aveva capito quanto fosse profondo il sentimento. Sicuramente aveva sbagliato a giudicarla, aveva errato con quel bacio, il bacio rivolto a June. Si rese conto solo ora che fu un gesto malsano, per lui, per lei, per il loro rapporto acerbo. 

« Io... June »

« Lo so che c'è qualcosa tra di voi, Dawson. Non sei il solo ad essere stato colpito da qualcuno. Anche lei ricambia i tuoi stessi sentimenti. E non devi guardarmi con pena o compassione. Mi va bene così. »

Le sue parole furono un colpo al cuore. Lo trascinarono nuovamente sulla poltrona. Avrebbe dovuto gioire e cantare? Cosa si faceva in situazioni come queste? Cosa si faceva quando si vinceva uno scontro d'amore, con una persona che si arrendeva davanti ai propri occhi? Come si poteva gioire?

« Mi dispiace. »

« Sì, anche a me. Ma non credo di avere mai avuto chance. Lei non è come me. »

« Intendi sfortunata? »

« Intendo gay. »

Dawson si portò le mani sudate alle ginocchia, e prima che June potesse parlare di nuovo, scattò in piedi.

« Lei deve sapere comunque. »

Lo sguardo della ragazza si allarmò. 

« Cosa? »

« Deve sapere. Quello che provi. Quello che provo io. Deve sapere che ci siamo baciati. Per sbaglio, per un mio grosso sbaglio, ma deve saperlo. Non posso guardarla in faccia e non dirle niente di tutto questo. Lei non può non sapere. »

I corridoi incominciarono ad essere più affollati della notte appena trascorsa; vari infermieri entravano in altre stanze e controllavano i progressi. Tra poco sarebbero entrati anche a controllare June. E a quel punto avrebbe dovuto lasciare la stanza, tornare alla propria vita. Magari a scuola, visto che era lunedì.

« Dawson » lo intercettò con lo sguardo scuro. Due pupille nere che lo avevano sempre osservato con diffidenza e superbia, ora lo guardavano innocenti. « Lei sa. »

Ad un tratto la raffica di parole biascicate, sventolate, schiaffeggiate dalla bocca di Dawson lasciarono posto al silenzio. Guardò June con sorpresa, sgranando le palpebre e rilassando i muscoli tesi del collo.

« Come sarebbe? » chiese, con un filo di voce.

« Lei sa già cosa provo. Glielo dissi tempo fa. In realtà le regalai un disco di Benny Goodman. Le scrissi un biglietto; avrebbe dovuto ascoltare la numero cinque, un duetto eccezionale con Rosemary Clooney. Memories of you. Mi ricorda sempre lei, quando l'ascolto. E' una musica così leggera, il jazz. Probabilmente è nata per Sally » spiegava con occhi lucidi. Occhi oscurati dalla tristezza. « Sono certa che l'abbia ascoltata, perché una sera mi arrampicai sulla sua finestra e la sentii canticchiare questa canzone. Oh, quanto mi manca la sua voce Dawson, non puoi immaginare quanto! »

E invece lo immaginava benissimo. Si sedette sulla poltroncina che lo aveva ospitato la notte appena trascorsa, si mise a pensare a come fare per parlarle.

« Non sa di noi due, però, vero? » 

« No » rispose lei. « Ma non c'è bisogno che lei sappia, perché tra di noi non c'è stato nulla. »

« Nulla, a parte quel bacio. »

« Quel bacio non contava nulla per me. »

Quelle parole fecero allungare lo sguardo di Dawson sul suo corpo, in netto dimagrimento. 

« Avevi detto che ti piacevo. »

« Balle. Non mi piacciono i maschi. Mi annoiavo. »

Era sempre difficile credere al cento per cento di quello che raccontava Juliet Seacock. Soprattutto quando parlava di sentimenti, di infatuazioni e di modi per declassare le proprie sensazioni. Era un asso in queste cose. Molto spesso si limitava a distogliere lo sguardo e a mandare al paese chi era ormai passato di categoria. Dawson pensava che fosse un modo per proteggersi dalle ferite che altrimenti sarebbero potute penetrarle nella carne. Un modo alquanto bizzarro, alquanto stupido. Ma non osava spronarla a fare diversamente. Decise dunque di crederle. D'altronde le piacevano le donne. Quello che però non poteva e non voleva fare, era omettere quel dettaglio a Sally. Non meritava di essere presa per i fondelli. Voleva portarle rispetto. Voleva, in qualche modo, essere completamente nudo di fronte ai suoi occhi. Nudo, come lo era lei con la sua cecità. Esposta al mondo, quando non poteva vedere altro che buio e il buio non era altro che il mondo colorato che poteva solo immaginare.

« Rimettiti » esordì Dawson.

« Lo farò. »

Si scambiarono un ultimo sguardo, dopodiché Dawson si alzò e uscì dalla stanza, richiudendo la porta alle sue spalle. La giornata era caotica, ma per quel corridoio continuava ad esserci calma piatta. Il silenzio era abissale, sebbene vi fosse qualche forma vivente in più della scorsa notte. 

Chiamò un taxi e si fece portare in albergo. Il prossimo scontro sarebbe stato contro mamma Vivianne e papà Richard. Quelli sì che gli avrebbero dato del filo da torcere.

 

 

***

 

Quando Dawson scese dal taxi, aprì il portone d'ingresso all'hotel, procedette dritto verso la sala da pranzo, scoprì che non vi era altro che il vuoto più totale. Vuoto nel suo tavolo, ovviamente. Suo padre sicuramente l'avrebbe rivisto nel weekend, ma sua madre? Dov'era Vivianne?

Arrivò all'ultimo piano con fatica. Si sarebbe fatto una doccia e avrebbe ordinato qualcosa dal citofono. Non aveva voglia di raggiungere la scuola e non aveva voglia di affrontare nessuno. 

Si liberò dei vestiti sporchi e si inabissò sotto l'acqua bollente. Si tastò i muscoli dell'addome, i leggeri peli scuri sul petto e sbirciò l'espressione del volto attraverso il vetro. Non si spiegava quella sensazione di malessere dentro. Sapeva di star omettendo situazioni, sensazioni, fatti accaduti all'unica persona che gli aveva dato qualcosa. Socchiuse gli occhi e restò sotto il getto d'acqua per un tempo infinito. Le ciocche dei capelli gli si appiattirono sulla fronte e la schiena si adagiò sulle piastrelle fredde. Sentiva i brividi farsi vivi sulla pelle; decise quindi di darsi una svegliata e di insaponarsi da capo a piedi.

 

Mentre chiamava la reception per ordinare un sandwich, si avvolse un asciugamani alla vita. Scrocchiò il collo indolenzito e si accasciò sul letto a braccia aperte. Era stravolto. Avrebbe fatto volentieri un ulteriore pisolino, se qualcuno non avesse bussato alla porta.

Andò ad aprire ancora mezzo svestito, il cameriere gli servì il vassoio e se ne andò senza fare storie. Anche se avesse voluto, Dawson non aveva spiccioli da offrire per mance gratuite. Decise quindi di gustarsi il pranzo da solo e in giornata sarebbe passato da Sally. Cercò di trovare le parole giuste, buttò giù un paio di righe, ma in cuor suo sapeva che non sarebbero bastate. Sperava solo che Sally vedesse oltre, come aveva sempre fatto. Sperava che non si fermasse alle apparenze, al tono che avrebbe usato per scusarsi o al profumo che avrebbe indossato quel pomeriggio. Sperava che Sally avrebbe capito quello che lui aveva compreso ancor prima di fare quell'errore. L'errore di baciare un'altra ragazza, l'errore di non averle detto che conosceva Juliet, l'errore di non averle detto niente della sua vita, dei suoi sentimenti. L'errore di essere rimasto nascosto, solo perché non si era reso conto che i sentimenti che provava dovevano essere condivisi e non divisi con la mera speranza che un giorno si sarebbero incontrati lungo la strada. Così scelse cosa indossare senza pensarci più di tanto, si diede una sistemata ai capelli e chiamò James.

« La porto allo stesso indirizzo, signore? » chiese il conducente dell'auto.

« Sì James, grazie. »

Lungo il viaggio canticchiò una leggera canzone di Mamie Smith, tamburellando i polpastrelli sulla maniglia della portiera posteriore e cercando di non risultare agitato.

« Nervoso Mr Dawson? » domandò James, inquadrandolo dal finestrino retrovisore.

« Cosa glielo fa pensare James? E per favore, lasci l'appellativo “signore” a qualcuno di più vecchio. Ho solo diciassette anni! »

« Mi scusi » elargì James, sogghignando sotto i baffi. « Comunque sta sudando e non riesce a smettere di farmi vibrare il sedile con il suo continuo movimento delle gambe. Ha un incontro importante per caso? »

« Non è l'incontro ad essere importante, quanto quello che dovrò dire » disse Dawson.

« Credo che di qualunque cosa si tratti, ne uscirà vincitore Dawson. Riuscirebbe a convincere persino un sordo! »

« Peccato che chi devo convincere ci sente benissimo » rispose Dawson.

Poco più tardi, l'auto parcheggiò come sempre davanti al vialetto di casa Grace. I due uomini si salutarono e James rimise in moto, allontanandosi senza fretta lungo la strada di periferia.

Dawson sentiva la bocca asciutta; non vedeva Sally da un giorno intero, ma sembrava che fosse passato un anno. Il cuore incominciò a palpitare più forte, quasi a scoppiargli dentro al petto.

Il tuo è già scoppiato.

Deglutii, avanzando sempre più rapidamente verso la veranda. Non bussò alla porta, ma gli venne incontro direttamente la signora Reed. 

« Ciao Dawson » lo salutò Amanda, sorridendogli sorniona.

« Salve Mrs Grace, Sally c'è? »

« Certo, ti sta aspettando in camera sua. »

« Dove... ? »

« Ti ci accompagno io, seguimi. »

Amanda lasciò a Charlotte il compito di socchiudere la porta d'ingresso, mentre avanzò spedita verso le scale che l'avrebbero portata al secondo piano. Dawson restò qualche scalino più in basso, intimorito, forse realmente spaventato, ma continuò a seguirla a testa bassa, come se fosse colpevole di qualcosa.

Era forse questo il problema. Si sentiva in colpa, dalla parte del torto, anche se non aveva fatto altro che pensare a Sally, innamorarsi di Sally, sognare Sally. Erano forse bastati una manciata di secondi per fare tutto, ma quello che doveva fare ora sembrava senza tempo.

« Prego; il tè l'ho portato poco fa. Hai bisogno di qualcos'altro? » chiese Amanda.

« No, la ringrazio Mrs Grace. »

Amanda defilò come era arrivata, scomparendo al piano di sotto in un batter d'occhio. Ciò che ora lo separava da Sally era una leggera porta d'olmo, verniciata di un bianco candido che gli ricordava il leggero vestito che gli aveva visto addosso il sabato appena trascorso. Alzò il braccio, prima di percepire una leggera nota espressa da un sassofono. Non poteva essere altro che quello: era un sassofono a far vibrare la moquette sulla quale poggiava i piedi. Sally stava suonando. Non gliel'aveva mai visto fare e, sebbene non la stesse davvero vedendo, sapeva che quel suono non veniva da un vinile o da una radio. Era troppo vivo per essere frutto di una nota trasmessa da un apparecchio. 

Aprì la porta senza bussare. La spalancò lentamente, cercandola con lo sguardo. Era lì, davanti a sé, con la schiena appena scoperta a rivolgergli il benvenuto. I capelli ramati sembravano quasi biondi con la luce del sole, raccolti in una treccia che sembrava incastrarsi perfettamente tra le scapole. 

Le note richiamavano una musica nuova, mai sentita prima. Non sapeva se fosse jazz, blues o qualche altra musica inventata al momento. Di certo sapeva di tutte quelle cose che Sally aveva condiviso con lui. Di certo quella musica era lo spirito che emanava Sally.

Rimase ad ascoltarla fino a quando non ebbe concluso, prima di decidere se fosse comodo stare in piedi o avrebbe magari seduto. Poi Sally si voltò verso di lui, senza guardarlo, ma sorridendogli felice.

« Ti piace? » gli chiese.

« E' meravigliosa » rispose lui, avanzando verso di lei.

Sally posò il sax sul copriletto, tastandolo prima con i polpastrelli. Successivamente lo accolse tra le sue braccia, annusando il suo odore e percependolo con il tatto. Gli baciò il petto, affondando il viso tra il colletto della camicia e la sua pelle, calda. 

« Ti devo parlare » dissero all'unisono.

« Okay, prima tu allora » incespicò Sally.

Dawson la vide nervosa, o forse eccitata. Doveva dirgli qualcosa di importante. Che già sapesse di lui e Juliet? Impossibile.

« Non so da dove iniziare... » 

« Penso che dall'inizio sarebbe perfetto. »

Sally gli sorrise con lo sguardo verde perso tra i colori chiari di quella camera. Era così luminosa. In contrasto con la realtà così crudele.

Dawson la fissò. Voleva sprofondare in quelle labbra rosee che sorridevano. Avrebbe voluto avanzare tra quel seno acerbo e stringere a se i fianchi morbidi. Avrebbe voluto accarezzarle i capelli e pettinarglieli lungo la schiena. Avrebbe voluto fare moltissime cose e le avrebbe fatte, ma solo dopo averle detto tutto quello che aveva omesso fino a quel giorno. 

« Sally, mi piaci. Mi sei piaciuta subito » cominciò Dawson.

« Mmh, continua. »

Lui si fermò a fissarle i dettagli di un volto che stava aspettando qualcosa di dolce, romantico e a dir poco stuzzichevole. Quel volto stava aspettando tutto, meno che quella rivelazione nascosta da sempre.

« Anche se ci conosciamo da pochissimo, troppo poco tempo, non è giusto aspettare. »

« Aspettare cosa? » chiese Sally.

« Aspettare di dirti tutta la verità » rispose Dawson.

« Quale verità? » domandò lei.

Dawson fece un respiro profondo, prima di trattenere il fiato e sputare la sentenza tutto ad un fiato.

« La verità è che io conoscevo già June... » disse Dawson.

Sally alzò la nuca verso di lui, senza battere ciglio. Lui deglutì mentre si posizionava meglio sul copriletto, senza perdere il contatto con lo sguardo di lei. Sebbene non vedesse, Sally poteva benissimo percepire la fatica che Dawson stava avendo. Doveva esserci qualcosa di più, se quel comportamento disturbato lo affliggeva così tanto.

« E' stato un caso incontrarla. L'ho incontrata lo stesso giorno che ho incontrato te. Alloggio in uno degli alberghi di suo padre » continuò Dawson. « In queste settimane mi ha aiutato molto a scuola, sai, con il recupero delle lezioni e la guida... »

« Guida? » lo interruppe Sally. « Non dovevo essere io, la tua guida? »

« … nella scuola » concluse Dawson.   

Sentì che il discorso stava andando nella direzione sbagliata; percepiva la confusione di Sally e la sua incapacità di comprendere. Condivideva le sue paure e si sentiva completamente nudo di fronte a quello sguardo vuoto, coscio di un problema imminente. Ritrasse a se le braccia, appoggiandole sulle ginocchia. La schiena era rigida e il fiato era corto. Il cuore batteva veloce e, se non si contavano le loro voci, quell'atmosfera emanava troppo silenzio.

 « Cosa mi stai dicendo, Dawson? » chiese infine Sally.

Dawson si stava aspettando proprio questa domanda; domanda alla quale non si poteva ormai più ritrarre, domanda dalla quale non sarebbe potuto più scappare, domanda per la quale aveva speso troppi pensieri e troppe paure. 

« Mi piaci, Sally. Mi hai folgorato con i tuoi capelli rossi e gli occhi verdi. Mi incanti ogni volta che parli di musica e di te e delle tue passioni. Mi fai impazzire e vorrei slacciarti la camicetta proprio qui, adesso, capisci? » elargì Dawson, notando il rossore sulle gote di Sally farsi vivo. « Sei sempre presente, qui » disse, sfiorandole la tempia. « E qui » sussurrò, toccandole il centro del petto, dritto al cuore.

« E cosa c'entra allora Juliet in tutto questo? » chiese lei, rimando impassibile al suo tocco.

« C'entra, perché quando è caduta, la stessa notte, l'ho baciata. » Stop. « E lei mi ha risposto. » Non è vero. « E' stata una sciocchezza, non mi è mai interessata in quel senso. Ma vedi, aveva quel rossetto rosso che mi ricordava il colore dei tuoi capelli e quegli occhi persi e... »

« Vattene » lo interruppe Sally.

« Come? » si stupì Dawson.

« Esci. Vai fuori dalla mia camera » spiegò Sally.

« Sally... devi credermi, non è come pensi tu. Lei ama te. Me l'ha detto ieri... »

« Vi siete visti ieri? » chiese lei, sollevando lo sguardo infuriato verso la sua sagoma. « Mi hai anche mentito e sei andato da lei! »

« Solo per dirle cosa pensavo davvero! Devi credermi, Sally! » supplicò Dawson.

Ma lei rimase impassibile, rigida, seduta, affranta e senza espressioni compassionevoli. Sally non capiva. Non aveva chiesto tanto. Erano negli Stati Uniti, in un periodo di rivoluzione per le menti giovani e di Beat Generation, le menti incominciavano ad essere più aperte e gli omosessuali incominciavano a farsi avanti. Non aveva chiesto molto, non gli aveva chiesto di essere suo, non gli aveva chiesto l'esclusiva, ma non gli aveva nemmeno chiesto di mentirle. Lei si era aperta. Lei si era confidata. Lei aveva raccontato pezzi di sé ad una persona che si era presa gioco di lei, dimostrando proprio quello che lei aveva sempre creduto. Ma non avrebbe più commesso lo stesso errore. 

Sally si alzò spedita, cercò il suo bastone e non volle aiuto in alcun modo da Dawson, il quale era scattato assieme a lei. Protese il passo fermo e deciso verso la porta, spalancandola e soffermandosi accanto ad essa, con la testa alta.

« Vattene » ripeté.

« Sally... lasciami spiegare » implorò Dawson. 

« Non c'è niente da dire. Vattene e non farti più vedere » sostenne Sally.

Non aveva lacrime agli occhi o segni di tristezza; le gote erano solo ampiamente arrossate e la sua espressione, seppur cieca, esprimeva solo delusione e amarezza. Dawson non insistette, preferì avanzare verso l'uscita.

« Almeno dimmi cosa volevi dirmi poco fa » chiese Dawson, prima di protendere il passo verso l'uscita.

« Non ha più importanza ora, non credi? »

Furono le ultime parole che le sentì elargire, prima di chiudergli la porta in faccia, accostandola accuratamente e chiudendosi dentro. Dawson rimase a fissare il legno chiaro per una manciata di secondi, probabilmente si memorizzò i rivestimenti in oro e i dettagli disegnati sull'infisso. Percepì un silenzio tombale all'interno di quella stanza e una tristezza immediata si fece ampiamente largo attraverso le sue vesti, spogliandolo completamente di una sensazione nuova.

Uscì da quella casa pochi minuti dopo, congedandosi per un'ultima volta da quella vita. Non gli aveva nemmeno lasciato il tempo per spiegarle cosa veramente aveva provato, cosa si erano detti lui e June. Non gli aveva lasciato il tempo di fare nulla. L'aveva sbattuto fuori dalla sua vita così, immediatamente, senza una mera possibilità di parola. Non gli aveva lasciato niente, a parte il ricordo dei suoi occhi delusi e della sua fermezza. 

Dawson non avrebbe più rivisto Sally Grace. Non avrebbe più rivisto quella casa o quell'ambiente. Non avrebbe parlato di Sally Grace per moltissimo tempo e probabilmente si sarebbe fatto un'altra vita. 

Ma anche se fosse andato avanti per la sua strada, l'amara possibilità di avere un futuro assieme a lei sarebbe stata sempre presente. Sempre presente, nelle sue notti. Sempre presente, nei suoi sogni. Sempre presente, nella sua vita. Sempre presente, nei suoi successivi dodici anni in giro per il mondo. 

 

FINE I PARTE

   
 
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