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Autore: Tary Prince    21/03/2013    0 recensioni
è possibile far cambiare un'idea in un pomeriggio? persino se quella idea riguarda il corso di una vita? elena vuole provarci, consapevole che il tempo scorre inesorabile, ma anche lei dovrà fare i conti con una sorpresa...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incontri inaspettati

 
Ancora una volta Elena stava camminando per le stanze di quell’ospedale. Quel giorno la luce delle finestre illuminava ogni singolo angolo dei corridoi, le pareti e i visi degli sconosciuti che camminavano in tutte le direzioni. La donna li osservava ad uno ad uno, provando ad immaginare da chi stessero andando e con quale stato d’animo.
Un bambino cammina a passo svelto con un regalo in mano.
“Probabilmente sta andando a far visita al fratellino, al cugino o ad un amichetto a cui avranno tolto l’appendicite. Mi sa che, sotto sotto anche lui vorrebbe essere operato, pur di avere gli stessi regali”.
Ora sta passando un uomo di mezza età con lo sguardo un po’ seccato, che si infila subito dentro una stanza, accompagnato dalla moglie.
“Forse va a trovare la suocera, ecco il motivo per cui è così contrariato”.
Elena sente uno strepito e delle risate soffocate dietro di lei, si volta e vede un gruppo di ragazzi di sedici anni che si aggirano furtivi e divertiti dalla situazione particolare in cui si trovano.
“Staranno andando a trovare un compagno di scuola che li aspetta con il gesso pronto per le firme”.
Questi pensieri affollano la mente di Elena per qualche momento, divertendola e distraendola, ma poi imbocca un’ala dell’ospedale più silenziosa e anche dentro di lei ora tutto tace.
È quello il luogo che la riguarda in prima persona, quello che ricorda meglio e quello dove torna periodicamente. Proprio come allora, quella sala le sembra più buia rispetto alle altre e l’aria che si respira è diversa. La donna alza gli occhi e vede l’orologio della sala, che domina su tutte le altre cose, perché in quel posto il tempo è più caro di qualsiasi cifra.
Poche persone si aggirano per i corridoi, la gente qui tende più a stare seduta. Per aspettare.
Elena continua ad avanzare, finché raggiunge una saletta d’attesa e li vi trova seduta un’unica figura solitaria. La osserva di sottecchi: una donna più grande di lei, di circa quaranta, quarantacinque anni, forse, dai tratti severi e uno sguardo duro, quasi di sfida. Elena cerca di valutare se è uno dei casi che sta cercando.
Dallo sguardo di ghiaccio della donna, che sembra solo una facciata, intuisce di si.
Le si avvicina e prende posto in una sedia davanti a lei, facendo finta di non averla quasi notata.
La sconosciuta evita di guardare dalla parte di Elena, segno che non vuole assolutamente conversare. Elena ignora il suo atteggiamento.
“Buongiorno, mi scusi, è molto che aspetta?” chiede, sfoderando tutta la gentilezza che può imprimere nelle parole.
“Circa venti minuti” risponde secca la donna.
“Ah, capisco”.
Elena lascia che il silenzio ricada su di loro per qualche minuto, vuole lasciarle credere che non la importunerà più.
“Anche lei sta aspettando il dottor Lorenzetti?”
La donna è chiaramente contrariata, aspetta un po’ prima di dire un “Si” rapido, con aria ancora più scontrosa di prima.
“Lo immaginavo, sa, lui è il migliore luminare di questo ospedale in fatto di insufficienza cardiaca” continua Elena imperterrita, stampandosi un sorriso cortese in faccia.
La donna fa un brusco scatto con la testa e guarda  con una mal celata sorpresa la giovane che le sta di fronte.
“E lei…come fa a sapere che…?” chiede, cercando di controllare la voce.
“I tuoi occhi ti tradiscono, mia cara” pensa Elena, notando come lo sguardo della donna si sia fatto incerto e preoccupato.
“L’ho capito notando le radiografie che tiene in quella carpetta…ho riconosciuto la grafia di Lorenzetti” chiarisce Elena.
Con un gesto istintivo, la donna afferra velocemente la cartella che aveva appoggiato nella sedia accanto alla propria e se la porta al petto, nascondendo quello che vi è scritto di sopra.
Adesso è Elena ad essere osservata dalla donna, che si sente smascherata da quell’estranea e non nasconde una punta di risentimento nei suoi confronti.
La giovane si mostra indifferente, non desidera assolutamente allarmarla, anzi, il compito che si è imposto è proprio l’esatto contrario.
“Se c’è qualcuno che può aiutarla, non può trovare di meglio allo staff che c’è qui…Lorenzetti in testa” le dice Elena “mi chiamo Elena Di Marco e per tre anni e due mesi ho vissuto l’incubo di un’insufficienza cardiaca in fase terminale, passando una settimana no e tre si ricoverata in questo ospedale”.
Il tono di Elena è tranquillo e rilassato e la donna non riesce a fare a meno di mostrarsi colpita davanti a tanta franchezza.
Esita un po’ e poi mormora: “Lidia Morelli, piacere”.
Proprio in quel momento si apre la porta dello studio ed esce un omone biondo, dal sorriso rassicurante e una faccia che fa pensare ad un ragazzino troppo cresciuto; getta un’occhiata nella sala d’attesa e scorge Elena e la sua conversatrice.
Notando la giovane donna il medico rivolge gli occhi al cielo, facendo una faccia rassegnata, poi si rivolge a Lidia con: “Prego signora, è il suo turno” e le lascia il passo libero per farla entrare nella stanza.
Prima di chiudere la porta, fa un cenno a Elena e le intima dicendo: “Aspettami”; lei fa di si con il capo e lui si congeda.
Quindici minuti dopo, il viso della signora Lidia riemerge e dopo aver salutato rapidamente Elena, si allontana in fretta. Guardandola andar via, Elena ha quasi l’impressione che lo sguardo della donna sia assente e vuoto.
Un colpo di tosse dietro di lei richiama la sua attenzione, si volta e si imbatte nel cipiglio divertito di Giorgio Lorenzetti.
“Vieni, fammi compagnia mentre vado a prendermi un caffè” esordisce lui.
Elena sorride e lo segue con piacere, mentre Lorenzetti fa strada.
Davanti al bancone del bar dell’ospedale, insiste per offrirle qualcosa e poi prendono posto in un tavolino all’esterno, rimanendo entrambi abbagliati per un attimo davanti alla bella giornata di sole che li stava aspettando fuori.
“Come stai?” chiede prontamente il medico.
“Ho quasi finito il mio master in Economia e poi comincerò a cercarmi un posto di lavoro, nel frattempo mi do da fare lavorando il sabato e la domenica in una pizzeria…”
“…e facendo l’assistente gratis in un ospedale” la interrompe Lorenzetti.
Elena sbuffa e si lascia cadere sullo schienale della sedia, con un broncio da bambina.
Lorenzetti ridacchia fra sé, lanciandole un’occhiata. “Non hai ancora perso il vizio di venire a rompere le scatole qui?” domanda.
“No e ho intenzione di continuare per un bel po’” afferma risoluta.
“Elena, non credi che sarebbe meglio finirla?”
“Perché? Io so cosa provano queste persone e voglio aiutarle, voglio dare loro un po’ di speranza, come tu hai fatto con me!”
“Ma nella maggior parte dei casi, tu crei solo un’illusione…le illudi e poi quando capiscono che non c’è niente da fare, lo shock è peggiore, rispetto a qualcuno che si è preparato sin dall’inizio”.
Quelle parole la feriscono e rimane per qualche istante a guardarlo, incapace di parlare.
“È così sbagliato quello che faccio?”
Lorenzetti la guarda comprensivo. “In linea teorica, quello che fai è ammirevole, tu racconti alle persone quello che ti è successo e come ne sei uscita, ma in linea pratica questo non va bene, Elena…”
Lei si volta da un’altra parte, non vuole che lui veda il suo smarrimento. Sempre senza guardarlo, parla a voce più bassa, quasi sussurrando: “Ma tu hai fatto la stessa cosa con me”.
Il medico sospira: “Si, è vero, ma…spesso lo faccio senza crederci veramente. E poi, immagina quanto sia insostenibile vedere la profonda delusione negli occhi del tuo paziente. Semplicemente, non voglio che tu faccia l’errore che commetto io giorno per giorno” fa una pausa e riprende “certe volte mi capita di passare nel reparto di oncologia infantile e guardo i clown che fanno divertire i bambini. Penso spesso che il loro lavoro sia migliore del mio, regalare tanti piccoli istanti di gioia, mentre noi medici ci affanniamo a fare qualcosa che molte volte non porta a nulla, se non ad allungare un’esistenza fatta solo di tormento”.
Elena gli si avvicina e dice: “Allora io voglio fare come quei clown…parlare con queste persone, sostenendoli nella situazione in cui si trovano”.
Lorenzetti nota la sua determinazione e, dopo un po’, non può fare a meno di sorridere, alzando le mani in segno di resa.
“Fammi fare un tentativo” prosegue Elena.
“Mi stai chiedendo una cavia?”
“L’ho già scelta”.
 
Elena non dovette aspettare molto prima di rivedere Lidia Morelli. Appena tre giorni dopo, la donna fece nuovamente il suo ingresso nella sala d’attesa, stavolta accompagnata da un ragazzo di non più di vent’anni che, dal colore degli occhi e dei capelli, doveva probabilmente essere il figlio. Aveva un’espressione più pacifica della madre e quando scorse Elena seduta, le rivolse un cortese cenno di saluto.
La madre, che fino a quel momento aveva ostinatamente finto di non averla riconosciuta, si vide costretta a salutarla a sua volta.
Alcuni minuti dopo che i due avevano preso posto, il ragazzo, evidentemente stanco del silenzio che regnava nella stanza, aveva chiesto a Elena cosa stesse leggendo.
“È un romanzo storico uscito di recente, ambientato negli anni della Prima Guerra Mondiale” aveva spiegato.
I due si erano messi a conversare amichevolmente di libri, sotto lo sguardo torvo della madre di lui, finché, anche questa volta, venne Lorenzetti a interromperli, facendo accomodare Lidia e il ragazzo nel suo studio.
Anche stavolta Lorenzetti non li trattenne a lungo ed Elena ipotizzò che fosse solo un controllo.
La stessa scena si ripete il giorno dopo, Elena che aspetta nella saletta e i due che arrivano al solito orario per la visita. Il ragazzo si mostra sorpreso, ma contento, Lidia, invece, reagisce inaspettatamente. Notando la ragazza, le fa cenno di avvicinarsi a lei, mentre con un altro gesto ordina al figlio di andarsi a sedere e ad aspettarla. Il ragazzo rimane ancora più stupito davanti allo strano comportamento della madre, ma obbedisce e prende posto, curioso di vedere come andranno le cose.
Elena si avvicina alla signora Lidia e questa, dopo essersi allontanata abbastanza da sfuggire all’udito del figlio, le sibila: “Che cosa sta cercando di fare? Non è possibile che tutte le volte che vengo qui, puntualmente mi trovo lei davanti”.
“Signora, anche io vado a trovare il dottore e il caso vuole che mi capiti nei suoi stessi orari”.
Lidia la guarda truce e mormora: “Non si azzardi a prendermi in giro!”
Elena valuta rapidamente la situazione e decide di buttare al vento la prudenza: “Senta, signora, è vero che io non la conosco, ma desidero parlarle”.
“A proposito di cosa?”
Breve esitazione della giovane e poi: “Voglio parlare con lei a proposito del problema con cui sta convivendo”.
Gli occhi della donna sembrano prendere fuoco per la furia e ringhia: “Questi non sono affari suoi! Ora se ne vada e mi lasci in pace!” e senza neanche lasciare a Elena la possibilità di ribattere, le volta le spalle e raggiunge il figlio.
Un po’ scoraggiata, Elena raggiunge l’uscita e va a sedersi al bar. Da lì, poco dopo, vede uscire i due e, senza ascoltare il suo buon senso, si affretta a seguirli.
Fortunatamente, madre e figlio camminano a piedi per tutto il tragitto, finché, arrivati davanti ad una piazza si salutano e si separano. Elena continua a seguire il ragazzo.
Lo vede dirigersi verso un negozio di articoli sportivi e prima che entri, gli si avvicina e richiama la sua attenzione.
Lui si volta e la guarda tra lo stralunato e il divertito, accogliendola con un “Ciao”.
“Ciao! Lo so, ti devo sembrare una vera pazza, ma credimi, voglio chiarire il fatto che non sono una stalker, ma desidero solo parlare con tua madre”.
Il ragazzo scoppia a ridere e chiede: “Si può sapere perché sei così ossessionata da mia madre?”
“Senti, anche io ho vissuto la sua stessa situazione e…vorrei solo aiutarla, per affrontare la sua malattia” spiega Elena, cercando di non mangiarsi le parole, nella fretta.
Il ragazzo appare confuso, per un attimo, e la osserva stranito. “Cosa sai esattamente?”
“Ho visto una cartella clinica che tua madre aveva portato con se, qualche giorno fa e ho riconosciuto subito il problema…anche io ho sofferto il suo stesso male, qualche anno fa”.
Lui la guarda impressionato, prova ad aprire la bocca più volte, ma non riesce a dire neanche una parola. Alla fine dice: “Senti, conosco mia madre, è una donna dolce e buona, ma veramente testarda. Non ti ascolterà mai”.
“Va bene, allora io parlerò con te e sarai tu ad aiutarla”.
Per un attimo, il ragazzo si acciglia, ma poi, come se avesse preso una decisione, le porge la mano e, scherzando, dice: “Bè, se mi fai un’offerta così, non posso rifiutarla. Anche perché probabilmente ti farai ritrovare in quella sala d’aspetto ogni volta che veniamo e così logorerai, oltre al cuore, anche il fegato di mia madre”.
Elena gli stringe la mano, sorridendo, e risponde: “Ottimo, vedo che hai capito perfettamente”.
“Comunque mi chiamo Davide”.
“Elena”.
“Ok, Elena ed esattamente ora che ho accettato, che cosa farai?”
“Bella domanda, anche perché non è che ho preparato proprio per bene la mia lezione, ma tu vieni con me e qualcosa comincerà a venirmi in mente”.
Senza dire altro, Elena inizia a camminare, senza una vera e propria direzione e Davide, messosi al suo fianco, la segue.
“Posso darti un input, prof?”
“Puoi, Davide”.
“Raccontami come è cominciato il tuo calvario”.
Elena prende un bel respiro, riordina le idee e comincia a parlare.
“Da bambina fino ad adolescente non ero mai stata particolarmente brava in nessuno sport, perché avevo poca resistenza, mi sentivo male molto velocemente. I miei genitori fecero tutti i controlli possibili, per capire il perché la loro piccola non fosse forte come tutti gli altri suoi coetanei, ma fino ai dieci anni, circa, non risultò nulla dalle analisi; così ci rassegnammo e io mi limitai a non fare mai troppa attività fisica, per evitare che nascessero delle complicazioni e io per un po’ smisi di fare gli esami più approfonditi. A quindici anni, mi accorsi di sentire segni di stanchezza sempre più evidenti. Non solo fare una corsa, ma anche solo camminare, mi indeboliva terribilmente e, un giorno, dopo aver camminato per un lungo tragitto, sentii una fortissima fitta al petto e svenni. Quando mi ripresi, scoprii di trovarmi in un ospedale, per la precisione quello in cui ho incontrato te e tua madre, con i miei genitori che, pallidissimi, cercavano di spiegarmi cosa mi fosse successo.
Le lastre che mi vennero fatte, evidenziarono subito la causa: il mio cuore era debole, malato, non riusciva a pompare abbastanza sangue e negli ultimi cinque anni, a furia di compiere quello sforzo, si era ingrossato talmente tanto, che i medici mi davano veramente poco da vivere, se non fossero intervenuti subito…”
“E quindi hai fatto un trapianto?”
“Chiaramente era la mia unica soluzione, anche perché il tempo che mi era rimasto era veramente poco. Sai, ti sembrerà assurdo, ma fino a quel momento nessuno mi aveva mai spiegato nei dettagli cosa fosse un trapianto o la donazione degli organi e io avevo solo un’idea vaga di quello che fossero. Così, in quei giorni di inferno, il dottore Lorenzetti, si sedette accanto al mio letto e mi parlò di liste d’attesa, di donatori e riceventi, e soprattutto mi spiegò che qualcuno sarebbe dovuto morire, perché io potessi vivere”.
Elena fa una pausa e si ferma, Davide la guarda. “E tu, non hai preso bene questa cosa, vero?”
“No, per niente…all’inizio mi sentivo talmente in colpa che dissi a Lorenzetti di rimandarmi a casa, preferivo spegnermi a poco a poco, che fare quell’operazione, ma lui, pazientemente, mi fece capire che gli incidenti accadono tutti i giorni, che c’è sempre qualcuno che per disgrazia lascia questo mondo e allora, se può fare un dono ad altre persone, perché non farlo?”
“Ci sono tante persone che non se la sentono e non acconsentono a donare i propri organi”.
“Qui non si tratta di egoismo, ma solo di ignoranza. Non capisci? Se loro, anche solo per un attimo, vedessero il volto di un malato terminale e si rendessero conto dell’angoscia in cui vive, vedresti che le cose non andrebbero così”.
“Mia madre non è d’accordo con la donazione degli organi” spiegò, improvvisamente, Davide.
Elena gli pianta in faccia uno sguardo accusatore: “Però pretende che qualcuno gli doni un cuore nuovo, giusto?”
“No, ormai ne siamo consapevoli. Il suo gruppo sanguigno non è molto comune e hanno detto che anche la compatibilità con i suoi tessuti non sarà facile. Ci hanno fatto capire, senza troppi giri di parole, che…è condannata”.
La voce di Davide gli si spezza ed Elena rimane immobile, incapace di ribattere.
“Da quanto lo sapete?”
Davide si sfrega una manica sugli occhi e risponde: “Praticamente al terzo controllo che abbiamo fatto. Ormai è da circa un anno che siamo in attesa e ancora nessuno si è fatto sentire”.
Elena si lascia cadere su una panchina li vicino e i due rimangono seduti per un po’, ognuno perso nelle proprie riflessioni.
“Quante probabilità rimangono?”
“Si parla del venti percento di probabilità…non può sopravvivere ancora per molto e in questo ultimo lasso di tempo, è veramente difficile che trovino qualcuno compatibile”.
“Sai, eppure, rispetto agli altri malati che ho visto, tua madre sembrava piuttosto sana. Per di più non l’hanno neanche ricoverata”.
“È stata lei che si è rifiutata, quando ha capito che non c’erano molte possibilità. Voleva…rimanere il più a lungo possibile accanto a noi”.
“Davide?”
“Si, dimmi”.
“Puoi venire con me, in ospedale?”
Il ragazzo la guarda interrogativo, ma fa cenno di si con la testa.
 
“Non mi ero mai accorto di quanto fosse grande questo posto…” mormora Davide, camminando per le degenze dei malati terminali.
“Chi ci entra anche solo una volta, non lo dimentica più…evidentemente non eri mai arrivato fin qui”.
“Si, è vero…avevo paura ad entrare”.
“Perché?” chiede, incuriosita, Elena.
“Temevo di vedere il viso di mia madre, in quello di un’altra persona”.
Elena non replica, avverte la profonda preoccupazione del ragazzo.
“Questa storia della donazione…mi fa pensare, in un certo senso, ad una raccolta differenziata”.
“Non sei spiritoso, credimi” lo rimprovera, mestamente, Elena “tu puoi vederla come vuoi, ma rimane comunque uno degli atti di generosità più grandi di questo mondo”.
Stavolta Davide aspetta un po’, prima di chiedere, incerto: “Ti sembro un egoista?”
“Non sei un egoista, sei solo molto spaventato e addolorato...ti sembrerà davvero poco corretto da parte mia, ma…sarebbe veramente bello che tu riuscissi a convincere tua madre a donare. Se non c’è più speranza per lei, allora può essere data a qualcuno che come lei, ha dei figli, dei genitori, dei cari che pregano ogni giorno di avere la fortuna che tua madre sta desiderando di avere”.
“Già” sussurra Davide, quasi parlando con se stesso “non si può sempre sperare che siano gli altri a fare qualcosa per te…”
Inaspettatamente, Davide abbraccia Elena, che, confusa, sente le lacrime silenziose del ragazzo bagnarle il viso.
“Davide…”
“Sta tranquilla” la interrompe subito lui, lasciandola andare “adesso ho capito”.
Le volta le spalle e si allontana, lasciando Elena un po’ turbata, mentre lo guarda uscire a passi sempre più veloci.
 
Ogni giorno la giovane torna allo stesso orario e allo stesso posto, ma ne Davide ne Lidia fanno ritorno in ospedale. Elena attende per quattro giorni, poi decide di passare all’azione; si informa con Lorenzetti e il personale dell’ospedale per sapere la via e il quartiere dove vivono madre e figlio.
Non ci vuole molto a trovare l’appartamento e già nel pomeriggio, Elena arriva li sotto. Suona al campanello e risponde la voce di Lidia, apparentemente molto stanca.
“Signora Morelli, sono Elena, si ricorda di me?”
Lidia rimane in silenzio per un po’, ma Elena pazienta.
“Salga su Elena”.
La casa è piccola, ma accogliente e ordinata. Lidia la riceve in una cucina inondata dal sole.
“Salve, stavo cercando Davide”.
“Si, lo immaginavo…però lui non c’è, dopo la vostra discussione ha deciso di stare un po’ fuori città”.
“Ah” risponde Elena, spiazzata “e voi due quindi non avete avuto modo di parlare?”
Lidia sorride, un sorriso triste e spento, immagine di un dolore profondo.
“Elena, pensavo che lei, visto che parlava tanto dei problemi che aveva affrontato, l’avesse capito da sola…non sono io la malata tra me e mio figlio”.
Il tempo, per la prima volta Elena ha quasi la percezione che si sia fermato. Come aveva fatto a non capire? Il pallore, l’attenzione nel modo di camminare, il parlare della sofferenza che dentro, fingendo che appartenga ad un’altra persona…
“Sono stata una stupida…cieca, idiota…” farfuglia Elena.
Lidia le sia avvicina, le porge un fazzoletto ed Elena si asciuga gli occhi lucidi e gonfi.
Quando Elena si congeda, Lidia le da anche una busta. “Me l’ha lasciata prima di partire, avevo intenzione di passare in ospedale per incontrarla, ma poi mi sono mancate le forze”.
Elena la ringrazia, è quasi sulle scale, quando Lidia le dice: “Lei è riuscita dove io invece ho fallito”.
“In che senso?” chiede, stupita, Elena.
“Quando è partito, era così sereno…”
 
Elena scende e, salita in macchina, apre la lettera.
“Elena, sono certo che quando avrai ricevuto questo foglio, ormai saprai tutto di quello che non ti ho detto e avrai capito meglio quello che, invece, ti ho detto.
Ti sembra possibile che in un solo pomeriggio si possa cambiare totalmente opinione su di una cosa? A me è successo, grazie alle tue parole.
Non mi sono mai reputato un vigliacco, per il modo in cui ho reagito alla notizia della mia insufficienza cardiaca e neanche per come poi sono venuto a conoscenza del fatto che non c’erano vie d’uscita, ma senza ombra di dubbio, non sono stato un eroe per come mi sono rifiutato di donare i miei organi, quando i medici mi hanno gentilmente fatto la proposta. Avevi ragione quando hai detto che non avevo mai messo piede in quella sala, non c’ero mai voluto entrare perché pensavo continuamente che il tempo era poco e non volevo sprecarlo li, che preferivo stare con i miei genitori fino alla fine. Il resto lo sai o puoi immaginarlo, tu sai bene che cosa sente la gente.
Puoi farmi un favore? Se trovi qualche altro testardo come me, fagli cambiare idea e dai anche a lui un po’ di speranza.
Ora mi piace immaginare che la prossima volta che ti fermerai a parlare con uno sconosciuto, sentirai che dentro di lui c’è una parte di me.
Penso che sia un bel pensiero che può accompagnarmi fino alla fine.
Arrivederci e grazie,
Davide”
  
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