I'm looking back on yesterday
I
thought our days would last forever,
but
it wasnt our destiny,
'cause
in my mind we had so much time,
but
i was so wrong,
no
i can believe me i can still find the strengh in the moments
we
made
I’m lookin back on yesterday.
Leona
Lewis- Yesterday
“Uhm,
Venezia non è cambiata di una virgola dall'ultima volta che sono
stata qui. E neanche allora mi piaceva più di tanto”
Julya
si sistemò la giacca mentre Stefan afferrava i bagagli e li
trascinava giù dal battello che li aveva portati nella zona del loro
hotel.
Lo
aveva scelto Stefan e Julya lo aveva lasciato fare, troppo occupata a
organizzare il proprio materiale per pensare a cose più pratiche
come la sistemazione e il viaggio.
Erano
una bella squadra, insieme, e il loro affiatamento aumentava ogni
giorno che passava.
“Non
capisco perché tu ce l'abbia tanto con questa città”
“Ehi,
io non ce l'ho con nessuno. Dico solo che non è la città in cui
sceglierei di vivere” ammise mentre si infilavano in una vietta
secondaria nella zona del ponte dei sospiri.
“No,
neanche io ti vedo a vivere qui” concesso dopo averla soppesata per
un attimo che le fece palpitare il cuore.
“Troppo
romanticismo nell'aria” spiegò Stefan e Julya si chiese se non
dovesse sentirsi un po' offesa. Poi fece spallucce.
Arrivarono
di fronte all'albergo, un piccolo hotel a conduzione famigliare,
discreto ma carino e con una splendida vista sul cuore di Venezia.
“Io
devo fare una commissione” annunciò prima che entrassero prima di
aggiungere in fretta, prima che Stefan potesse replicare “Tu fai il
check in e vai a farti un giro per Venezia. A quanto ho capito, tutto
questo romanticismo è perfetto per te” lo prese in giro,
vendicandosi per la stoccata di poco prima.
Stefan
alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente perciò Julya pensò
che non dovesse dispiacergli più di tanto la possibilità di godersi
un po' l'atmosfera vivace e brulicante di vita di Venezia.
Con
passi rapidi, si infilò nelle vie secondarie della città fino a
raggiungere un vecchio edificio, un po' fatiscente.
Prima
di entrare, indossò la sua miglior maschera di impassibilità e
freddezza, ben sapendo che solo mostrando il lato peggiore
dell'essere vampiro avrebbe ottenuto ciò che voleva.
Un
gruppo di ragazzi seduto sul muretto lì vicino la stava fissando e
quella non era una bella cosa: per ciò che era andata a fare lì
avrebbe preferito passare inosservata.
Forse,
rifletté con il senno di poi, non avrebbe dovuto indossare una
giacca così bianca e stivali così palesemente costosi.
Pazienza,
si disse.
Salì
le scale per quattro piani, appartamento numero tredici.
Bussò
alla porta e si premurò di stamparsi in faccia il sorriso più
gelido e predatore del suo repertorio, non esattamente il genere di
espressione che avrebbe invogliato qualcuno a invitarla nella propria
dimora.
Quando
la serratura scattò, si trovò di fronte a un uomo sui trent'anni
che strabuzzò gli occhi quando la riconobbe e tentò di sbatterle la
porta in faccia.
Tentativo
patetico visto che Julya lo fermò appoggiandosi all'uscio con
noncuranza, come se lui non stesse facendo leva con tutta la sua
forza e lei non stesse tentando di bloccarlo.
“Ciao,
Noah”
“Che
diavolo vuoi ancora da me? Ti ho detto tutto quello che sapevo sul
Graal l'ultima volta che ci siamo visti”
Julya
roteò una mano e alzò gli occhi al cielo “Lo so, lo so. Ma ho una
specie di patto da proporti”
Noah
sembrava disgustato “Non stringerei mai un accordo con una della
tua specie” sputò con disgusto.
Fu
allora che Julya decise che aveva bisogno di un motivo per ricordarsi
chi era lei e cosa poteva fare.
In
un attimo, Noah si trovò dentro casa, inchiodato al muro mentre la
vampira lo teneva sollevato da terra con una mano attorno al suo
collo.
L'espressione
sul suo viso era di freddo cinismo, quella del vampiro di fronte alla
preda.
“Senti,
Noah. Io non voglio farti del male: ne verrebbe fuori una bella
questione, tra ambasciate ed estradizione. Però è stato un viaggio
molto lungo e non sono di ottimo umore perciò, davvero, tu non vuoi
contrariarmi più di quanto non già sia, giusto?”
Noah
annuì, a corto di parole e di aria, e quando Julya lo lasciò
andare, cadde a terra ansimando e respirando forte.
“Sono
qui per la tomba del cavaliere” chiarì quando si sedettero, lei
sul divano, lui sulla poltrona più distante.
“L'avevo
intuito”
“Già.
Tu mi hai detto che credevi che la tomba fosse qui e che le tue
ricerche ti stavano confermando questa teoria. La mia domanda è: a
che punto sei?”
“Perché
dovrei dirtelo?”
“Perché
ti prenderai il merito della scoperta, ovviamente. Io troverò la
tomba, prenderò ciò di cui ho bisogno e tu diventerai famoso per
aver trovato un importante reperto storico. Ora, riformulo la
domanda: a che punto sei?”
Il
silenzio di Noah ebbe il potere di contrariarla più di quanto non
fosse, ma si impose di attendere. Contò un centinaio di respiri
prima che Noah si alzasse e iniziasse a trafficare tra la moltitudine
di scartoffie ammassate sulla scrivania ed estrarne un libricino.
Glielo
porse e Julya lo aprì. Dentro c'erano disegni di quelli che potevano
essere affreschi, mappe senza nome e migliaia di appunti.
“C'è
un foglietto con dei numeri romani, lì dentro. Non so cosa vogliano
dire: li ha scritti il capo del progetto di recupero per il quale ho
lavorato negli ultimi tempi. Ora, lui è morto e...”
“E
tu ti sei preso il suo libretto di appunti e hai trovato questo, ma
non sai che cosa voglia dire” completò Julya senza smettere di
sfogliare le pagine.
“No,
non ho bisogno una risposta” lo bloccò prima che potesse
protestare mentre si alzava. Aveva esattamente ciò di cui
necessitava ed era in quel libretto. Forse Noah non aveva compreso a
pieno di avere tra le mani una vera e propria guida per la ricerca
del Graal, ma lei non era così ottusa.
“Questo”
aggiunse mentre si dirigeva verso la porta “viene con me. Come
promesso, quando troverò la tomba ti manderò un messaggio; ti
basterà andare lì e annunciare al mondo il prodigioso ritrovamento”
Noah
annuì e non ebbe il coraggio di protestare o chiedere come lo
avrebbe contattato. Sapeva fin troppo bene che Julya lo avrebbe
trovato anche quando lui avrebbe preferito rimanere nascosto.
Intanto,
la vampira si chiuse la porta alle spalle e si abbandonò a un mezzo
sospiro sollevato.
Durante
il tutto il percorso per tornare all'hotel rimuginò sui numeri
scritti sul foglietto. Tre, sette e dieci, scritti in numeri romani.
Potevano rappresentare qualunque cosa perciò avrebbe dovuto
analizzarli con attenzione per capire il loro significato.
Ma
lo avrebbe fatto la mattina dopo perché in quel momento, tra le
strade strette e i ponti di Venezia, voleva prendersi un momento per
assaporare la sensazione di essere di un passo più vicina a
raggiungere lo scopo di una vita.
La
sua mente si fece piacevolmente leggera mentre annegava nella
consapevolezza di essere sempre più prossima alla meta. Certo, non
avrebbe cantato vittoria fino a quando non avesse stretto tra le dita
il calice, ma almeno poteva concedersi di osservare le cose da una
prospettiva più ottimista.
Guardando
il cielo – pieno di nuvole, prossimo al calare della sera-
raggiunse l'hotel.
Alla
piacevole consapevolezza di aver vinto una battaglia era velocemente
sopraggiunta un'ondata di stanchezza che la sopraffece.
Partì
dalla testa e raggiunse ogni remoto angolo del suo corpo, così
intensa da farle venire voglia di sedersi su una panchina e dormire
fino al giorno dopo.
Voleva
cadere in uno si quei sonni senza sogni e potersi svegliare la
mattina dopo con la mente sgombra e silenziosa come non era mai
durante le ultime giornate.
Quando
entrò nella stanza, Stefan non c'era.
La
stanza era calda e luminosa, molto ariosa con quei colori chiari e le
finestre ampie sul balcone bianco. L'aria profumata e accogliente
raggiunse il suo viso come uno schiaffo e la sonnolenza che l'aveva
colta divenne insopportabile: le si chiudevano gli occhi e uno
sbadiglio poco elegante le deformò il viso.
Si
lasciò scivolare sul grande letto e si sfilò gli stivali con un
unico gesto fluido prima di accoccolarsi su se stessa.
La
sua espressione si fece all'istante più rilassata: non c'era niente
di più delizioso che la sensazione del tepore di una stanza
accogliente -anche se lei non poteva sentire freddo- che lentamente
risaliva dai piedi lungo le gambe, si fermava nel ventre e da lì si
irradiava in tutto il resto del corpo.
Si
sentiva languida come un gattino al sole.
Si
disse che avrebbe chiuso gli occhi solo un momento, giusto il tempo
di riposarsi un po' dopo le dodici ore di viaggio, ma nel momento in
cui chiuse le palpebre cadde tra le braccia di Morfeo.
Stefan
la trovò così, con le gambe raccolte al petto e i capelli sparsi
sul materasso come una macchia di cioccolato caldo.
Si
chiese se fosse o meno il caso di svegliarla: aveva prenotato in una
piccola pizzeria proprio dietro il palazzo ducale, ma Julya sembrava
così tranquilla e pacifica...
Alla
fine, Julya si svegliò da sola quando sentì Stefan sedersi accanto
a lei. Mugugnò qualcosa e si stropicciò gli occhi con le mani.
“Che
ore sono?” biascicò con la voce ancora impastata dal sonno.
"Le
otto”
“Uhm,
ho fame. Andiamo da qualche parte a mangiare?”
“Ho
prenotato in una pizzeria. Ho sentito che è la migliore della città”
Julya
annuì con più convinzione, in sincrono con il suo stomaco
brontolante e schizzò sotto la doccia.
Sentiva
il getto d'acqua e poteva immaginare intenta a massaggiarsi
delicatamente la braccia, le gambe e le spalle.
Si
lasciò scivolare sul letto, pensando a lei e al suo volto prima,
proprio mentre dormiva.
Quando
era sveglia non aveva mai un'espressione così pacifica, quasi
angelica. C'erano momenti in cui gli sembrava di trovarsi di
fronte a una specie di terremoto o uragano, sempre in movimento, e
allo stesso tempo gli ricordava una bottiglia di ottimo champagne:
sofisticata, frizzante e affascinante.
Sapeva
essere rumorosa anche quando sedeva in silenzio nella stanza: c'era
qualcosa in lei, nella sua stessa essenza, che sembrava riempire
l'aria in qualunque momento.
Julya,
proprio come lo champagne, gli piaceva e gli andava alla testa; lo
faceva sentire leggero, come se vivesse in un universo in cui tutte
le cose erano facili e belle.
Sospirò
con la certezza che, qualunque cosa fosse il sentimento che provava
per Julya, gli avrebbe provocato solo guai.
E
quella vacanza, dopotutto, non avrebbe semplificato proprio niente.
*
Julya
rideva da una notevole quantità di tempo e così di cuore che Stefan
non si lasciò pregare e raccontò gli aneddoti più divertenti della
sua vita solo per continuare ad ascoltare quel suono così musicale.
“Non
ti ci vedo proprio a un concerto di Bon Jovi, a cantare a
squarciagola sotto un palco, ballando” ammise con il fiato
corto per il troppo riso.
Si
sporse un po' sul tavolo e sorseggiò l'acqua nel suo bicchiere.
Avevano oramai finito la cena e si stavano godendo un po' l'atmosfera
che si era creata tra loro, intima e allegra come lo era stata negli
anni venti.
Julya
guardò fuori dalla finestra e notò il cielo limpido, le acque calme
e provò il desiderio di godersi la città.
“Andiamo
a fare una passeggiata?”
“Pensavo
che Venezia non ti piacesse”
“Diciamo
che ho voglia di concederle una chance” ammise e, quando Stefan
annuì e si alzò, lei lo seguì.
Pagarono
e in un attimo si ritrovarono a passeggiare lungo il Canal Grande a
braccetto, come due amici qualunque
in una serata come tante.
Fu
Stefan a rompere il silenzio che si era creato; Julya si stava
godendo l'atmosfera placida di una notte veneziana.
“Sai,
a volte mi chiedo perché tu sia davvero alla ricerca del Graal”
“E'
molto complicato, Stef. E io non voglio davvero appesantire una bella
serata con certi discorsi”
“Lo
capisco. Ma forse parlarne...”
“Lo
faremo” gli promise “Un giorno ti dirò tutto, ma ora non credo
di essere ancora pronta a parlarne con qualcuno. Credo di non essere
più abituata ad avere qualcuno con cui aprirmi”
“A
dire la verità, io ricordo che neanche nel 1928 eri particolarmente
brava a farlo”
“Non
ho mai avuto problemi a parlare con te” gli ricordò, piccata.
“Vero,
ma direi che sono l'eccezione che conferma la regola. Credo che sia
per il mio fascino” ammise con aria pensierosa e Julya rise.
La
serietà del momento precedente svanì come fumo nell'aria e Julya
gli fu grata di aver cambiato argomento.
“O
per i tuoi capelli”
Stefan
la guardò con un'espressione profondamente ferita che fece ridere
ancora di più Julya. Si alzò in punta di piedi e gli passò una
mano tra i capelli.
Solo
un vampiro avrebbe potuto sentire l'odore che emanavano, un mix di
shampoo e profumo di gel che si unì al dopobarba di Stefan.
Era
virile e le piacque. Lo ispirò a fondo, sempre in punta di piedi e
appoggiandosi alle sue spalle.
“Mi
stai... annusando?”
La
guardò con entrambe le sopracciglia inarcate e Julya scoppiò a
ridere.
“Credo
di sì” ammise.
Ripresero
a camminare con un sorriso, chiacchierando come facevano negli
anni venti, quando Stefan la riaccompagnava a casa dopo aver passato
la notte nel night club dove lavorava.
Stefan
continuava a raccontare e a un certo punto Julya cominciò a
guardarlo in modo diverso, con uno sguardo concentrato e riflessivo.
C'era
qualcosa di strano nel modo in cui Stefan la faceva sentire, ma era
sempre stato così. Se il suo cuore non fosse già stato fermo da
secoli, avrebbe detto che era lui, con il suo sorriso e il modo di
essere, a bloccarlo.
La
faceva sentire come una ragazza come tante e le sembrava di avere uno
stuolo di farfalle che si agitava nello stomaco.
Non
avrebbe saputo dire cosa fosse: era la prima volta che si sentiva
così vulnerabile, così umana. Eppure
era la parte che le piaceva di più, quel sentirsi così normale.
Non
aveva mai provato nulla di simile prima d'allora e anche quando c'era
Kol le cose erano completamente diverse, impossibili da paragonare.
Con
un sussulto, cercò di riportare alla memoria il suo primo amore e si
rese conto con tristezza di non avere ricordi.
Se
n'erano andati con lui ed era stata lei a lasciarli andare: era stato
più facile, piuttosto che trovare la forza di aggrapparsi ad essi.
Non
ne andava fiera e dopo tanti anni avrebbe voluto avere qualcosa da
ricordare. Invece non le restava che un anello al dito e la blanda
rimembranza di un sorriso che a poco a poco sarebbe scomparso insieme
a tutto il resto.
Ogni
giorno sarebbe stato sempre più difficile ricordare i dettagli del
viso di Kol, il suo sorriso e i suoi occhi e si odiava per aver
permesso che accadesse.
Stefan
si accorse che Julya non lo ascoltava più e che il suo sguardo si
era fatto cupo.
“Tutto
bene?”
“Cercavo
solo di ricordare una cosa”
Stefan
l'attirò a sé, cingendola con le braccia. Non chiese spiegazioni;
lasciò che Julya sentisse solo che era lì per lei e che avrebbe
ascoltato qualunque cosa, le sue parole o i suoi silenzi.
Si
strinse a lui socchiudendo gli occhi, dando la colpa alla stanchezza
di quella debolezza e dicendosi che il giorno dopo sarebbe andato
tornato tutto a posto.
Però
la notte era ancora giovane e il giorno lontano dall'arrivare perciò
poteva concedersi ancora per un po' di viaggiare sulle ali della
memoria.
Fu
grata a Stefan di quell'abbraccio e del calore che vi infuse: per una
volta, non avrebbe dovuto fingere di non essere sola e un insolito
sfarfallio all'altezza del petto le fece notare che qualcosa stava
cambiando nel suo modo di vedere il ragazzo.
Era
stato un ammiratore, poi un amico fino a diventare il migliore
amico -anche se Stefan rideva
quando lo definiva così- e ora il loro rapporto stava lentamente
approdando a una nuova definizione, qualcosa che Julya non
comprendeva a pieno.
Di
una cosa però era sicura.
Provo
qualcosa per Stefan, ammise con
se stessa. Cosa... be', quella era tutta un'altra storia.
Continua
**