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Autore: Carmen Black    22/03/2013    5 recensioni
Due branchi in conflitto e una ragazza che vuole scatenare l'ira di suo fratello socializzando col nemico.
Un nemico che non è come dovrebbe essere. E soprattutto non si fa odiare.
Embry, che invece di arrabbiarsi ride, invece di tenerla lontano le dà un appuntamento...
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Embry Call
Note: AU, Lemon, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun libro/film
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Sulla Linea Di Confine




Ero seduta su una roccia al centro esatto della foresta, dove dei confini invisibili dividevano il territorio dei Quileutes, dal nostro: quello dei Navajo.
Respirai a fondo, scrutando il buio di fronte a me e meditando su quale sgradevole azione potessi compiere per fare un bel torto a mio fratello Steven.
Certo… socializzare col nemico sarebbe stato imperdonabile, una delle cose più ignobili. E proprio per questo volevo farlo o nelle ultime delle ipotesi, attaccare brighe.
Una volta i Quileutes e i Navajo erano uniti, combattevano fianco a fianco, donavano la vita l’uno per l’altro. Poi a causa di una donna, il gruppo si era diviso, non riuscendo più a mettere l’astio da parte.
Ed eccoci qui, a distanza di centinaia di anni ad alimentare una rabbia che non era la nostra, facendoci la guerra anche quando non era necessario e non perdendo occasione per denigrarci a vicenda.
Mi alzai in piedi mettendomi le mani sui fianchi.
Ero a favore di vento e non riuscivo a captare odori provenire dal territorio nemico, ma solo dal mio.
Probabilmente qualcuno della loro guardia, mi stava già spiando acquattato tra i cespugli e non aspettava altro che oltrepassassi la linea per azzannarmi e riportarmi all’ordine.
Mi chiesi se lo avessero fatto anche se avessi continuato a mantenere la forma umana.
Beh, c’era un solo modo per scoprirlo.
Saltai giù dalla roccia con agilità, i miei miseri vestiti non mi creavano alcun impiccio. I capelli, legati in una coda, mi solleticavano la nuca, come le foglie sotto i miei piedi.
«Non fare un altro passo o ti faccio fuori».
Vidi una sagoma stagliarsi contro un albero, lo focalizzai subito. Era un maschio, non un Alfa sicuramente, ma nemmeno un bamboccio.
Avanzai ancora, le dita dei piedi sulla linea di confine.
Colsi il luccichio del suo sguardo cupo che mi perforava. Se pensava che m’incutesse timore si sbagliava di grosso, più che altro mi stuzzicava, mi invogliava a sorpassare il limite invisibile.
«Ferma», ringhiò ancora.
«Perché altrimenti che fai?», gli risposi con un tono dispettoso che solitamente faceva imbestialire mio fratello Steven come non mai.
«Qualche problema, Paul?». Un’altra sagoma sbucò dalle ombre, l’andatura più che disinvolta e l’atteggiamento spensierato. «Ah, capisco», disse non appena mi notò. «Vai pure, me la vedo io qui. Tu non sei bravo con le parole».
Il ragazzo testa calda mutò a una velocità inaudita e scomparve fra la vegetazione, mentre l’altro si diresse nella mia direzione.
Man mano che si avvicinava i suoi tratti diventavano più nitidi: i capelli arruffati, gli occhi dal taglio all’insù, il mento ostinato; i muscoli in tensione, i fianchi stretti… niente che non avessi già visto milioni di volte. E il tatuaggio, proprio dove lo avevo anche io, ma con un motivo totalmente diverso.
«Guarda che bel bocconcino», sorrise divertito. Un suo piede si fermò in mezzo ai miei, sulla linea di confine, la sua testa a qualche spanna dalla mia, ma i suoi occhi fissi e brucianti nei miei. «Mi dispiacerebbe ucciderti».
«Mi stai toccando», sibilai tra i denti.
Fece un sorriso obliquo, i suoi denti splendettero ai deboli riflessi dei raggi della luna che s’infiltravano tra i rami.
«Davvero?».
Mi accorsi che aveva avuto la decenza – rispetto al suo amico di poco prima – di mettersi un paio di pantaloncini addosso, visto che, ero comunque una ragazza.
A ogni modo, il suo petto era contro il mio e lo aveva fatto di proposito, pensando che in quel momento  avrei indietreggiato intimorita.
Io ero ostinata peggio di lui, lo avrebbe scoperto presto.
«Allontanati da me», ringhiai ancora.
«Ma no, stiamo così bene vicini, non trovi anche tu?».
«Potrei colpirti».
«Anche io, tesoro».
Mi scrutò a lungo negli occhi, caparbio, fermo, convinto. Mi accorsi di aver dimenticato il vero motivo per cui volevo oltrepassare il confine. Quella faccenda era diventata una questione fra me e quel Quileute.
«Cos’è? Hai una di quelle fasi strane che colpiscono le donne ogni tre ore? Perché vuoi farti uccidere?».
«Saranno pure fatti miei».
«Certo», disse sbuffandosi un ciuffo di capelli neri dalla fronte. «Solo che volevo offrirti la mia spalla per dire le tue ultime volontà… quelle cose lì insomma».
Mi leccai le labbra e sollevai una mano poggiandogliela sul fianco. Avvertii il ruvido di una cicatrice.
«Lo sai che sei proprio carino…».
«Sì, me lo dicono in tante».
«Come ti chiami?».
«Embry. Un nome, una leggenda».
Espirai appena, cioè che si diceva sui Quileutes era vero. Forse avrei dovuto dare retta al mio branco e smettere di proporre stupide tregue.
Quel ragazzo era pieno di sé, ma chi si credeva di essere? Gli serviva una bella lezione e forse sapevo come dargliela.
Mi sollevai sulle punte e gli circondai le spalle con un abbraccio. Le sue mani si posarono sui miei fianchi, leggere.
Eravamo entrambi pericolosamente in bilico al confine dei nostri territori, un solo passo falso e uno dei due avrebbe potuto far valere i propri diritti.
«Senti… che dici se…».
«Hmm?», mormorò stringendo la presa.
«Se troviamo il modo per trascorrere un po’ il tempo?».
«Io un modo ce l’ho già in mente…».
Fece l’errore di sbilanciarsi, per chinarsi appena su di me e probabilmente baciarmi, così colsi l’occasione per tirarlo con forza finché non ricademmo all’indietro, nel mio territorio.
Sorrisi maleficamente e con un pugno lo rispedii oltre il confine.
Embry rimase steso in terra, poi si poggiò una mano sugli occhi e scoppiò in una fragorosa risata. «Dovevo immaginarlo!».
Mi misi le mani sui fianchi e lo guardai con odio. Perché diavolo non si arrabbiava?
«La donna ha intrappolato il diavolo in un barattolo come pretendevo di farla franca?», e continuò a ridere come un forsennato, finché non si sollevò su un gomito con le pupille lucide. «Brava, mi sei piaciuta. Hai fatto in modo che oltrepassassi il confine per colpirmi. Complimenti».
Si alzò spolverandosi i calzoncini. «Dimmi, come ti chiami? Devo sapere il nome della prima donna che è riuscita a farmela».
«Non t’importa e ora vattene!», esclami girandomi di spalle.
Maledetto Quileute, maledetto, maledetto!
«Va bene, dolcezza. La prossima volta che hai intenzione di venire però, mangia un po’ di miele, o bevi camomilla».
«Sto per ucciderti», ringhiai puntandogli un dito contro.
«Hmm… adoro le selvagge».
Per poco non mi caddero le braccia a terra. Ma era possibile che qualsiasi cosa dicessi, lui rispondeva come… come un demente?
«Mi chiamo Thia. Un nome e una minaccia», dissi andando via.
 
 
Era venerdì sera, uno dei tanti.
Era una vera scocciatura fare parte di un branco di lupi tutti dell’altro sesso. Continuavo a sperare che qualche ragazza si unisse a noi prima o poi.
Anche se avevo delle amiche al di fuori, era più semplice uscire con i ragazzi con cui trascorrevo la maggior parte del giorno, eravamo affini, uniti da una connessione speciale; non dovevo nascondere nulla né evitare stranezze come sparire da un momento all’altro né mentire.
Indossai un top bianco senza bretelle e un jeans aderente, le gonne non facevano per me, nemmeno nelle occasioni speciali al contrario dei tacchi che indossavo volentieri fuori dalla Riserva.
Non appena misi un piede fuori, i ragazzi si stavano già accingendo a entrare in auto, sicuramente avevano ascoltato i miei movimenti in casa.
Mi sedetti sul sedile posteriore a fianco a Chris. Mio fratello e il suo migliore amico Joshua invece occupavano i posti davanti.
«Dove andiamo stasera?», chiesi disinteressata.
«A Forks, un locale nuovo in centro».
Che noia… ma sempre meglio che rimanere a casa.
Quando arrivammo, notai che c’era un discreto movimento nel parcheggio e una serpentina di persone era in fila per entrare. Un disco pub era una novità in quella piccola cittadina.
Mentre camminavamo lungo il marciapiede mi accorsi degli sguardi che ci rivolgeva la gente, erano quelli di sempre, alcuni ammirati, altri dubbiosi. Mi rendevo conto che eravamo un po’ fuori dal comune, non tanto io, ma la stazza dei miei amici era evidente.
Quando entrammo all’interno mi accigliai osservando qualcuno che ballava persino sui tavoli, c’era più gente di quanto il locale ne potesse contenere e un fumo denso e bianco soffocava l’aria.
Ci dirigemmo verso il bancone per prendere qualcosa da bere, quando un ragazzo mi venne a sbattere contro e dopo avermi dato un’occhiata fugace, fischiò. «Wow, perché non vieni a ballare con me?».
Mi tolsi le sue mani di dosso e seguii i miei amici che non si erano preoccupati per niente del mio contrattempo, come sempre del resto. Loro sapevano che io me la cavavo benissimo da sola.
La musica vicino al bancone non era forte come in pista, se si voleva, si poteva persino intrattenere una discussione.
I miei amici e mio fratello non persero tempo ad abbordare qualche svampita, così mi allontanai un po’ e mi sedetti su uno sgabello a tamburellare con le dita sul legno logoro.
Ordinai un bicchiere di qualcosa, che non bevvi.
Che noia… avevo fatto quel pensiero per la seconda volta in poco tempo.
«Thia».
Socchiusi gli occhi quando da lontano sentii qualcuno pronunciare il mio nome. Il mio udito sviluppato lo aveva captato nonostante la musica.
Mi guardai intorno a scrutare la folla.
«Novellina… non capisci nemmeno da dove proviene la mia voce».
«Forse non m’importa», sussurrai.
«Va bene, buona serata».
«Embry…», lo richiamai. Riconobbi il suo timbro.
«Non mi hai dimenticato eh?».
Sospirai e guardai in aria. «Effettivamente è stato un trauma troppo grosso incontrarti».
Sentii la sua risata e un brivido mi corse lungo le braccia. Scrutai ancora la gente nelle vicinanze del bancone, smaniosa di vederlo con i vestiti addosso.
Mi venne da ridere, una ragazza normale avrebbe sperato il contrario, ma io l’avevo già visto mezzo nudo.
«Alzati da quella sedia e raggiungimi», mi ordinò.
«Nemmeno morta», gracchiai.
«Hai paura di me, fiorellino?».
Fiorellino a una lupa? Che razza di demente!
«Non sono da sola».
«Invece sei da sola, chi è con te pensa a fare altro. E non si lascia da sola una bella ragazza come te».
Sospirai ancora muovendomi irrequieta, io volevo raggiungerlo. Volevo divertirmi e con lui ci sarei riuscita, non faceva altro che dire idiozie. Ma se i ragazzi mi avessero visto con un Quileutes sarebbe scoppiata una rissa, come minimo.
«Thia… ci stai pensando troppo».
Saltai giù dallo sgabello e andai verso la folla che si dimenava a ritmo di musica, senza nemmeno cercarlo. Mi avrebbe trovato lui.
Andai dall’altra sponda della sala più lontano possibile dai membri del mio branco e iniziai a ballare.
Oh… avrei fatto peggio di quella notte nella foresta.
Nel giro di qualche secondo mi trovai accerchiata da ragazzi, le loro mani vagavano sul mio corpo, man mano sempre più invadenti. Ne allontanai qualcuna con nonchalance ad altri riservai qualche occhiataccia.
Quando avrei riconosciuto il tocco di Embry, l’unico più caldo degli altri, mi sarei dedicata solo a lui.
Volevo fare capitolare un Quileute, che bella soddisfazione!
Uno stupido mi afferrò i fianchi premendomi contro di lui con veemenza. Sorrisi prima di tirargli una bella ginocchiata nelle parti basse, ma fu Embry che lo allontanò da un braccio guardandolo torvo. «Non si tocca così una ragazza», lo ammonì. Quello sconosciuto stava per replicare ma il mio nemico fece uno sguardo cupo, un ringhio represso in fondo alla gola e il malcapitato andò via dileguandosi fra i tanti corpi in movimento.
Nessuno del mio branco aveva mai fatto un gesto di quel genere, nemmeno Steven.
Embry tornò con gli occhi nei miei e una sua mano scivolò sul mio fianco leggera e un po’ ruvida, finché non mi avvolse completamente la vita. L’altra mano invece riscese sul mio fondoschiena infilandosi nella tasca posteriore dei jeans.
«Stai superando il limite».
Embry annusò la mia pelle, vicino al collo.
«Non è una novità, questa è la seconda volta. Vuoi tirarmi un altro pugno?», mi derise.
Quando sentii la sua bocca sfiorarmi l’orecchio chiusi gli occhi sollevando le mani sul suo petto.
«Magari un calcio nei gioielli di famiglia, che ne dici?».
«Voi Navajo, siete tutti uguali», mormorò con disappunto. «Credete di essere i più forti».
«Lo siamo. Lo sono», asserii guardandolo negli occhi. Notai una piccola cicatrice al centro della sua fronte.
«Ti potrei spezzare il collo in un nanosecondo, piccola».
«Davvero? Scommettiamo che te lo spezzo prima io?».
Sentii il suo petto alzarsi quando prese respiro. Incatenò gli occhi ai miei e la sua bocca scorse sulla mia, leggera come una carezza. «Al Confine tra un’ora», disse sulle mie labbra.
«Un appuntamento? Non starai facendo le cose serie, Embry?».
Perché non la smetteva di sfiorarmi e mi dava un bacio vero?
Si allontanò da me con un sorriso soddisfatto. «Lo so che morivi dalla voglia che te lo chiedessi, zuccherino. E comunque è per vedere chi spezza il collo per prima all’altro».
 

Un’ora e mezza.
Le donne si devono fare attendere. Sempre.
Uscii dal buio annusando l’aria: Embry era già lì.
Avanzai con sicurezza fra gli alberi finché non mi fermai sulla linea di confine, proprio come era successo qualche notte prima.
«Navajo…», sentii dire. «Sbruffoni. Tutti».
Embry saltò giù da un ramo con agilità e con due falcate mi arrivò di fronte. «Stavolta potresti essere tu quella a oltrepassare il confine», sussurrò con voce suadente.
«Hai così tanta voglia di spezzarmi il collo?».
Avvicinò una mano al mio viso scostandomi i capelli che avevo lasciato sciolti, dietro la schiena. «Ho voglia di tante cose».
«Tipo?», lo provocai mentre dei lampi intensi illuminavano il cielo sopra di noi e sprazzi di foresta.
«Tipo che oltrepassi questo confine».
Le sue dita scorsero sul mio ventre nudo, oltrepassarono l’ombelico e indugiarono sul bottone dei miei jeans.
Sentii una scintilla di ansia in fondo allo stomaco, ma sostenni il suo sguardo dove si stava consumando un piccolo fuoco.
«Così puoi restituirmi il pugno? E i tuoi amici faranno il resto?».
«Nessuno ti farà del male nel mio territorio», sorrise divertito. «Che tu sia una Navajo o no».
Stava bluffando alla grande, non gli credevo. Avevo assistito a centinaia di azzuffamenti fra il mio branco e il suo perché qualcuno non aveva calcolato bene le distanze ed era entrato nel territorio dell’altro.
«L’intelligenza non è il tuo forte Embry, sul serio».
«Provare per credere», mi provocò accarezzandomi il mento.
Essere subdolo e indegno. Maledetto Quileute con le labbra più belle che avessi mai visto.
Va bene. A limite che cosa ci avrei perso? Niente.
Mi sarebbe arrivato un pugno in faccia e il livido sarebbe scomparso con la stessa velocità con cui era apparso.
Alzai il mento e abbozzai un sorriso orgoglioso. Poi, con la guardia alta, feci un passo in avanti.
Embry piegò il viso verso di me e mi guardò con degli occhi strani, quasi predatori. In un lampo pensai che stesse per mutare per aggredirmi, ma non mutò… però mi aggredì.
Mi ritrovai con la schiena contro un ruvido tronco d’albero, con le sue braccia che mi imprigionavano come una gabbia e il suo bacino che premeva sul mio per limitare i miei movimenti.
«Ti farò la pelle Quileutes», sibilai a denti stretti.
Embry respirò sulla mia bocca, non un semplice respiro, qualcosa che sapeva di aspettativa. Gli piacevano le minacce?
«Hmm… non vedo l’ora».
Allentò la presa e si chinò fino alla mia bocca impossessandosene come se fosse aria.
Lo morsi un paio di volte prima di essere travolta dalla sua passione, dalla sua tenacia e da quel calore sempre più crescente che sprigionava.
Infilai le dita nei passanti dei suoi jeans e lo attirai più vicino a me, finché non gli salii a cavalcioni stringendogli il viso fra le mani e scostandogli il ciuffo dalla fronte.
Sentivo la sua lingua che mi cercava insistentemente e io gli davo quello che voleva, incapace di contraddirlo ancora.
Scesi dalla sua bocca alla sua gola fino a raggiungere il polo d’Adamo che stuzzicai con i denti prima di proseguire sul collo.
Lo strappo dei miei vestiti fu inequivocabile.
«Adesso come torno a casa?», protestai ansimando mentre la sua bocca lambiva famelica il mio seno.
«Con la pelliccia», sussurrò a voce rauca.
Per ripicca strappai anche i suoi jeans lanciandoli via.
«Quanta fretta», disse sfregandosi contro di me. Le sue mani scesero sui miei glutei e mi sollevò meglio su di lui per poi entrare in me lentamente, mordendomi la bocca.
Ricambiai il morso più forte ma a lui non piacque, perché m’inchiodò più forte contro il tronco facendomi strizzare gli occhi. «Vuoi fare la guerra anche in questo caso?», mi chiese a fior di labbra mentre le sue spinte continuavano sempre più veloci.
«Sì», asserii perdendomi nel suo sapore.
«Va solo a tuo discapito».
«Per questa volta non faccio storie».
Sorrise un’ultima volta soddisfatto prima di trasportarmi insieme a lui nel vortice del piacere.
 
 
«Pensavo che volessi fare un secondo round».
Mi allontanai da quel corpo calamitoso, dirigendomi nel mio territorio a soli pochi passi da me.
Embry era in piedi vicino al tronco che avevamo adoperato per… vabbè si è capito.
«Due volte con lo stesso ragazzo? Nemmeno morta».
«Io non sono un ragazzo qualunque».
Oltrepassai il confine, nuda, senza uno straccio di vestito addosso perché il Quileute l’aveva ridotti in brandelli.
Avevo ancora il suo sapore sulla lingua, il calore delle sua mani, come bruciature sulla mia pelle.
«Hai ragione, è per questo che non mi posso ribassare».
Embry sorrise da lontano, il fantasma di due fossette gli comparve sulle guance. Si strinse nelle spalle mentre io ancora ferma, aspettavo che si avvicinasse alla linea invisibile che ci separava.
«Credo che ti farò fare un permesso speciale per entrare a La Push».
«Non hai sentito ciò che ho detto? Ti sei rincretinito?».
«Sono solo parole. I fatti sono che sei lì, sulla linea di confine, ad aspettare che mi avvicini».
Alzai il mento e gli feci un gestaccio, poi mi girai di spalle e camminai per ritornare indietro al mio villaggio.
Che razza di cretino, babbeo, Quileute. Che cosa pensava che con il suo sorriso mozzafiato mi avrebbe fatto capitolare? Che piuttosto capitolasse lui, così avevo qualcosa di cui vantarmi col mio branco, se non mi avessero ucciso prima.
«Ehi fiorellino!», la sua voce echeggiò nell’aria e continuai imperterrita a camminare, anche perché pure se mi fossi voltata non l’avrei visto, eravamo troppo distanti ormai.
«Domani a mezzanotte?», chiese divertito.
Aspettai qualche istante prima di rispondere, ma fra me e me ridacchiai. «Verrò solo per ucciderti, sappilo!».
«Con piacere!».


Angolino autrice

OS scritta per partecipare a un contest su facebook, indetto da Postergirl84.
Anticipo i ringraziamenti a tutti voi che leggerete, spero che vi piaccia!
Alla prossima <3

  
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