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Autore: Laylath    23/03/2013    2 recensioni
Che cosa sarebbe successo a tutti loro? Potevano continuare a proteggersi a vicenda?
In poche ore gli uomini di Mustang ricevono l'ordine di trasferirsi negli angoli più pericolosi del paese: gli scacchi vengono allontanati dal loro re.
E' il pedone che, in poche ore, deve fare i conti con le paure e i dolori della separazione e alcuni tremendi sospetti; perché ogni pezzo è indispensabile alla vittoria finale.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Team Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Fotcett.
Per il resto della sua vita questo nome avrebbe suscitato solo incubi.
Era la regione di confine con Aerugo e ad attraversarla non sembrava diversa da molte altre zone di Amestris. Finchè non si arrivava alla frontiera: lì il mondo finiva e iniziava l’inferno.
 
Come aveva immaginato, non aveva fatto in tempo ad arrivare al Quartier Generale del Sud, che era stato immediatamente trasferito al fronte.
Nonostante fosse giunto lì con i migliori propositi di essere forte, di non permettere a niente di intaccarlo, la situazione era diventata subito alienante: senza troppe spiegazioni gli avevano fornito l’equipaggiamento e l’avevano spedito in una grande baracca che fungeva da dormitorio. Quella per qualche giorno sarebbe stata la sua casa: era infatti un campo di preparazione, dove venivano radunati i nuovi rinforzi, le truppe fresche, per essere istruiti sulle operazioni di guerra.
Ma non era come all’Accademia, dove c’erano ragazzi con massimo tre anni di differenza che ignoravano completamente gli orrori di una battaglia. Qui c’erano soldati di ogni età ed esperienza che sapevano di essere tremendamente vicini alla morte. E questa consapevolezza era così tangibile che Fury se ne sentì quasi soffocato. Erano ben pochi quelli che si mostravano spavaldi: forse erano i più sciocchi, i più impreparati, i più spaventati; la maggior parte stava in silenzio e attendeva. Erano rari anche quelli che parlavano tra di loro: qualche commilitone che si rincontrava o soldati che avevano la fortuna di essere stati trasferiti assieme; Fury li osservava con invidia, perché iniziava a capire che avere compagni fidati in questo frangente poteva fare la differenza tra il lasciarsi andare e sopravvivere.
Ripetendosi mentalmente le parole che i suoi compagni, il colonnello e il tenente gli avevano detto, cercava di convincersi che lui non era solo, che era come se gli altri fossero con lui. Ma la realtà che stava vivendo faceva sentire il peso della separazione più di quanto avesse immaginato e ben presto si sentì più sperduto di quanto lo fosse mai stato in tutta la sua vita.
Le istruzioni che vennero loro date furono un breve ripasso delle esercitazioni fatte in Accademia. Piccole squadre di massimo cinque persone, oppure coppie di due soldati alla volta: nelle trincee non c’era spazio per gruppi numerosi.
La cosa più destabilizzante fu la mancanza di un obiettivo: non città da conquistare o nemici da respingere. Nessuno dei loro superiori disse loro che la guerra sarebbe finita nel momento in cui avrebbero vinto le forze nemiche. No, gli unici ordini furono che quelle trincee non potevano restare vuote, per non dare al nemico l’idea che avevano ceduto; e poi sparare ad ogni soldato avversario che giungeva a portata di tiro.
Era la follia più totale e la cosa più agghiacciante fu che tutti loro non avevano avuto la forza di obbiettare a questi ordini.
 
Dopo tre giorni erano stati mandati nel campo di battaglia.
Topi di laboratorio che corrono impazziti nel labirinto di cartone: ecco cosa erano diventati. La loro vita era correre disperatamente in quelle piste scavate sul terreno, evitando bombe e proiettili: si arrivava a un punto prestabilito, dove un superiore dava nuovi ordini, e si riprendeva a correre fino a quando non se ne poteva più. E a quel punto si doveva continuare o morire.
A dire il vero le occasioni di usare il fucile erano rare: c’era ben poco da sparare in quanto le truppe di Aerugo preferivano lanciare bombe e granate contro l’avversario piuttosto che mandare i propri soldati sotto tiro nemico. L’esercito di Amestris usava sì le bombe, ma pretendeva che i suoi uomini tentassero delle sortite: erano quelle le cause delle perdite maggiori perché quando si usciva dalla trincea correndo in campo aperto per raggiungere la successiva, si diventava oggetto di un tiro a segno impressionante.
Trovati ogni maledetto giorno che passì lì una ragione per andare avanti, correre ed evitare di morire.
E’ questo che aveva detto il sottotenente Breda: ma quella mattina, in una vita che sembrava lontana secoli, Fury non aveva immaginato quanto potesse essere difficile trovare una ragione per vivere in un mondo dove morire era la norma.
Dopo i primi due giorni, il suo corpo e la sua mente iniziarono a sprofondare in una sorta di inesorabile, disperata, apatia. Quell’orrore quotidiano iniziò a distruggere le sue certezze: i volti dei suoi amici, della sua famiglia, la sua radio, così come il sapore della vita divennero ricordi lontani.
Al terzo giorno, quando vide i primi morti tra i suoi commilitoni, la sua idea di non essere sacrificabile crollò del tutto.
 
Nella terza settimana, arrivò la notte in cui il baratro si aprì sotto di lui.
Nella trincea il terreno era melmoso e scivoloso per la pioggia che aveva imperversato fino a poco prima.
Fury sedeva immobile su una pozzanghera, con la schiena poggiata pesantemente contro la parete di nuda terra: aveva gli occhi chiusi, il respiro minimo. Il fucile giaceva nel suo grembo, mentre le mani, sporche di fango, erano abbandonate lungo i fianchi. Sentiva il braccio destro gonfio e percorso da uno strano torpore, ma se stava fermo non provava dolore. Forse era ferito, ma il cappotto bianco era così coperto di fango da non capire se era presente anche del sangue.
Non dormiva. Teneva gli occhi chiusi per evitare l’orrore che avrebbe visto se li avesse aperti.
Una granata ed era tutto finito: la squadra di tre soldati che correva lungo una delle trincee più esterne era stata colpita.
Se senti che ti devi buttare a terra non chiederti perché, ma fallo.
Una voce lontana e sconosciuta era riaffiorata nella mente proprio quando la granata li stava per raggiungere. Si era buttato in avanti, come se fosse stato scaraventato da una persona molto più grossa di lui, senza chiedersene il motivo. Due soldati erano morti, lui no.
La sensazione di qualcuno che si avvicinava gli fece aprire gli occhi e si guardò intorno, invano. Erano ormai ore che stava lì e dubitava che qualche squadra di soccorso sarebbe venuta a prenderlo: la notte era calata su di lui e su quei due cadaveri.
Era terribilmente vicino a loro, lo sapeva: avrebbe dovuto lasciarli lì e continuare la sua corsa, ma l’impatto della granata era stato così forte da levargli quel poco di forza che ancora aveva. Ma, soprattutto, aveva visto i corpi dei suoi compagni ed era come se l’avessero incatenato a loro.
Non sapeva nemmeno come si chiamavano: il gruppo era stato formato quella stessa mattina e lui ormai non si preoccupava più di imparare i nomi. Ne aveva cambiato già così tanti…
Le nuvole si diradarono e il chiarore della luna piena illuminò impietoso quella trincea di morte, mostrando a Fury l’orrore che aveva cercato di evitare per così tante ore.
Erano entrambi biondi e la loro carnagione chiara adesso aveva assunto il bianco della morte. Uno di loro giaceva prono sul terreno, le braccia spalancate quasi in un ultimo gesto di disperazione, la parte inferiore del corpo lacerata dalla granata. Ma era il secondo a fargli venire gli incubi: perché lo stava guardando. Al contrario del compagno, giaceva di lato con le mani che artigliavano il terreno, cercando scampo alla morte che era arrivata in un tremendo squarcio sul ventre. Il viso era rivolto verso Fury e aveva un’espressione di doloroso stupore; gli occhi azzurri erano aperti, le pupille fisse, quasi ad accusarlo: perché sei vivo?
“Mi dispiace – ansimò il ragazzo, febbricitante, rispondendo a quella domanda, spingendosi ancora di più contro la parete della trincea – non lo so perché. Ti prego… ti prego non guardarmi!”
Dopo interminabili minuti riuscì a distogliere lo sguardo da quel viso e muovendosi lentamente, quasi avesse paura di scatenare l’ira dei morti, sollevò la testa verso il cielo.
Senza nessuna luce artificiale a offuscarlo, il firmamento splendeva sopra di lui, quasi a compensare con la sua bellezza la morte che stava nella trincea. La luna era al suo culmine e non gli era mai sembrata così grande, ma lui cercava un’altra cosa.
“La stella polare – mormorò in preda al delirio – la stella polare… maresciallo per favore, non riesco più…”
Singhiozzò e abbassò lo sguardo, incapace di reggere ancora quella visione così dolorosamente bella, dove non riusciva più a trovare la stella che tanto cercava, senza nemmeno ricordarsi perché.
E davanti a lui di nuovo quegli occhi che lo fissavano. Erano così azzurri…
Avrei dovuto esserci io al tuo posto… disse il ricordo di altri occhi del medesimo colore.
“Avrei dovuto esserci io al tuo posto” ripetè Fury rivolto al cadavere.
Ma quelle parole non bastarono a far passare l’accusa in quello sguardo immobile e fu di nuovo prigioniero in attesa di giudizio. Perché non era morto?
Frammenti di voci e ricordi iniziarono a sfrecciare nella sua testa dolorante. Tante schegge appuntite che lo facevano impazzire.
Fiamme, spari, mostri…
“Vuoi fare una partita, sergente?”
Un rifugio vuoto, senza radio, scatole imballate, una scacchiera rovesciata…
“La nostra squadra… insieme…”
“Tu fai un elenco di tutti quelli che ti daranno fastidio in trincea…”
Questi occhi azzurri… loro mi stanno dando fastidio!
“Vado a vedere se il cibo dell’Ovest è così buono come dicono…”
“Scommetto che farà molto freddo al quartier generale del Nord…”
Il re bianco sotto scacco matto, tutti i pezzi a terra… un pedone lontano dal centro… la stella polare offuscata
“Trasferimento immediato… Quartier Generale del Sud…”
“Assistente personale del Comandante Supremo…”
“Sei troppo grande perché io ti tenga la mano, non credi?”
“Dimmi che lo farai… ”
“Andate tutti via!! – gridò disperato levandosi con un gesto brusco l’elmo e lanciandolo contro quella faccia che continuava a fissarlo. La colpì in pieno e finalmente gli occhi azzurri furono coperti dal grigio del metallo – Smettetela!” supplicò
Le lacrime scesero copiose, mentre il braccio destro prese a pulsare più intensamente. Le voci sparirono dalla sua testa e fu solo silenzio. Era solo, impotente, con la morte accanto a lui che gli prosciugava qualsiasi lucidità. La follia della trincea lo stava uccidendo e quell’inferno di fango, terra e sangue stava diventando la sua tomba.
L’orrore stava avendo la meglio su di lui.
Tornò a rivolgere lo sguardo al cielo, ma le lacrime gli offuscavano così tanto la vista che vide soltanto delle macchie indistinte.
Serrò gli occhi e si abbandonò su quella parete di terra umida.
“Non voglio morire… Mamma… mamma, ti prego, dove sei?” invocò sommessamente.
Continuò a chiamare quel nome fino a quando la febbre e la stanchezza non ebbero la meglio su di lui, facendolo sprofondare in un sonno carico di incubi e di terrore.
E fu in quella condizione che i soccorsi lo trovarono al sorgere del sole.


 
  
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