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Autore: La Mutaforma    24/03/2013    1 recensioni
Quanta tristezza hai dovuto affrontare, amico mio? Quanto valgono adesso le tue fughe, il tuo imbarazzo?
Dov’è l’amore?

Feliciano pianse più forte, perché tanto Ludwig era dietro di lui e non poteva vederlo.
O forse perché era solo un bambino, e per i bambini non c’è vergogna a piangere.  
Qualcuno ha creato il mondo, bello come niente. Ci ha regalato il cielo, le stelle, il sole, il mare, la musica. Abbiamo inventato l’amore.
Eppure ci facciamo la guerra. 
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Chibitalia, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Quella mattina era ufficialmente la prima mattina di guerra.

Di nuovo.

Prussia stava sulla veranda, fuori dalla reggia.

Era sempre stato fuori. Anche quando era dentro.

Nonostante l’albino condottiero non mancasse mai di proclamare la sua magnificenza, la vita di corte non faceva per lui.

Gilbert aspettava solo la guerra, per dimostrare di essere il più forte.

I suoi occhi scrutarono l’orizzonte senza paura, e un vago ghigno gli si disegnò in viso.

Provò a fare un passo verso il giardino; qualcosa alle sue spalle lo trattenne. Quando si voltò, riconobbe il viso e i capelli rossi di Feliciano, le manine ancor piccole strette sul suo ampio mantello blu.

Come la notte. Scuro, come la guerra.

Si liberò con uno strattone, senza guardarsi indietro.

Gilbert guardava sempre avanti, qualunque cosa accadesse, anche se dietro aveva lasciato tante cose. Feliciano non ebbe il coraggio di rivolgergli la parola e affrontare quel dolore così ostinato e orgoglioso.

Seppellire un fratello è doloroso, vero?

Prussia si allontanò verso i cancelli della reggia, dove lo attendeva il suo cavallo bianco e fremente per il nuovo viaggio.

Feliciano guardò quella camminata solenne, tremenda, come un rito, mentre il condottiero raggiungeva il suo cavallo. Trattenne il fiato e lo rincorse, incespicando nell’erba rada del giardino che nessuno curava più.

Gilbert salì a cavallo: quel bambino sembrava ancora più indifeso visto da quell’altezza. Ma lui non provava tenerezza. Solo un sordo rammarico.

Scosse la testa. I suoi occhi rossi sembravano vuoti persino del disprezzo usuale.

Spronò gentilmente il cavallo e andò via. Da lontano, sarebbe potuto sembrare un principe, non un assassino.

Italia aspettò che fosse abbastanza lontano per piangere.

Era la seconda volta che guardava qualcuno allontanarsi. Stavolta però si era cimentata in lui l’idea che si parte per non ritornare.


Passarono del tempo.

Nonostante la guerra, nonostante il silenzio, Eliza seppe appurare che il temo trascorreva sempre allo stesso modo, sempre con la stessa velocità.

Italia non lavorava più ormai. Nessuno aveva cercato di richiamarlo all’ordine.

In realtà nessuno si curava più di lui.

Se ne stava sempre sulla soglia, sotto il porticato fuori la reggia, a disegnare.

Ungheria l’aveva visto crescere, in quei sessant’anni.

Più di mezzo secolo.

Ma quella non era maturità. Era solo sofferenza.

La ragazza posò la scopa in un angolo e uscì sul porticato. E Italia era lì, seduto a gambe incrociate, i capelli rossi agitati dal vento. Si avvicinò con cautela alle sue spalle, ma lui riconobbe subito il fruscio della sua gonna.

Aveva un lieve sorriso.

“E’ arrivata la primavera. La primavera non ti rende allegra, Eliza?”

Lei sorrise e si inginocchiò accanto a lui, sulla pietra, piegando la lunga gonna arancione.

“Arriva la primavera sul campo di battaglia?”

Ungheria chiuse gli occhi. Era vero. Il vento profumava davvero di primavera.

“Non c’è posto che resista alla primavera”


Anche il campo di battaglia fiorisce di cadaveri nuovi.


C’erano già tutti i fiori sugli alberi quando Eliza gli disse che la guerra sarebbe presto finita.

Ma non era come quando di notte lo abbracciava nel letto in cui dormivano assieme e gli diceva “finirà presto” e nemmeno lei ci credeva.

La guerra stava per finire, davvero.

Nessuno sapeva per quanto. Ma abbastanza per tornare a vivere un po’.

Forse con un attaccamento alla vita maggiore.

“Sta finendo. La guerra sta finendo”

Feliciano aveva sorriso al vento.

“Sì, lo so. L’ho sempre saputo. Questo non è periodo di guerra”

In realtà la guerra stava finendo perché la Danimarca era esausta. L’esercito tedesco era il più potente e temibile d’Europa.

Ungheria sorrise, posando una margherita tra i rossi capelli del bambino.

“Andiamo, Italia? Ti preparo un po’ di pasta”

Il bambino sorrise con entusiasmo, annuendo vivacemente con la testa.

Lo prese in braccio, anche se non era più un bambino, e lo accompagnò in uno dei tanti salotti della reggia.

“Siediti pure, il padrone non c’è” disse lei con un sorriso, mentre si allontanava verso la cucina. Feliciano si sedette con leggerezza tra i cuscini di pizzo e broccato sul divano e stese le gambe davanti  sé. Sembrava smagrito e pallido, le ginocchia sporche di terra e ferite per esser stato seduto sulla pietra troppo a lungo.

Eliza si sarebbe preoccupata.

Questo non è niente in confronto alla guerra.

Quando si muore, si hanno ferite più gravi di queste.

…o forse no?

Guardandosi intorno, notò un foglio arrotolato sul basso tavolo davanti a lui.

Si guardò intorno con circospezione, e poiché era solo, allungò la mano verso la pergamena come se avrebbe potuto scottarsi al solo tocco.

Ma nulla. Era un semplice foglio come tanti. Come quelli su cui lui disegnava.

Col cuore che gli pulsava dolorosamente in gola, lo spiegò con cautela. Era una mappa. Una mappa dettagliata dell’Europa.

Ecco l’Italia che tanto gli mancava, con la sua forma strana e le sue isole.

Ecco l’Austria e la reggia dove si trovava lui. Questa è Vienna, pensò Feliciano, puntando il dito sulla mappa.

Più a nord notò due regioni cerchiate con l’inchiostro.

Holstein e Schleswig. A confine tra la Danimarca e il vecchio Impero. 

Cercò di fare mente locale sui pochi concetti di geografia che gli erano stati insegnati da bambino. 

Dall'ultimo congresso a Vienna i confini europei erano cambiati. 

Quelle due regioni dovevano essere forse i ducati per cui Prussia stava combattendo?

Cercò con gli occhi la Prussia. Era lontana.

“Io pensavo che i due ducati fossero sul confine della Prussia… allora perché Gilbert vuole conquistare qualcosa che non gli appartiene?”

Guardò il grande vuoto al centro della mappa. L’impero faceva tanta tristezza. Ormai non si sapeva più quale fosse il suo nome.

Spalancò gli occhi.

La verità si mostra sempre come un fulmine. Non si sa dove cade, e non subito fa rumore.

 

Venne il primo giorno di Agosto. Quei mesi trascorsero come erano trascorsi tutti gli altri. Molti domestici avevano lasciato la reggia, erano quasi rimasti soli, Eliza e Feliciano.

Ungheria di tanto in tanto riprendeva la scopa tra le mani, ma era difficile per lei sentirsi schiava di una casa che non era più la sua prigione, ma nemmeno la sua casa.

Per ora era una passante che viveva nascosta dalla guerra con Feliciano.

Avevano passato la primavera lontano dalla reggia, da soli, nell’erba. A giocare, a disegnare e a scherzare tra di loro.

Poi scendeva la notte, e nessuno dei due aveva il coraggio di tornare nella reggia. Stavano lì, nell’erba, a dormire sotto le stelle.

A Feliciano bastava poggiarle la testa in petto, ed era felice.

Eliza invece era in ansia. Avrebbe voluto varcare quei cancelli troppo deboli per trattenere il suo spirito libero. Tornare così, di corsa, nella sua amata terra natia.

La mente correva libera in quei pensieri quando stava sdraiata al sole, sull’erba fresca e umida.

“Cos’hai in mano, Ita-chan?”

Feliciano era seduto e le dava le spalle. Leggeva.

“Me l’ha mandato per posta mio fratello. E’ un bel libro di poesie”

La ragazza si tirò a sedere, piegando l’ampia gonna. “Come si chiama?”

“Le Canzoni, di Leopardi”

Eliza gli si fece accanto, sorridendo i suoi capelli.

“Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

infinita beltà parte nessuna

alla misera Saffo i numi e l’empia

sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

vile, o natura, e grave ospite addetta,

e dispregiata amante, alle vezzose

tue forme il core e le pupille invano

supplichevole intendo…”

Si bloccò nella lettura, guardando gli occhi marroni e intensi del ragazzino.

“Mette una grande tristezza anche a te, vero?” chiese lei, accoccolandoselo in grembo.

“Cosa ti fa pensare?”

Ad un collina verde. E tu e Gilbert stesi nell’erba, quando si giocava solo alla guerra e non la si faceva davvero.

“A tante cose”

Prima che il ragazzino potesse insistere, un nitrito di cavalli gli fece voltare la testa.

Erano Gilbert e Roderich.

Era strano vederli insieme.

Entrarono dai cancelli con le espressioni più diverse: Prussia aveva un ghigno insanguinato per il labbro spezzato e rosso di sangue. Austria invece era illeso, perché non prendeva parte personalmente alle battaglie, ma aveva un’espressione ben più cupa e preoccupata.

Quando il suo cavallo li oltrepassò, non si curò nemmeno di richiamare all’ordine i due domestici.

Prussia invece fermò il suo bianco destriero, e sorrise prima al bambino, poi ad Eliza.

Era un sorriso di sangue, e faceva un po’ paura. La ragazza si chiese se fosse sangue suo quello che gli macchiava il viso e i capelli bianchi.

Era un sorriso che avrebbe potuto esplodere in mille singhiozzi.

“Non guardarmi così, Eliza” disse, prendendosi il viso con la mano e spronando il cavallo.

Feliciano sorrise con entusiasmo, e lasciò il suo libro tra le mani di Eliza per rincorrere il cavallo di Prussia.

Lei lo osservò da lontano, perché a quella distanza sembrava un soldato ferito e rassegnato, e non un assassino senza cuore.  

   
 
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