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Autore: ellacowgirl in Madame_Butterfly    24/03/2013    1 recensioni
Nessuno osa fiatare, nessuna infermiera replica dinnanzi al fare dell’autoritaria dottoressa.
Percorrono un solo corridoio, giungendo in un altro reparto sin quando la donna in camice bianco non si ferma dinnanzi una grande finestra in vetro, che consente di vedere al suo interno.

-Guardala. –
Un ordine, l’ennesimo. Lui, ancora timoroso, volge lentamente lo sguardo oltre il vetro, all’interno di quella stanza dalle pareti lilla: una donna, fin troppo giovane e dai capelli mori, è distesa su di un letto, gli occhi chiusi e fin troppi fili che si diramano dal suo corpo.
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Choose life, always.
 

Cammina rapida per i corriodi bianchi di quell’ospedale, i tacchi piuttosto vertiginosi per innalzare la figura fiera di una donna sulla cinquantina: alta, prosperosa, altezzosa.
E tremendamente orgogliosa.
-In che stanza si trova? – Una voce decisa e concisa, che non ammette repliche, che pretende una sola risposta.
I capelli color del grano si muovono ritmicamente sulla schiena, mentre il lungo camice contiene a fatica le forme prosperose, muovendosi al passaggio rapido dell’aria.

- La numero 88, dottoressa. – Risponde la voce mite di un’infermiera, i corti capelli nocciola raccolti in un concio sulla nuca, mentre tra le mani tiene una cartella clinica non troppo dettagliata.
- Si chiama Augusto Gilberti, dottoressa. Era un operaio, sembra che abbia tentato di togliersi la vita gettandosi nel fiume perché è stato messo in cassa integrazione qualche giorno fa… e dai suoi deliri dopo il salvataggio del corpo di polizia, sembra che abbia litigato pesantemente con la moglie… -
Le spiega tenendo lo sguardo leggermente abbassato, quasi temesse di incrociare le iridi ghiaccio di una delle più rinomate dottoresse dell’intera regione.

Lei, Elena Mazzini, Primaria di quell’ospedale, non sembra nemmeno udire quelle parole, ascoltarle quasi di sfuggita, mentre il suo sguardo è fisso verso la fine di quel corridoio biancastro, dove la stanza 88 è chiusa come tutte le altre.
Non parla, non risponde, non fa alcun cenno per essere compresa: perché nessuno, lì dentro, ha idea dei pensieri che possano attraversare la mente di quella donna.
Nessuno, nemmeno la sua segretaria, conosce ciò che vuol fare, ciò che dice, il giudizio che ha degli altri o la logica delle sue scelte.
Eppure, nonostante questo silenzio struggente per se stessa e per chi le sta intorno, è la più ammirata ed efficiente, e con lei l’intero corpo medico.
 
Pochi istanti ancora e giungono sino alla stanza dove quel signore sulla quarantina che ha appena tentato il suicidio è stato ricoverato: salvato all’ultimo, quasi sul punto di affogare come era sua intenzione.
Non bussa, l’autorità che possiede la rende libera di comportarsi come meglio crede, e non deve rendere conto a nessuno di ciò che fa o dice: nessuno ha il coraggio di replicare, dinnanzi ad una donna tanto autoritaria. Nessuno si permette di criticarla, una Primaria che non ha mai commesso errori.

- La prego mi uccida! Perché mi avete salvato?! Io volevo morire! Andarmene da questo mondo infame! –
Grida il quarantenne riccioluto, sedendosi rapidamente sul lettino bianco mentre l’infermiera che si curava di lui si alza immediatamente, allontana dosi di qualche passo dal paziente, quasi a voler consentire alla dottoressa di operare per il meglio.
Lui urla, grida, pazzo e disperato, gli occhi scuri riflessi nelle iridi ghiaccio della donna che con passo deciso si avvicina a lui.
Chiede pietà, né comprensione né perdono.
Follia, pura e semplice follia

- La vita è ingiusta! Non ho più nulla! A cosa mi serve vivere?! Mi lasci morire! –
Continua a gridarle, gli occhi quasi fuori dalle orbite, la pelle troppo pallida per il rischio di annegamento di poco prima.
Lei arriva, si avvicina rapidamente a quel lettino mentre l’uomo le tende le braccia, come se aspettasse soltanto la salvezza da colei che aveva curato ed aiutato così tante vite.

*SCIAFF*

Uno schiaffo, dritto, diretto, forte e determinato.
L’uomo si prende un mezzo infarto, si porta subito una mano alla guancia, rossa e con ancora impresso il segno della mano della dottoressa.
Comincia a tremare, intimidito, come se tutto d’un tratto la morte gli facesse paura: quella donna gli facesse paura, timore, terrore.

Lei lo fissa senza ripensamenti, iridi chiare e fulminanti, uno sguardo accusatorio ed imperioso che avrebbe ammansito anche la più selvaggia delle tigri della Malesia.
-Taci, idiota. –
Gli ordina con fare estremamente autoritario, ancora impassibile, ancora fredda, ancora tremendamente distaccata…
Rabbia, rabbia ed un disgusto immane la invadono, percorrono ogni singolo centimetro di quel corpo perfetto, annebbiano la vista tanto che per qualche attimo teme di non riuscire a controllarsi.
Disprezzo, puro e semplice disprezzo.
- T’ammazzerei, se fossi una deficiente quanto te. Ma, per tua fortuna, sono una moralista. –
Non c’è pietà in queste parole, non c’è nemmeno un briciolo di comprensione.
E che comprensione dovrebbe esserci, per chi decide di gettare la propria vita?
Per chi, pur di risollevarsi dagli obblighi e dalle difficoltà, preferisce sparire, fregandosene bellamente di chi gli sta attorno o dipende da lui?

La guarda ancora attonito, sconvolto, le labbra dischiuse nell’incapacità di replicare.
Lei lo afferra letteralmente per un braccio e lo trascina giù dal lettino, lui con ancora quei vestiti stracciati addosso è costretto a seguirla, arrancando dietro ad un passo tanto determinato e rapido.
Nessuno osa fiatare, nessuna infermiera replica dinnanzi al fare dell’autoritaria dottoressa.
Percorrono un solo corridoio, giungendo in un altro reparto sin quando la donna in camice bianco non si ferma dinnanzi una grande finestra in vetro, che consente di vedere al suo interno.
- Guardala. –
Un ordine, l’ennesimo. Lui, ancora timoroso, volge lentamente lo sguardo oltre il vetro, all’interno di quella stanza dalle pareti lilla: una donna, fin troppo giovane e dai capelli mori, è distesa su di un letto, gli occhi chiusi e fin troppi fili che si diramano dal suo corpo.
La sua vita appena ad un filo, dipendente soltanto dalle macchine.

Lui non capisce, sbatte più volte le palpebre e solo adesso si accorge che la dottoressa lo ha lasciato, restando anche lei immobile dinnanzi a quella visione, la fronte leggermente aggrottata, lo sguardo fisso sulla donna priva di sensi, forse anche di vita.
- Si chiama Lucilla, ha trentaquattro anni. Stava attraversando la strada dopo aver fatto la spesa ed una macchina l’ha investita. –
Dice semplicemente, apatica, non un tono di voce particolare, non un briviolo di sentimento, di emozione in quelle parole.
Fredda, tremendamente fredda… ma come si può provare calore di fronte alla morte?
Alla vita che, impotente, soccombe?
-E’ in coma, le avevamo dato poche ore di vita… e sono otto settimane che ancora il suo cuore batte. –
Solo ora l’uomo prende un po’ di coraggio, volge appena il capo di lato, quanto basta per riuscire a scorgere l’espressione dell’impassibile dottoressa: ora, dietro quella maschera di freddezza, dietro a quel gelo perenne, si riesce ad intravvedere un dolore lancinante, un’agonia, una sofferenza immane nel vedere quella donna in quelle condizioni.
Nella consapevolezza che la scienza, la medicina, lei stessa, non possono fare nulla per aiutarla.

- E’ sposata e ha due figlie, Nicol e Martina. Vengono a trovarla ogni giorno appena escono da scuola, non mancano un solo giorno anche se ogni volta è una valle di lacrime incontenibili, che nemmeno un buon sedativo può calmare. –
Spiega ancora, continua, i nervi che si tendono appena, le iridi ghiaccio che lentamente si volgono verso l’uomo, questa volta senza essere aggressiva, senza attaccare, senza giudicare, senza accusare…
Lui resta ammutolito, ancora, stupido e sconvolto, la sua mente prima accecata dalla follia che lentamente comincia a comprendere.
-  Questa donna sta lottando come una disperata da otto settimane, dopo un trauma cranico, due emorragie interne ed una esterna, un polmone perforato e lo stomaco distrutto. – Piccola pausa, ma le speranze che termini sono vane, quel racconto continua, quel gelo non si quieta. – Sta lottando, lei da sola contro tutto, contro il dolore, contro la disperazione, contro la morte stessa… Sta lottando perché ha due figlie che hanno bisogno di lei. Sta lottando perché ha un marito che l’aspetta, sta lottando perché chiunque la conosca subirebbe una ferita immane, se la perdesse. –

Lui torna lentamente a volgersi verso la donna, incapace di reggere oltre lo sguardo della dottoressa, un misto di dolore, disprezzo e tanto, tanto rancore verso le proprie incapacità…
- Lei non ha nessuno che ora la possa aiutare, ma non gliene frega niente. Non gliene frega niente se deve lottare da sola, non gliene frega niente se niente e nessuno possono aiutarla: ha la volontà di vivere, di restare su questo mondo. Per se stessa, per chi le sta vicino. Lei vuole vivere. –
Accentua le ultime parole, afferra con un gesto forte e deciso il colletto della camicia dell’uomo e lo costringe a guardarla negli occhi, a fissarla, a specchiarsi nei suoi sensi di colpa, nelle proprie responsabilità, nella sua idiozia.
Lui che stava gettando la vita, lui che voleva lavarsene le mani…
Lui che, della vita, non aveva compreso il benché minimo valore.

- Perciò ora tu esci da qui, porti quella tua testa di cazzo a casa e, prima di entrare, la sbatti almeno tre volte contro una parete di mattoni o cemento, l’importante è che sia dura. –
Piccola pausa, per assicurarsi che, oltre al terrore e allo stupore, lui la stia ancora ascoltando, stia capendo.
-  Ti fai prendere a schiaffi da tua moglie, ti fai menare dai tuoi figli ed insultare dai tuoi vicini. Ma muovi il culo e fai qualcosa. Cercati un lavoro, anche faticoso, anche impegnativo, anche in nero… ma qualcosa cerca, anzi, devi cercare.
Perché la tua vita, anche se ti fa schifo, anche se è una merda, non appartiene soltanto a te stesso, ma è parte di chi ti sta vicino e ti ama. –


Prende un respiro, il volto si muove nuovamente verso la figura di quella donna in coma, di Lucilla che continua a lottare nonostante le speranze rimaste siano ben poche.
- E lotti. Lotti con tutto te stesso, senza lamentarti, senza gridare, senza invocare altro al di fuori della vita. Perché se anche lei che di speranze ne ha un millesimo delle tue non si arrende, tu non hai il diritto di farlo
Solo ora lo lascia, dandogli una leggera spinta. Lui indietreggia ancora intimorito, appena tremante, mentre la figura imperiosa della donna resta davanti a lui, lo guarda dall’alto, da quello sguardo soltanto per istante sembra mostrare pietà.

- Vai. E se vengo a sapere che hai osato piangere, hai osato cercare di scusarti… vengo lì e ti riempio di mazzate. –
Lui fa un cenno di assenso col capo, indietreggia appena mentre fa una leggera riverenza, piegando il busto in avanti.
Lei non muta espressione, nemmeno adesso prova compassione, né pietà, né comprensione: per lei quello era solo un dovere.
Un dovere morale, di fronte a chi non conosce, o forse ignora, quanto sia importante la vita.
Volta le spalle all’uomo, senza avere più la forza di guardare oltre quel vetro, oltre quel volto pallido, oltre quell’anima che anche nella morte continua a lottare.
E sospira, socchiudendo appena le iridi.

- Grazie, dottoressa… - La voce ora è cupa, roca, bassa. Un suono frammentario e ancora debole, ma che basta per convincerla.
Lo sente allontanarsi a passi sempre più svelti, più rapidi, tanto che dopo poco diviene soltanto un eco lontano, lontano ma speranzoso.
Solo ora le labbra si allargano appena, un sorriso visibile soltanto da chi sa leggere le anime più dure e profonde: e lì, in quel silenzio, soltanto il suono della volontà può ancora vivere di speranza.
Scegliere… scegliere di vivere.
  
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