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Autore: kiara_star    25/03/2013    10 recensioni
Le dita di Thor le avevano sfiorato una guancia. «Non sei cambiata per nulla, mia piccola Jane.»
«Bugiardo!» Aveva riso lei prendendogli la mano.
«Io non so mentire.» Il suo sorriso avrebbe potuto sciogliere la neve. E lei lo aveva creduto finché non aveva incontrato la neve vera.
[...]
Chi ce l’ha messa, mamma?” chiese Duncan.
Un amico, tesoro” rispose lei.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jane Foster, Loki, Thor
Note: What if? | Avvertimenti: Incest
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Mia dolce Jane Altra storia balenga.
È una what if ma anche, e soprattutto, una future fic.
Non so perché, quando metto questi tre insieme non mi esce mai fuori una storia normale. Sarò incapace io...
Ad ogni modo, spero possa piacere.
L’avvertimento incest è molto soggettivo. In realtà è ignorabile perché è una questione di percezione, non c’è nulla di palesato.
Detto questo, buona lettura e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate.
kiss kiss Chiara






Mia piccola Jane



Cosa ci trovasse la gente in Houston, Jane non lo aveva mai veramente capito. Forse aveva passato troppa vita con il naso all’insù per comprendere cosa ci fosse di veramente bello a terra, ma di certo, Houston non rientrava in questa categoria. Di quella caotica cittadina texana, a Jane piaceva davvero poco e neanche la UH[1] ne faceva parte.
Alla fine, Peter era divenuto l’unico motivo per farsela piacere. Poi era arrivato Duncan, e a quel punto che la città che attraversava ogni mattina fosse Houston o Parigi, aveva davvero poca importanza.
«Professoressa, posso rubarle un minuto?» Tony Callaghan era il classico debosciato.
Jane non aveva perso troppo tempo a chiedersi se ci fossero ragioni dietro al suo non studiare e soprattutto al non capire mai nulla delle sue lezioni. Non aveva più vent’anni, Jane, e neanche trenta. La quarantina poi, l’aveva passata da un bel po’ e non le andava neanche di ricordarselo. Stare lì, ad analizzare un ragazzino viziato, non era certo qualcosa che l’allettava.
«Signor Callaghan, l’anticipo subito: non le farò ripetere il test.» Chiuse la borsa e la trascinò via dalla scrivania. Tony come previsto aveva serrato la mascella fingendo un’espressione delusa ma non aveva insistito oltre.
«Va bene, professoressa. A lunedì.» Per fortuna essere una stronza di insegnate, aveva i suoi vantaggi. Anche se c’era voluto un po’ per capirlo.
«A lunedì, signor Callaghan.»
Aprì l’ombrello e attraversò il vasto campus con passo svelto.
Doveva diluviare proprio il giorno in cui aveva deciso di indossare le sue nuove Chanel. Benedetto cielo! Se solo non fosse stata sicura di ciò che sarebbe successo quel giorno, avrebbe speso del tempo a tirare per aria qualche bestemmia ben poco carina.
In macchina si guardò allo specchio. Si sistemò i capelli corti dietro l’orecchio, una goccia di rimmel fuori posto.
Peter le diceva che era bella come il primo giorno in cui l’aveva vista, a quel congresso a New York, e Jane fingeva di credergli, perché gli occhi di Peter avevano le sue stesse rughe. I suoi meravigliosi capelli neri erano un po’ più sale e pepe, mentre le sue ciocche castane erano tali solo per merito della tinta di Michelle.
Il tempo passa e non dovresti curartene, ma quando chiudi le palpebre e rivedi un viso sorridente con due occhi azzurri più del cielo stesso, non puoi non sentirne il peso. E per misurarlo Jane non si basava sulle sue rughe, quanto su quel viso che ne era privo e così sarebbe sempre stato.
Mentre tornava a casa, si chiese se Peter fosse già arrivato, avrebbe dovuto preparargli il trolley.

«Duncan non si è fatto sentire.»
«Tesoro, è normale. Non ti ricordi il tuo primo giorno al college?»
«È passata una vita... » Peter le aveva preso una mano e le aveva sorriso dolce. Come ogni volta.
«Scommetto che prima di sera si farà sentire.» Prima di sera... Ma lei aveva bisogno di sentirlo subito. Aveva bisogno della sua voce, del sentirsi chiamare mamma, prima che-
Un lampo squarciò il cielo.
«Che tempaccio del diavolo!»
Quando il tuono le era rimbombato nel petto, il viso di Jane si era fatto più scuro.

«Devi proprio andare?»
Peter aveva indossato il soprabito ed il cappello. «Fosse per me...» Un bacio sulla guancia ed aveva preso l’ombrello. «Ti chiamo quando atterro.»
«Sempre se vi fanno decollare.» Un altro lampo, un altro tuono, un altro bacio stavolta sulle labbra.
«Salutami Duncan quando chiama.»
Peter era entrato nel taxi e la signora O’Conner l’aveva salutato dall’altra parte della strada. Portava a spasso Franky, incurante della scarica imponente di acqua. Franky, il piccolo chihuahua antipatico, che una volta aveva perfino morso il suo Duncan.
«Che tempo, eh?» Jane aveva annuito stringendosi fra le braccia. Non sopportava quel chihuahua, non sopportava neanche la sua padrona, quel giorno ancora meno. «Speriamo smetta presto.»
«Sì, speriamo.» Era poi rientrata decidendo che era il momento di preparare un caffè.

Il Professor Robbins le aveva chiesto di seguire il suo corso per una quindicina di giorni. “Non hai i tuoi assistenti?”, “Loro non sono all’altezza, Jane.” Gli avrebbe chiesto per quale motivo li aveva scelti, ma poi aveva preferito dirgli semplicemente di sì. Con Peter fuori città e Duncan a Providence, le serviva solo qualcosa che le occupasse la testa. Tenere a bada un’altra banda di sognatori che tanto assomigliavano alla lei di un’era troppo lontana anche solo per provare malinconia, era di certo una buona opportunità.
Quando sentì bussare alla porta, aveva appena zuccherato il caffè.
Due cucchiaini. Non aveva mai potuto dimenticarselo.

Sistemò le tazze sul tavolo e si diresse ad aprire.
«Oggi non è giornata, vero?» Aveva sospirato trovandoselo davanti zuppo fin dentro le ossa.
Il sorriso di Thor era sempre stato meraviglioso.

«Prendi. Non credo ti ammalerai, ma almeno la smetterai di allagarmi casa.» Gli aveva lanciato un asciugamano sulla testa.
«Perdona il mio umore. Non riesco a controllarlo alle volte.»
«Non preoccuparti. Gli agricoltori del Texas te ne saranno grati, comunque.» Lo aveva sentito ridere mentre si arruffava i capelli come un gatto troppo grosso per fare tenerezza, ma non abbastanza da impedirti di volerlo accarezzare. «Che è successo?»
Il caffè non si era freddato e lei lo beveva piano tenendo gli occhi incollati a quel viso così giovane e così familiare da far male.
«Loki.» Non si sarebbe aspettata nulla di diverso.
«Loki...» Aveva semplicemente sospirato disegnando il contorno della ceramica con l’indice. «Che ha combinato stavolta?»
«È scappato.» Non era riuscita a non sorridere, amaramente, con una nota di tristezza. «Tu non lo hai visto?»
«Non ultimamente.» Thor aveva annuito bevendo il suo caffè. Aveva smesso di frantumare le tazze da molto, ma non aveva smesso di apprezzare quella bevanda per lui così insolita, nonostante fossero decenni che la bevesse.
«Quando gli hai parlato?» La sua voce si era fatta più bassa e Jane si era alzata per riporre la sua tazza nel lavandino.
«Tempo fa.»
«Ti ha fatto... O alla tua famiglia?»
«No, si è limitato ad essere irritante come al suo solito. Ma nulla di più.» Non si era voltata però, non aveva voluto vedere il viso rassicurato di Thor e l’ombra di colpa che non abbandonava mai i suoi occhi.
«Come sta tuo marito?»
«Bene. È sempre in giro a fare conferenze.» Era tornata a sedersi incrociando le braccia sul tavolo. Thor aveva annuito sorridente.
«Duncan?»

E Jane aveva stretto con forza le dita attorno ai suoi gomiti.
«È a Providence, adesso.» Il mio bambino... «E il tuo piccolo leoncino come sta?»
Thor si era illuminato e Jane di riflesso, ma era una maschera. Perfetta come sempre, come quelle che aveva visto spesso sul viso di Loki, così belle che non potevi fare altro che rubarle.
«È una vera peste! Non sta fermo un momento... È semplicemente meraviglioso.»
Una mattina di aprile il cielo si era fatto scuro, nero come la pece ed aveva piovuto per giorni e giorni. Una tempesta di fulmini mai vista prima aveva fatto allarmare ogni istituto di ricerca del globo. Poi Thor era piombando nel suo laboratorio, le lacrime sul viso e l’aveva stretta forte. “Sono padre, Jane. Sono padre!”. E lei aveva pianto con lui.
A quel tempo ancora non sapeva di aspettare un bambino. Ora Duncan aveva diciotto anni e stava iniziando la sua vita al college, mentre il leoncino di Thor ancora andava in giro a creare grattacapi alle balie.
Leoncino, lo chiamava lei, perché quando Thor lo aveva portato con sé in un giorno d’estate, Jane non aveva trovato altro per descrivere quel bambino che le sorrideva da sotto una cascata di meravigliosi riccioli biondi. Un bambino dagli occhi di ghiaccio e dalle manine calde. Fino a quel momento, Jane, non credeva di aver mai visto nulla di più stupendo.
Poi era nato Duncan. Thor le aveva fatto visita allora, ed era stata l’unica volta in cui lui e Peter si erano incontrati.
Donald, vecchio amico di università, l’aveva presentato.

“È una sensazione indescrivibile!”
“Posso capire la tua gioia, amico mio.”
Jane aveva stretto forte Duncan fra le sue braccia ed aveva pianto per tutta la notte.
«Cosa pensi di fare con tuo fratello? Non dirmi che continuerai a cercarlo, Thor? Dovresti aver capito ormai che non è una strategia che funziona con lui.» Non gli aveva chiesto di lei. Jane non gli chiedeva mai nulla di lei.
«Non posso fare diversamente, Jane. Devo riportarlo a casa.»
«Come prigioniero?»
Thor aveva sorriso scuotendo la testa. «Come fratello.» La tazza vuota ancora stretta nella mano.
Dopo secoli, Thor ancora non era riuscito a vedere davvero cosa batteva nel petto di Loki. Per lei era stato più semplice comprenderlo, in fondo non era poi diverso dal guardarsi in uno specchio.

«Perdona la mia intrusione.»
«Sei sempre il benvenuto, lo sai.»
Le dita di Thor le avevano sfiorato una guancia. «Non sei cambiata per nulla, mia piccola Jane.»
«Bugiardo!» Aveva riso lei prendendogli la mano.
«Io non so mentire.» Il suo sorriso avrebbe potuto sciogliere la neve. E lei lo aveva creduto finché non aveva incontrato la neve vera.
Jane aveva stretto quella mano al petto e poi l’aveva baciata con dolcezza. «Lo so, Thor. Lo so.» Ed era sempre stata la sua sincerità a ferirla di più.
Poi il lampo, il tuono e Thor era sparito.
La pioggia aveva iniziato a cadere più lenta.
La O’Conner stava risalendo il vialetto e Jane rientrò prima che potesse incrociarla di nuovo.

«Avresti dovuto chiamare prima.»
«Hai ragione, mamma, ma qui è tutto così fantastico che me ne sono dimenticato!» La risata di Duncan.
Jane prese a giocherellare con il filo del telefono come faceva quando aveva 15 anni. «Com’è la Brown?»
«Oh, è bellissima! I ragazzi sono simpatici e ci sono un sacco di corsi interessanti! Il mio compagno di camera è francese. Capisci, mamma? Un francese!»
«E con questo?»
«Beh, si rimorchierà un sacco, non credi?»
Jane aveva sospirato materna. «Duncan...» E lui aveva riso di nuovo.
«Salutami papà. È già partito?»
«Qualche ora fa.»
«Ok. Allora mi faccio sentire presto.»
«Lo spero, figlio ingrato!» E con quell’ultima risata nelle orecchie, aveva riagganciato.
Era rimasta a fissare la cornetta color panna attaccata sulla parete per qualche minuto.
Sembrava felice, il suo bambino. Jane pregò che quella spensieratezza non lo abbandonasse mai. Pregò con la consapevolezza che sarebbe rimasta una preghiera mai ascoltata.
«E così io sarei irritante?!»
Si era voltata all’istante con il cuore in gola senza poter trattenere un grido di paura.
Seduto sulle scale, un viso sorridente che la costrinse a sospirare avvilita.
«Quando la smetterai di apparire dal nulla?» Lo aveva richiamato tornando in cucina.
«Quando smetterà di essere divertente.» I suoi passi l’avevano seguita e poi si era seduto lì, su quella sedia. Lei sapeva, l’aveva fatto di proposito.
«Da quanto tempo te ne stavi nascosto qui, sentiamo?»
«Abbastanza per sentirmi dare dell’irritante.» Fra le mani di Loki, la tazza vuota di Thor.
La prima volta che l’aveva incontrato, Jane aveva avuto paura di morire. La seconda volta aveva sperato di morire, la terza volta era quasi morta. Poi era intervenuto Thor e gli altri, e Natasha le aveva sospirato che sarebbe andato tutto bene.
Quando lo aveva incontrato la volta successiva, era solo riuscita a urlargli contro in lacrime e non aveva più avuto paura, solo odio. Per un solo istante poi, a Jane era parso di scorgere qualcosa di diverso oltre al sadismo in quelle iridi verdi, e per un solo istante lo aveva odiato un po’ di meno.
Con il passare del tempo, le visite di Loki avevano cambiato gradualmente natura. Più aumentavano le sue rughe, più Thor le si allontanava, più Loki le era vicino.
Poi Jane aveva compreso che non lo faceva per gioirne, ma semplicemente per condividere il suo stesso dolore.
«Tuo fratello ti sta cercando.» Loki aveva sospirato annoiato. «Lo sai che alla fine ti troverà.»
«Quando mi stancherò di giocare, mi farò trovare. Sì, lo so.»
Perché se Thor riusciva sempre a riacciuffarlo, era solo perché era Loki a volersi lasciar prendere. Loki sapeva essere sincero come nessun altro, bastava solo smettere di sentire, ed iniziare ad ascoltare.
«Un giorno potrebbe essere Thor a stancarsi. Non ci hai mai pensato?» Sul suo viso sempre il solito ghigno, sempre la solita splendida maschera d’argento. «Chissà, un giorno potresti essere tu a rincorrere lui.»
«Oh, molto improbabile, mia piccola Jane. Fidati.»
Una notte, quando Duncan aveva otto anni, Jane sentì dei rumori al piano di sotto. Peter aveva preso i suoi sonniferi e lei non aveva altro che una mazza da baseball con cui difendersi. Quando scese nel soggiorno, Loki era seduto sul divano e si teneva la testa con le mani. Gli occhi gonfi e le labbra che tremavano, un velo di lacrime sul pallido viso.
Non disse una parola per tutta la notte e lei gli preparò una tazza di tè caldo.
La mattina seguente non c’era più, ma sul davanzale della finestra, Jane trovò una Dalia[2] di ghiaccio.
Chi ce l’ha messa, mamma?” chiese Duncan.
Un amico, tesoro” rispose lei.

«Per fortuna ha smesso.» Loki aveva scostato la tendina della cucina ed aveva guardato in alto. Il suo volto le era sempre sembrato di porcellana. Semplicemente perfetto. Come quello di una statua, fredda e insensibile a tutto. Jane aveva poi capito quanto fosse diversa la realtà. Anche le statue si sgretolano, anche le statue si rompono e non si possono più ricostruire. E quando tenti di farlo, le crepe rimangono anche sotto metri di stucco.
«Devi andare da qualche parte?» gli aveva chiesto e Loki le aveva sorriso ancora.
«Vado a trovare il Presidente.» Ed ora era stata lei a sorridere, ma con fare materno. Alla fine, ancora non sapeva spiegarsi come, si era ritrovata con due figli da crescere. «Stark sarà felice di vedermi.»
«Non ne dubito» ribatté sarcastica.

Quando Loki era uscito da casa sua, Jane lo aveva seguito con lo sguardo finché non si era dissolto nell’aria.
Poi aveva spostato gli occhi in alto, al cielo sempre più azzurro.
«Ha smesso di piovere, ha visto?»
«Sì, signora O’Conner.»
La tempesta era passata, ma per quanto sarebbe durato quel sereno? Forse il tempo che Loki avrebbe impiegato per arrivare alla Casa Bianca.
«Come sta il suo Duncan?»
«È partito ieri per il college.»
Stavolta si era stancato di giocare prima del previsto.
«Come crescono in fretta...»
Jane guardò il cielo un’ultima volta.
«Già.» Forse troppo.
E poi rientrò.








Note
[1] UH è l’acronimo di University of Houston, l’università in cui lavora Jane.
[2] La Dalia è il fiore che simboleggia la gratitudine.





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