Film > I fantastici quattro
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Autore: Artemis Black    28/03/2013    3 recensioni
"Io sono figlia del ghiaccio: pelle candida, capelli corvini e occhi di ghiaccio.
Il mio tocco può congelare la vita, preservarla o ucciderla.
Era un giorno qualsiasi della mia vita, quando tutto cambiò. Quando tutto si fece freddo e azzurro. [...]
Dicono che la vendetta non serve a niente. Si sbagliano, o almeno chi lo dice non ha mai passato un inferno come il mio. Non sanno che quando ti viene portato via tutto, la rabbia dentro di te cresce fino ad esplodere. Non sanno che quando si vede la paura, che si ha provato, riflettere negli occhi del vostro aguzzino, un brivido di euforia percorre il tuo corpo e ne nutre l’anima, lacerandola.
La vendetta serve a far capire chi ha vinto veramente."
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Vendicami.
 

It's hard to find a way to breathe.
Your eyes are swallowing me,
mirrors start to whisper,
shadows start to see,
my skin's smothering me.

Help me find a way to breathe.
 

Vetri rotti, vasi a pezzi, mobili squarciati, tende strappate.
Un attimo prima era tutto in ordine…. Un attimo dopo sembrava che un uragano si fosse abbattuto sulla casa. Non ricordo niente, la mia mente è come se si fosse offuscata ed il corpo avesse agito da solo.
C’è una fotografia a terra: siamo io a nove anni e la nonna.
Il vetro della cornice era rotto e quando la presi in mano, mi tagliai. Il sangue scivolò e gocciolò sulla foto, fino ad impregnarla di rosso.
La sua testa ciondola da un lato con gli occhi sbarrati.
La mia mano lasciò cadere la cornice a terra.
“Nonna, ma io non ho dei genitori?” le chiesi.
“Certo che li hai, ma sono speciali: loro adesso sono degli angeli.” Mi rispose mentre affettava la verdura.
“E perché mi hanno lasciato da sola?” le chiedo ingenuamente.
A scuola tutti i bambini mi prendevano in giro perché i miei genitori mi avevano lasciato da sola.
La nonna parve rattristarsi, poi però si avvicinò a me e mi prese in braccio.
“Non ti hanno lasciato da sola, altrimenti che ci sto a fare qui io?” mi disse ridendo.
Mi prese la guancia e me la riempì di baci.
“Dove abitano gli angeli?” le chiesi curiosa. Magari potevo andare a trovarli.
“In un posto bellissimo chiamato paradiso, ma non ci si può arrivare perché nessuno sa la strada.” Mi disse.
“Come Babbo Natale?” dissi sorridendo.
“Si, un po’ come Babbo Natale… Adesso vai a metterti a tavola che dobbiamo cenare!” mi disse incitandomi.
Stavo andando in sala, quando mi venne in mente un’altra domanda e tornai indietro in cucina. Vidi la nonna trattenere i singhiozzi ed asciugarsi le lacrime con il grembiule. Da quel giorno imparai a non fare più domande sui miei genitori, perché faceva soffrire la nonna.
I ricordi si mescolavano nella mia testa, i flashback offuscavano la mia vista, le parole affondavano sempre di più il coltello piantato nel mio cuore.
Volevo urlare ma non riuscivo a trovare la mia voce in mezzo a tutte quelle che mi parlavano nella testa. Volevo sfogarmi, mandare via il dolore, ma sembrava impossibile. Continuava a tenermi stretto nella sua morsa facendomi ricordare i momenti più belli della mia vita con lei.
Tirai un pugno al muro e sentii le nocche fare un brutto rumore, ma niente dolore fisico: era troppo debole per competere con quello che mi divorava dentro.
Rovesciai a terra una credenza, poi il tavolo della cucina, lanciai le sedie dall’altra parte della stanza.
Volevo provare sensazioni positive, in mezzo a quel mare di disperazione.
Sentii le sirene fuori casa e poi dei poliziotti intimarmi di stare calma: non volevo fargli del male, ma volevo stare da sola.
Uno volò dall’altra parte della stanza. L’altro andò a soccorrere il suo amico e poi uscì di casa urlando qualcosa alla radiotrasmittente.
La pioggia cadeva fitta.
La cerimonia era finita. Le corone di fiori colorati erano tutti appassiti, la lapide nera con le scritte grigie sembrava riflettere l’acqua che cadeva. Il silenzio regnava sovrano, ero rimasta solo io, se ne erano andati tutti poco dopo la fine. Non avevo chiesto a nessuno di rimanere e nessun me lo aveva chiesto. Volevo rimanere da sola. Come d’altronde ero.
Eppure sentivo la sua presenza poco distante da me, sotto un albero a ripararsi dalla pioggia. Mi osservava le spalle, vegliava su di come fino a quando non mi girai a guardarlo.
I miei occhi erano inespressivi, erano vuoti ma colmi di dolore.
La sua espressione tramutò e da serio diventò preoccupato, visibilmente preoccupato. Si era avvicinato, mi aveva preso per un braccio, mi aveva detto di andare a casa altrimenti avrei preso un raffreddore. Non gli risposi.
Lo seguii e basta.
Mi portò al Baxter Building. Sue e Reed non c’erano, erano partiti.
Mi portò in camera, mi tolse i vestiti bagnati e rimasi in biancheria. Fissavo il pavimento con gli occhi spenti, mi lasciavo curare dalle sue premure nei miei confronti come fanno i bambini quando sono tristi.
Mi prese la mano e mi portò in bagno, aprì il getto d’acqua della doccia, entrammo entrambi nella doccia con indosso solo la biancheria. Mi lavava con cura, mi pettinò e lavò i capelli.
Poi mi mise addosso un paio di shorts e una felpa. Mi prese in braccio e mi portò nel letto.
Mi coprì con il lenzuolo e mi diede un bacio sulla fronte.
“Devi riposare, io sono in cucina per qualsiasi cosa.”
 
Cacciai un urlo disumano.
Ruppi il lavello della cucina e l’acqua cominciò ad allagare la stanza. Caddi a terra in ginocchio, con la testa premuta tra le mani.
La stanza si congelò, il getto d’acqua si cristallizzò all’istante, il gelo era sceso in tutta la casa.
-È colpa tua se siamo tutti morti!- la voce di John nella mia testa rimbombò con ferocia.
-Hai ucciso il mio bambino!- mi gridò contro Jessica.
-Mi hai lasciato da sola.- la voce di mia nonna irruppe tra il chiasso.
“Non è vero, io non volevo… io… no…” dissi piangendo.
Ero rannicchiata dietro il tavolo spezzato della cucina. Le ginocchia contro il mio petto, i capelli ricadevano scompigliati su di me e la mia testa era incastrata tra le gambe e le braccia.
Piangevo e continuai a sentire le voci dei miei amici darmi contro.
“Vendicami Evelyn. Vendicami!” urlò mia nonna. Le voci tacquero.
Come il silenzio dopo una tempesta, la mia testa fu sgombra da ogni pensiero.
Quella parola sembrava marchiata a fuoco nella mia mente, pulsava come la lava e teneva lontano qualsiasi altra concezione o idea.
“Eve.” Un sussurrò mi riscosse da ogni pensiero.
Era Johnny.
Era fermo all’ingresso della cucina e si guardava intorno spaventato. Poi si avvicinò a me, si tolse la sua felpa e me la mise attorno alle spalle.
“Andiamo via di qui.” Disse freddo. Mi prese in braccio e mi portò via.
Salimmo in macchina: io rannicchiata dietro, lui davanti a guidare. Guardai fuori il finestrino e vidi che ci stavamo allontanando dal centro, stavamo andando fuori Manhattan. Non gli chiesi dove mi stesse portando, mi limitai a chiudere gli occhi per la stanchezza.
 
“Eve, siamo arrivati.” Mi disse.
Aprii gli occhi lentamente, come se mi stessi risvegliano da un lungo sonno. Il tramonto rifletteva una luce arancione tutt’intorno a noi.
Eravamo davanti una casa immersa nel verde, bianca con il tetto di legno scuro e aiuole colorate davanti al vialetto. Dietro un boschetto di pini rendeva il paesaggio suggestivo, ma non abbastanza da potermi distrarre dai miei pensieri.
“Dove siamo?” chiesi con la voce impastata.
“In vacanza.” Mi disse lui, tirando fuori un borsone dal cofano.
Mi fece segno con la testa di uscire dalla macchina e di raggiungerlo in casa.
La porta in legno dipinta di blu scricchiolò appena quando la chiusi dietro di me.
L’entrata dava su un salone abbastanza grande, con il parquet scuro e i muri color rosso scuro. L’arredamento era semplice ed essenziale. Salimmo le scale per andare al secondo piano e mi mostrò la mia camera: era blu, con mobili bianchi e un letto enorme con le lenzuola celestine.
Mi guardai intorno e mi buttai sul letto, avvolgendomi nelle coperte.
“Puoi chiudere la finestra, per favore?” gli chiesi con voce apatica.
“Non vuoi mangiare?” mi chiese preoccupato.
“No.” Risposi, poi infilai la testa sotto le coperte.
 
Il risveglio mattutino fu devastante.
Mi svegliai di soprassalto, con ancora le immagini impresse nella mia testa del sogno di quella notte. Feci fatica a respirare, pensai di soffocare ed arrancai fino al bagno della mia nuova camera per sciacquarmi il viso.
Il mio riflesso nello specchio mi inorridì: ero bianco pallida, con due occhiaie enormi sotto gli occhi e i capelli in disordine. Mi facevo schifo, non riuscivo a sopportare la mia figura e così tirai un pugno al vetro, che si ruppe in mille pezzi.
Guardai i piccoli vetri rotti ai miei piedi e pensai che la mia vita fosse ridotta proprio in quello stato o forse peggio. Presi una scopa e ripulii il danno, buttando i vetri in un sacchetto di plastica.
Scesi le scale, ma mi fermai quando sentii la voce di Johnny parlare a qualcuno.
“Non è semplicemente triste, è distrutta. Non la riporterò indietro fino a quando avrà elaborato il lutto e si sentirà meglio. Non la darò in pasto allo SHIELD.” Disse.
Poi borbottò qualcos’altro e riagganciò il telefono.
Scesi gli ultimi scalini e andai a buttare il sacchetto con il vetri nel secchio dell’immondizia in cucina.
“Buongiorno.” Mi disse, con un sguardo nervoso.
“Che hai fatto alla mano?” mi chiese allarmato. Si avvicinò ed esaminò i piccoli taglietti sulle nocche.
“Ho rotto lo specchio del bagno.” Gli dissi.
Mi guardò sconcertato, poi scosse la testa e mi fece sedere su una sedia mentre mi disinfettava i taglia e fasciava la mano.
“Evelyn… io… sono qui.” Disse. Non trovava le parole giuste da dirmi.
“Lo so.” Dissi accarezzandogli una guancia.
Mi alzai e andai in sala: studiai i titoli dei libri che erano riposti sulla grande libreria in ordine alfabetico ma niente catturò la mia attenzione così mi distesi pigramente sul divano, accendendo la tv.
Capitai su un notiziario che stava parlando di un presunto killer che si aggirava nelle fogne vestito da dottore. Alla fine lo SHIELD aveva lasciato trapelare la notizia, ma aveva chiaramente offuscato determinate informazioni.
“Un’anziana donna ne è stata vittima, trascinata nelle fogne e poi uccisa.” Quelle parole mi fecero salire la rabbia in gola. Strinsi il bracciolo del divano così forte che lo congelai, tracciando poi una scia di ghiaccio fino alla tv, che andò in frantumi.
Johnny corse da me e mi chiese se stessi bene. Non risposi, poi si mise a pulire il disastro che avevo combinato e fu allora che mi resi conto di quanti danni avevo fatto nell’arco di un giorno.
Cominciai a singhiozzare silenziosamente fino a portarmi le mani agli occhi per nascondermi.
“Ehi!” mi disse Johnny.
Si sedette vicino a me e cercò di consolarmi. Lo scansai con un braccio e mi asciugai frettolosamente le lacrime. Odiavo essere così debole e vulnerabile.
“Tutto ok?” mi chiese.
“No! Come può essere tutto ok?! Che razza di domande fai!” gli urlai contro.
“Era solo una domanda.” Mi rispose.
“Non hai meglio da dire?!” gli dissi, poi mi alzai dal divano.
Mi resi conto che ero stata meschina e troppo dura con lui, così tornai in sala e lo trovai ancora seduto sul divano. Non ebbe tempo nemmeno di vermi entrare nella stanza che subito fui sulle sue labbra.
Mi aggrappavo a quei piccoli lembi di pelle rosa e calda, come se tutto il mio mondo fosse attaccato debolmente a lui. Mi sedei a cavalcioni sulle sue gambe e continuai a baciarlo con sempre più foga. Sentivo le sue mani corrermi sul mio corpo, fremere ad ogni tocco e ad attirarmi a se sempre più forte.  In qualche modo sentii una fiamma dentro di me accendersi, cominciare a brillare a un po’ di più, anche se l’oscurità mi attanagliava.
 
Passammo il resto della giornata in silenzio, saziandoci di sguardi loquaci e labbra dischiuse.
Quando arrivò la notte, fu più forte di me: mi intrufolai nella sua stanza e mi misi sotto le coperte del suo letto, quando ormai lui già dormiva. Non volevo sentire il contatto con lui, non volevo farlo mio, volevo semplicemente guardarlo dormire.
Aveva l’espressione del viso rilassata, le labbra appena socchiuse e le mani serrate a pugno.
Rimasi nella parte del letto vuota, non mi accoccolai a lui, non cercavo nulla di più se non la sua presenza: sapere che era lì, mi teneva lontano gli incubi.
“Evelyn, mia cara. Sai che devi fare.” Una voce dentro di me mi parlò.
“La tua anima è nera come la pece adesso, non provare a combatterla, accoglila tra le tue braccia. Anche nelle tenebre puoi trovare conforto, se solo le accetti. Ascoltami mia bambina, cerca la vendetta, bramala, fanne il tuo scopo primario! Alzati da questo stupido stato comatoso in cui ti trovi: sei potente, nessuno può fermarti, puoi ottenere quello che vuoi! Va e vendicami.”

 

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Buongiorno!
Scusatemi per l'enorme ritardo, ma ho avuto un blocco e non sapevo come far andare avanti la storia.
Credo di averlo superato, ma scrivere contemporaneamente 3 storie è difficoltoso (mannaggia a me!)
Non aggiornerò con regolarità e non so neanche dirvi se questa storia vedrà mai una fine o comunque non so se riuscirò a concluderla.
Spero comunque che vi piaccia questo capitolo :)
Grazie a
 Aletheia229 Sinnersneversleep SweetSmile BizarreBiscuit robiva per averla messa in una delle tre categorie :)
La citazione sopra è tratta dalla canzone Sleepwalker dei Bring Me The Horizon!
A presto,
Artemis black

P.S: questa è la mia pagina fb :) Artemis Black efp

 


 

  
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