Scusate gente, sul serio scusate! Sono pessima e sono in un ritardo esagerato, ma l'arrivo delle vacanze implica anche milioni di verifiche.... il tempo finale sta arrivando e i test mi stanno distruggendo.
Ma... ma l'altro ieri ho prenotato il mio primo tatuaggio (la triade) e sono bvfrtyujmkloiuyfdrtyuj super felice!!! *è pazza, ormai lo sapete*
Bene, vi lascio alla lettura :D
Chapter 11. Lend me your light
Foto. Aveva solo bisogno di una dannata foto.
Cavolo, era la leggenda tramutata in realtà più famosa dell’intero secolo, portava macchie di sangue di milioni di persone, era accaduta per la prima volta nella scuola più importante dei dintorni… ma niente. Nemmeno una dannatissima foto.
“Ti odio”, commentò Zoe, cercando sempre nello stesso scomparto segreto della biblioteca, sfogliando mille e mille volumi.
“Ormai non sei l’unica”, ridacchiò una voce maschile. Seamus.
Che ci faceva lì?
“Buongiorno Seamus. Che ti porta in biblioteca?”, domandò Zoe, distogliendo lo sguardo dal libro.
L’uomo si sedette accanto a lei, guardò il tomo che aveva in mano e continuò a ridere sotto i baffi.
“Scusami, cara. Ma non lo vedrai mai su un libro… è un evento recente, se considerato come storico”, commentò Seamus, criptico.
“Quindi? Dove dovrei cercarlo?”, continuò a chiedere la ragazza, stressata. Dopo ore di ricerche arrivava lui con tutte le sue risposte nascoste: era troppo stanca per pensare, ora.
“Prima di tutto nella mente di tutti noi. Ognuno possiede un ricordo sul quella tragedia: scoprilo”, le disse il capo, sorridente. “E, in secondo luogo… leggi i giornali, Zoe. Non sono sempre stata carta straccia”.
Ma certo! Che stupida che era stata!
Scoppiò a ridere, dando ragione a Seamus. “Giusto… come ho fatto a non pensarci prima?!”.
Lo ringraziò e uscì di corsa dalla sezione nascosta, per poi andare verso lo scomparto in cui tenevano tutti i giornali con le notizie più importanti. Sì, li tenevano lì all’Esis, in caso ritornassero utili per delle inchieste.
Le toccava cercare un giornale di circa quindici anni prima, quindi cercò la data sugli scaffali. Ce n’erano davvero tanti, per ogni anno… quante cose accadevano?!
Andò avanti, sorpassando quasi un decennio di avvenimenti su cui concentrarsi. Assassinii, morti improvvise, rapimenti, torture, processi… qualsiasi cose che potesse essere ritenuta interessante per la Resistenza era stata catalogata così bene in quella parte di libreria.
Arrivò finalmente alla data di quel mistero e si alzò sulle punte per prendere tutti i giornali relativi a quell’anno. Trenta.
Trenta testimonianze di quella storia.
Tutti con il medesimo titolo.
Sangue, vedetta, leggende che tornano in vita… ancora ‘a’ macchiate di orribili crimini.
Quella a che avrebbe per sempre spaventato a morte tutta la loro gente finchè la questione non si sarebbe risolta. Quei colori, quelle rose, quegli intrecci… era la sua firma, e il nome era sempre lo stesso.
Leto.
Ma stavolta aveva a disposizione anche un viso, sebbene non chiaro e troppo giovane per ritrovarlo nello stesso stato.
Era, però, qualcosa su cui lavorare.
Tomo scoppiò a ridere, vedendo sua moglie rincorrere loro figlio per convincerlo a mettersi la felpina verde che gli aveva comprato giorni prima.
Quel bambino non voleva proprio saperne di coprirsi e cercava di nascondersi da sua madre. Oddio, gli ricordava Jared, che pretendeva di non avere freddo durante i concerti verso inizio inverno con addosso solo una maglietta a maniche corte.
Forse era per quello che non erano mai andati molto d’accordo: erano davvero troppo simili.
“Acchiappato!”, disse ridendo, quando suo figlio, credendolo un alleato, gli corse accanto e lui lo afferrò di scatto, prendendolo in braccio e facendolo volare un po’. Devon mugugnò, deluso e imbronciato, ma Tomo sapeva come tirargli su il morale. “Dai, prima ti vesti, prima mamma ti porta all’asilo”.
Devon scosse la testa e Vicki arrivò sbuffando. “Scusa già usata… non è così infallibile come pensavo”.
Tomo le baciò la testa e l’abbracciò, formando un bel quadretto famigliare. “Devon, fa il bravo, per favore. Non costa nulla mettere quella felpa. Mamma te l’ha comprata con tanto amore”.
Il bimbo si fece pensieroso, come a decidere sul da farsi. Vicki lo guardò sorridente, accarezzandogli una guancia paffuta, e Tomo lo fece giocare, dondolandosi.
“Bravo il mio bimbo”, cantilenò Vicki, mettendo l’indumento a Devon, che intanto giocava con suo padre, sconfitto all’idea di vestirsi.
“Visto? Non è così brutto stare al caldo”, gli disse Tomo, mettendolo giù, per farlo camminare.
“Lascia perdere, tanto se lo toglierà appena arriva da Ash”, sospirò la donna, per poi sentire le braccia del marito attorno al suo corpo. Ridacchiò, voltandosi verso Tomo, e gli mise le braccia al collo. “Siamo tutti un po’ coccolosi oggi, a quanto vedo”.
“Ti amo”, rispose solo il chitarrista, dandole un bacio dolce sulla testa, per poi scendere sulla punta del naso e finire sulle labbra, lievemente.
“Tutto questo romanticismo a cosa è dovuto?”, chiese Vicki, rispondendo al bacio per qualche secondo. Poi arrivò Devon, camminando sbilenco e rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi ad ogni passo. “Oh, il mio piccolo combinaguai”.
Tomo scoppiò a ridere, lasciando la moglie per permetterle di andare a prendere loro figlio in braccio, spupazzandolo per bene. “Diventerà molto viziato”.
“Come se non lo fosse già”, rise la ragazza. “Ma ora dobbiamo andare”.
“Ti aspetto stasera”, la salutò Tomo con un altro bacio, facendole l’occhiolino.
“Arrivo appena consegno le foto. Spero di fare il prima possibile”, rispose lei abbracciandolo goffamente, avendo ancora addosso Devon come un koala. “Ti amo anche io, comunque”.
Il croato scosse la testa, ridendo, e li salutò con la mano, per poi uscire dalla stanza e prepararsi ad andare alle prove.
Vicki invece andò verso la macchina, l’accese e mise Devon sul passeggino nei sedili posteriori, legandolo bene con le cinture. “Tu, monello caloroso, vedi di fare il bravo oggi con Ash”, lo ammonì lei, ridendo.
Lui la guardò, quasi perso nei suoi pensieri, ma poi sorrise e cominciò a giocare con i pupazzi che avevano sempre in macchina.
Oh Devon, quando parlerai e ti farai capire sarà un bel giorno.
Vicki rise e, finito di sistemarlo, chiuse la sua portiera, per poi andare al posto di guida e partire.
L’asilo, non passando dai Leto, non era molto lontano, quindi non ci mise molto ad arrivare. Stranamente quel giorno erano arrivati con altre mamme, infatti il parcheggio era abbastanza trafficato.
“Forza signore belle…”, commentò Vicki, sbuffando. Poi intercettò un posteggio e ci si infilò di fretta, esultando. “Devon, che mamma mitica che hai!”.
Devon sorrise e mugugnò, quasi a sostenerla, così Vicki spense la macchina e scese dal suo posto, per liberare suo figlio dal passeggino. Lo slegò e lo prese in braccio, chiudendo a chiave l’auto e andando verso l’entrata.
“Deon!”, sentì urlare una bambina, vicino a lei. Suo figlio sorrise ma non sembrò darle molta importanza, così Vicki non si fermò, ma fece solo un sorriso alla mamma della piccola, come ad imitare Devon.
Entrò nell’edificio e lì vide la solita segretaria che accoglieva i genitori dell’ora di punta, mandandoli nelle varie aule. Vedendo Vicki corse da lei.
“Buongiorno signora Milicevic. Come va?”, le domandò, quasi seriamente interessata.
“Bene, grazie mille. Lei?”, rispose gentile la ragazza.
“Perfettamente. Ieri il signor Leto ha parlato con Ash a nome suo e di suo marito”, arrivò al punto la donna. “E’ tutto okay? Ash non ha mai ricevuto critiche e volevo sapere se qualcosa non…”.
“Oh no! No no no no no… non si preoccupi”, la fermò subito Vicki, sorridente. Quanti malintesi che si stavano creando per quell’asilo e su quella ragazza. “Stia tranquilla, va tutto bene con Ash, davvero”.
“Bene, spero allora che abbiate risolto”, concluse.
“Certamente”, mentì Vicki. ‘Certamente no. Dovremmo indagare ancora fino a che la sua babysitter non ci dirà tutto’, sarebbe stata una bella risposta.
“Bè, Ash è nella terza classe a destra da oggi. Hanno dovuto cambiare perché hanno portato nuove culle per i più piccoli, come Devon, quindi si è spostata”, le disse, indicandole l’aula.
“Grazie mille”, rispose la ragazza, mentre quella le sorrideva e passava alla mamma successiva.
Vicki cominciò a camminare e, arrivata davanti alla porta, bussò, per poi entrare a passo felpato.
“Ciao Vicki!”, la salutò Ash, ricordandosi di darle del tu. La mora sorrise, ricambiando il saluto amichevole.
Quel giorno Ash era quasi euforica e, in effetti, c’era aria di allegria dappertutto. I capelli biondi e blu erano legati in una folta e liscia treccia laterale che le finiva sotto il seno, coperto da una maglietta nera, sopra la quale mostrava una simpatica salopette a pantaloncino di blu jeans. Le scarpe erano delle Vans blu e portava un cappellino stile basco, nero.
“Sei splendida oggi”, commentò Vicki, lasciandole Devon, il quale sorrideva e borbottava felice.
“Oh, anche tu”, sorrise lei. “Questa volta quando venite a prenderlo?”.
“Come al solito penso… ma che succede qui?”, chiese Vicki.
“Lascia perdere, voglio morire”, scoppiò a ridere la bionda. “Oggi sarebbe il giorno delle foto, quindi tutte le mamme hanno portato i loro figli nella forma più smagliante… ma il fotografo mi ha dato buca e quindi tocca a farle a me. Ok, non sono una frana ma nemmeno una professionista”.
Vicki scoppiò a ridere… in fondo poteva anche consegnare le foto al ritorno e fare un favore ad Ash. Ci avrebbe rimediato fiducia e quindi più segreti.
“Hai davanti a te una fotografa!”, rise ancora la mora. “Se vuoi ti aiuto io in questo sporco lavoro”.
“No, davvero?!”, esclamò Ash, abbracciandola. “Dio, mi faresti un favore immenso”.
“Considerati in debito”, la prese in giro Vicki, scherzando e facendo ridere Ash.
“Seriamente… ok, se vuoi dovremmo iniziare tra un’oretta e mezza. Puoi stare qui con Devon oppure tornare dopo”, le propose Ash.
Mmm… magari riusciva a sistemarsi anche con il lavoro. “Facciamo che ci vediamo dopo, così mi sistemo”.
“Perfetto!”, disse Ash, contenta, mentre Vicki ricambiava e andava a salutare il figlio. Dio, era perfetto, senza ombra di dubbio. L’aveva salvata… ma ora era in debito.
Questo era un problema, visto che se Jared l’avesse scoperto le avrebbe chiesto di svelarle un suo segreto, poco ma sicuro.
Ci avrebbe pensato poi, ora doveva almeno godersi la giornata tranquilla, visto che Vicki l’aveva salvata.
“A dopo!”, la salutò la mamma di Devon, andando via.
Ash ricambiò e poi, dopo che ebbe chiuso la porta, si voltò verso i bimbi che erano arrivati. “E ora che volete fare?!”.
Dean era straiato sul suo letto bianco, in attesa, come sempre. Era così strano stare così rinchiuso, ora che aveva voglia di correre via e aiutare Ash. Chissà dov’era in quel momento…
“Signor Scott, come andiamo oggi?”, arrivò una di quelle infermiere, sorridente. Già… un’ottima attrice, niente da obiettare.
“Benissimo… posso fare un giro nella sala?”, chiese di getto il ragazzo, desideroso di uscire finalmente da quelle lenzuola deprimenti.
“Da quando vuole davvero andare?”, domandò in risposta la donna, mantenendo le distanze. Aveva paura che Dean potesse scattare da un momento all’altro già da sola, figurarsi in mezzo agli altri pazienti.
“Da ora. La signorina Connor sa convincere molto bene le persone a guarire”, spiegò lui, sottolineando il nome di Ash. “E sono certo che sarebbe molto felice di vedermi migliorare, se non addirittura uscire di qui, il prima possibile”.
“Questo è tutto da vedere”, commentò la donna, scettica all’idea che lui se ne andasse in giro senza nessun controllo. “Andrò a chiedere ai medici…”.
Errore: ricordiamo che lui era sempre Dean Scott, re degli scherzi insieme ad Ash Connor.
La ragazza se ne andò, socchiudendo la porta e lui si preparò a farla franca. Era ora di agire o non avrebbe mai avuto un’altra simile occasione. O la va o la spacca!
Slacciò tutti i fili che aveva attaccato al corpo e, con molta difficoltà vista la poca quantità di muscoli e la fragilità delle ossa, per non parlare di quanto fosse magro, provò a spostare le gambe per uscire da lì.
Le fece scivolare fuori dalle lenzuola e le mise a penzoloni oltre il letto. Si tenne ai lati con entrambe le mani, anche se tremanti e fragili, e si spinse giù.
Terra. Pavimento. Piastrelle.
Qualunque cosa fosse, la stava toccando con i piedi nudi. Era fredda, ma lui si sentiva al settimo cielo.
Staccò le mani dal letto e si tenne in equilibrio perfetto.
Dio quanto era bello poter stare anche solo fuori da quella cella!
Sorridendo, provò a muovere la gamba in avanti, per potersi spostare da lì, ma il primo tentativo non andò come sperava. Tentennò per qualche secondo e poi dovette riappoggiarsi al letto.
Ma non si diede per vinto. Si rimise in piedi, con più facilità, e riprovò di nuovo. Ancora non ce la fece.
E di nuovo. In piedi, sposare la gamba, tentennamento, appoggio; in piedi, spostare la gamba, tentennamento, appoggio.
Ogni volta riusciva a migliorare qualcosa, senza rendersi conto che ormai la ragazza sarebbe dovuta tornare.
In verità non aveva sentito la porta aprirsi, non aveva visto il dottore guardarlo e poi nascondersi per tenerlo d’occhio. Non aveva notato la speranza negli occhi nel medico.
Un paziente al limite del terminale tornava nel pieno delle sue volontà in pochi attimi. Solo grazie ad una visita.
Ovviamente non sperava che le sue condizioni psichiche dell’adattamento o del non farsi toccare fossero sparite o stessero migliorando, ma bastava anche solo questo piccolo aumento di amor proprio.
Era un enorme passo avanti… lo stesso che riuscì a fare Dean dopo una mezz’ora di prove.
Si mosse. Un passo.
“Oddio, sì!”, gracchiò felice, per non urlare, mentre si dava dell’idiota, mentalmente. Gli sembrava di essere regredito di vent’anni ed essere tornato piccolo, tanto da dover imparare a camminare.
Ma l’avrebbe fatto: si sarebbe definito volentieri un bambino pur di uscire di lì e poter stare tranquillo con la sua migliore amica e sorella.
Dal primo passo provò il secondo, e dopo il secondo il terzo, e dopo il terzo il quarto… fino a camminare attorno al letto senza quasi mai doversi appoggiare.
Ci avrebbe messo almeno una settimana di allenamento continuo prima di poter solo arrivare alla porta senza appoggiarsi, ma era un buon inizio.
Altroché se lo era! E i ringraziamenti andavano solo ad Ash, che l’aveva quasi… illuminato. Sì, gli aveva passato quella voglia di vivere che le brillava negli occhi parlando della sua casa. Gli aveva prestato quella luce.
Tic, tac, tic, tac, tic, tac.
Il tempo a volte era decisamente una fregatura.
Ormai era passato un giorno o due da quando Ash era tornata a casa e lui non aveva la minima idea di come riportarla indietro. Non capiva l’ossessione della ragazza di quel mondo e mai l’avrebbe compresa.
Il suo posto non era in mezzo a tutti quegli Incompleti! Non meritava una misera vita, qual’era la loro. Le sue capacità dovevano essere ampliate, evolute, controllate.
Ma no, lei non voleva. Lei voleva essere normale.
Odiava che Ash rinnegasse di essere ciò che era davvero, odiava che preferisse quel mondo al loro. Non riusciva proprio a capire come facesse.
In fondo non poteva dimenticare cosa fosse, visto che ogni notte non poteva far altro che accettare il suo essere più vero; quindi perché non finirla di nascondersi?
“Edmund, vuoi smetterla?”, gracchiò Joel, sbuffando. Edmund stava ticchettando il piede per terra, nella sala dell’Esis, mentre tutti erano in silenzio assoluto per tranquillizzarsi.
Joel, invece, era lì per leggere, dopo la sua solita fumata clandestina. Edmund odiava il fumo… anche Ash aveva il vizio di fumare, sebbene per quanto ne sapesse lo faceva di rado, al contrario del suo collega.
“Non rompere”, commentò il ragazzo, facendo abbassare a Joel il libro e alzare gli occhi, meritandosi un’occhiataccia.
“Come siamo volgari! Sorrow non sarebbe fiera di te, piccolo cocco”, rispose a tono Joel, prendendolo in giro.
“Vaffanculo Joel”, grugnì Edmund.
“Che, ti sei offeso? Insomma non puoi negare che qualunque cosa faccia Sorrow, a parte acconsentire gli esprimenti su Ash, che oltretutto è roba vecchia, tu sei sempre lì a sostenerla!”, spiegò Joel, mettendo il segnalibro e chiudendo il volume.
“Poteva farla rimanere”, lo contraddisse il ragazzo.
“Sarebbe finita in carcere. E non dire di no, perché sappiamo tutti che Ash, pur di tornare, l’avrebbe fatto”, lo fermò Joel, spiegandosi. “E Sorrow ci serve”.
Edmund si zittì, contrariato all’idea. Chissene fregava di Sorrow, avrebbe preferito tenere lì Ash, al sicuro, e vedere l’agente in carcere a questo punto.
Ma dopo qualche secondo le sue congetture furono fermate da quella pazza di Zoe che, con in mano almeno una ventina di giornali, stava saltellando verso di loro.
Arrivata lì, buttò letteralmente i giorni per terra, davanti a noi, e ci fece leggere il primo della lista, tutto sottolineato da poco.
“Notate qualcosa?”, chiese lei ironica.
“No”, commentarono insieme gli altri due, mentre lei alzava gli occhi al cielo, quasi sconfitta.
“Il cantante e il batterista dei 30 Seconds To Mars sono i nuovi super amici di Ash Connor”, cominciò a dire la ragazza.
“I 30 che?”, chiese Joel, curioso.
“E’ una band Incompleta, non rompere… bè, Incompleta mica tanto”, commentò di nuovo Zoe, indicando un tratto sottolineato. “Di cognome quei due fanno… Leto”.
E capirono, mentre gelava loro il sangue.
Ora, però, che si poteva fare?
“Siete sempre più bravi”, sorrise Ash, ballando goffamente con Simon e Devon, che ridevano forte. “Tra un po’ dovrete insegnarmi voi a ballare, sì sì”.
Devon la guardò, sempre ridendo, e poi si staccò dalle sue mani, mentre Simon continuava quella specie di ballo, pretendendo tutte le sue attenzioni ora. Lei, però, tenette lo sguardo anche sul piccolo Milicevic.
Stava attraversando la sala, andando un po’ da tutti i bambini, come se stesse decidendo in quale gruppo stare, ma alla fine prese la via per l’uscita.
“Simon, aspettami qui. Vado a sistemarmi un po’, perché voglio imparare bene”, finse lei, fermandosi e dando un bacio sulla testa a Simon, che annuì e si mise seduto, giocherellando da solo.
Lei camminò spedita, senza dare l’impressione spaventata che però sentiva dentro di sé. Raggiunse l’uscita nella metà del tempo impiegato da Devon e lo vide in giardino, da solo.
Anche a lei piaceva uscire ad esplorare da piccola. Soprattutto quando…
Oh merda, pensò tra sé e sé la ragazza, senza raggiungere il piccolino. Guardava il bimbo fissare le foglie che cadevano, in mezzo al leggero venticello che c’era quel giorno. Era davvero tenero.
Senza disturbarlo, stavolta Ash uscì dall’asilo, andando in giardino e camminò verso di lui.
Ma Devon la vide e le sorrise, indicando le foglie che man mano si staccavano. Capiva anche lui che era un evento raro che in California arrivasse l’autunno e l’inverno?
“E’ bello vedere che possiamo essere normali anche noi, vero?”, chiese Ash, sorridendogli e arrivando al suo fianco. Si sedette vicino a lui e gli mise il suo basco. “Ti sta bene… insomma, ci credi, piccolo? Finalmente un po’ di sano cambiamento di stagioni”.
Lui sembrò capire, rintanandosi nel cappello, divertito. Gli piaceva davvero e ci giocherellò un po’. Mugugnò qualcosa, ma Ash non afferrò il concetto.
Devon allora sorrise e chiuse gli occhi, come a dirle di imitarlo.
“Devo fare come te?”, chiese lei, mettendosi le mani davanti alla faccia per qualche secondo. Le tolse e lo vide annuire, così sorrise e serrò le palpebre.
Si mise ad ascoltare tutto ciò che le accadeva intorno, senza preoccuparsi di ciò che Devon avrebbe potuto combinare.
Sentiva le foglie staccarsi e cadere a terra, il vento sbattere contro la sua pelle, i capelli svolazzare, le giostre scricchiolare e i piedini del bimbo muoversi in cerca di qualcosa, di fianco a lei.
Alla fine la mano di Devon la scosse un po’ sulla spalla e lei aprì gli occhi. Il bambino si trovava davanti a lei, con lo sguardo innocente, mostrando i palmi sporchi di terra.
“Che hai fatto?”, sorrise Ash, mentre lui le indicava qualcosa dietro di lei, quasi fiero del suo lavoro.
Si voltò e vide un piccolo alberello, già cresciuto, anche se alto solo un metro. In teoria ci avrebbe messo mesi a diventare così… per un Incompleto.
“L’hai fatto tu?”, chiese lei, guardando Devon sorridere e sedersi di fianco all’albero. Lui annuì, sempre felice, diventando man mano più contento e ridendo di più.
“Io però sono più brava”, ridacchiò la ragazza, muovendo le mani e facendo i giochetti che faceva da piccola, con Dean, le prime volte che andavano insieme i biblioteca. “Belle le luci, vero? Un giorno te le presterò”.
Scherzava, sentendosi un po’ capita e decisamente meglio di prima, guardando Devon.
Poi però qualcosa, nel viso del bambino cambiò. Il sorriso si spense e guardò confuso alle spalle di Ash.
“O cazzo…”, imprecò una voce alle spalle della ragazza, la quale si voltò e capì di essere nei peggiore dei guai.
Cazzo, sì, pensò infatti.
Vicki era dietro di lei e la fissava sconvolta, senza capire cosa stesse accadendo. O forse lo capiva ma non voleva crederci.
Perché in fondo cosa poteva dirle? Non di certo la verità. Ma quale bugia avrebbe raccontato stavolta?
“Credo di aver bisogno di una spiegazione”, sussurrò la mora, quasi senza fiato.
“Vicki… io penso che… che…”, cercò di difendersi Ash.
“Che cosa sei, Ash Connor?”, chiese la madre di Devon, senza lasciarla finire, con tono severo, come se fosse un ordine.
Le aveva chiesto cosa, non chi.
Aveva capito. Avevano capito tutti.
E lei era fottuta. Stavolta seriamente.
....
Note dell'Autrice:
e mo' so' cazzi Ash Connor! ehehehe Vicki osserva e comprende (?)
Che Costance avesse ragione? Chi lo sa.
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, magari vi chiarisce alcuni passaggi. Ma vedrete che ci stiamo avvicinando a capire tutta la storia. Alla fine questa FF è nella sezione "Mistero" mica per niente :D
Bacioni, Ronnie02