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Autore: Hagne    29/03/2013    0 recensioni
"Quando un Re senza trono, ridotto in schiavitù, torna alla ribalta.
Quando degli dei, infrangendo le regole, compiono una blasfemia.
Quando ciò che non dovrebbe esistere nasce, cresce e uccide.
Allora nasce questa storia.
Una storia di amore, odio, rancore, e crescita.
Perchè il confine tra bene e male è labile, precario, e non sempre ciò che sembra giusto, lo è davvero"
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything '
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capitolo 14
“Leave it behind
Hearing your silence
It screams our goodbye
Cannot believe it's an eye for an eye
Love is gone to waste “
[…]
“From the ashes of hate
It's a cruel demon's fate
On the wings of darkness
He's returned to stay
There will be no escape
Cause he's fallen far from grace”

( A demon’s Fate – Within Temptation )










- Non si è ancora mosso da lì – li informò lady Sif nel rientrare nella tenda, abbandonando il lembo di tessuto blu che apriva uno squarcio sulla figura immobile e silente accasciata sotto la pioggia scrosciante .
 Thor si lasciò sfuggire un sospiro pesante a quella vista, capendo  che avrebbe dovuto usare la forza per riportarlo su Asgard e farlo  presenziare alla riunione indetta da Odino per decidere il suo futuro,  non prima però di essersi assicurato che Misgard fosse al sicuro, finalmente .
Eppure, quando scostò lo sguardo dal fratello per informarli della loro partenza si sentì assalire dalla confusione nell’incrociare gli occhi di  una bambina minuscola, accovacciata ai piedi del dottore che una vecchia anziana curava in silenzio.
Le sorrise, gentile, ma Estela non lo ricambiò , stringendo gli occhi arrossati con rabbia .
- È colpa vostra .
- Cosa hai detto ?
La bambina non si lasciò intimidire quando l’ombra dell’uomo biondo la sovrastò , non ebbe paura, perché anche se era piccola e non capiva alcune cose, sapeva con certezza che era colpa loro se la sua amica era morta .
Era colpa  dei soldati che non l’avevano difesa abbastanza .
Colpa di quegli strani signori con gli abiti scintillanti che non ci avevano neanche provato, a combattere per lei.
Era colpa loro, di tutti loro se la sua scoperta non le avrebbe più sorriso .
E non li avrebbe perdonati.
Mai .
-  Lei è morta per colpa vostra – gracchiò, con la gola che le bruciava, alzando il visino per ferirlo con i suoi occhi neri lucidi di pianto, per fargli capire che quella colpa li avrebbe tormentati in eterno, che il suo odio , li avrebbe perseguitati per sempre.
Thor la guardò con comprensione, con gentilezza, accovacciandosi per essere alla sua altezza e spiegare  che lei era ancora troppo piccola per capire cosa fosse giusto  e cosa fosse sbagliato, ma lei lo sapeva, cosa era giusto .
Glielo aveva insegnato nonna Baba, ed era stata lei a spiegarlo ad Astrid, e non era giusto che tutti loro fossero ancora vivi, se lei non c’era più.
Era sbagliato, tremendamente sbagliato .
- Sei troppo piccola per … - Estela lo spintonò con rabbia per zittire le sue parole senza senso, per sfogare la propria disperazione e il proprio dolore nel ricordare quanto lei fosse spaventata, nella foresta, mentre l’abbracciava .
E che l’aveva sentita tremare tra le braccia di suo padre ad ogni urlo, l’aveva vista stringere gli occhi e rimpicciolirsi per non sentire più nulla, per diventare invisibile, e lei non l’avrebbe perdonati per averla spaventata e uccisa .
- È tutta colpa vostra ! – urlò, stridula, scappando via dalla tenda mentre Thor ordinava a Fandral di andarle dietro e assicurarsi che non si facesse male .
Il guerriero  lanciò un ringhio prima di scostare la tenda e seguirla, mostrando nuovamente quella figura accovacciata che continuava a rimanere immobile, pietrificata, sotto la pioggia battente .
Estela si aggrappò ad un ramo per non cadere quando  scivolò su una pozzanghera, sporcandosi la guancia con le mani nere di fango quando le lacrime tornarono a bruciarle gli occhi .
Ma sapeva che non aveva tempo per quello, perché aveva promesso alla sua amica che avrebbe portato il bastone al suo amico dal mantello verde, quello che non  rispondeva ai richiami e teneva gli occhi incollati a terra, spalancati sulle proprie mani con le labbra schiuse in un urlo muto .
Strillò nell’inciampare ancora e battere la fronte sul terreno viscido, ma quando allungò una mano alla cieca sorrise nello stringere ciò che cercava.
Si sbucciò le ginocchia quando, per tirarlo dal terreno, dovette impuntarsi persino con i gomiti per trovare la forza di sollevarlo, e anche se pesava, anche se tornare in piedi le costò un singhiozzo di dolore non si lamentò neanche una volta . Perché anche la sua amica aveva singhiozzato, e  non si era mai  lamentata, neanche una volta .
Cominciò a correre tra gli alberi spogli, sussultando con uno strillo quando vide una figura seguirla velocemente, e quando Estela si accorse degli occhi sgranati del signore dall’armatura scintillate puntati sul bastone, si mise a correre.
- Dammelo  !
Lanciò un urletto quando sentì le dita dell’uomo provare ad agguantala per la vita, ma fu lesta a colpirlo con le pietre che aveva raccolto nella tasca quando aveva deciso di combattere i  mostri.
Gliene lanciò un pugno, colpendolo all’occhio e riuscendo a rallentarlo mentre i suoi occhi si ingigantivano nel riconoscere il mantello verde sporco di terra poco lontano da lei .
Sorpassò la tenda di tutta fretta, consapevole che qualcun altro avrebbe potuto volere quel bastone,e lei aveva promesso di darlo all’amico di Astrid, a nessun’altro .
Qualcosa rotolò al suo fianco, qualcosa di troppo piccolo per essere di nuovo lady Sif che pretendeva di essere ascoltata, ma  Loki non distolse lo sguardo dai palmi aperti e umidi di lacrime e sangue, non ne aveva la forza, non ne vedeva l’utilità.
Che lo lasciassero lì a marcire nel fango, che permettessero alla pioggia di forargli il cranio con ogni, singola, goccia, purchè non gli parlassero, purché  non ripetessero che era finita, che non c’era più motivo di soffrire.
Perchè Loki non aveva mai sentito la necessità di piangere come in quel momento, di urlare e pregarli di mentire, se necessario, perché quella volta la verità lo avrebbe ucciso, più della confessione di Odino sulla sua nascita, più della consapevolezza di non  averlo avuto mai, un padre.
- Ho fatto una promessa – rantolò qualcuno accanto a lui prima che la piccola figura strisciasse a fronteggiarlo con un respiro affannoso causato dalla corsa e dalla fatica – ed anche se è anche  colpa tua , se lei è morta , le ho promesso che te lo avrei dato, quando tutto fosse finito.
Il tonfo non lo attirò, il pianto singhiozzante davanti a lui neanche, ma quando un lieve bagliore gli illuminò il volto qualcosa si mosse nella sua gola, nel petto.
E quando una sua mano tremò, nel tendersi inconsciamente verso il suo scettro, qualcosa di caldo e dolce strisciò sotto pelle, soffiando un po’ di calore sugli ingranaggi congelati del suo cuore.
L’energia  tremolò un poco quando la accarezzò con una  mano, delicato,  sussurrando scintille che non bruciarono a contatto con le sue guance  tese per il freddo e umide di lacrime, dolci come una carezza .
- Loki !
La voce di Thor, storpiata dall’orrore, dalla comprensione, lo raggiunse come un monito a non muoversi, a non compiere altri errori, altre empietà,  a non mietere altre vittime  con la sua follia.
Eppure, quando  vide brillare negli occhi della bambina l’immagine tremolante di Fandral il suo braccio fu veloce, la sua mano sicura, e il sorriso gelido era tornato a sformargli il viso come la maschera crudele di un tiranno dalle mani sporche di sangue innocente.
Quando la testa del guerriero rotolò ai suoi piedi Loki  la guardò con un sorriso, calciando il corpo dal capo mozzato per avere una visuale  migliore dell’immagine di suo fratello che crollava in ginocchio, urlando dal dolore.
L’immagine che preferiva fin da bambino.
- Perché fratello ?      
 La terra tremò quando il dio degli inganni la colpì con il proprio bastone, sentendo le braccia tremare per l’energia di quel globo di luce che vorticava sulla punta della lancia e che ora aveva aperto uno squarcio nel cielo, l’ennesimo portale, la via che lo avrebbe condotto a ciò che più desiderava al mondo, a ciò che aveva sempre desiderato.
- Perché continui a negare l’ineluttabilità del fato.
Schiuse le labbra in un ringhio, soffiando rabbia e rancore mentre i capelli gli oscuravano il viso sfregiato, rendendo il suo profilo simile al riflesso scheggiato di una bestia antropomorfa.
-Morirete tutti, uno ad uno. E userò le vostre carni disossate per farne il mio trono, fratello .     
Il fragore del tuono risucchiò il suo corpo e l’ultimo sibilo prima che il cielo lo vomitasse in una terra arida, coperta di bianco, morta sotto coltri e coltri di ghiaccio.
- Svegliatevi inutili creature!
Si udì un sibilo, un basso e roco frusciare tra le montagne innevate, sotto l’acqua congelata, nel cielo plumbeo che ora pareva esserci accesso di migliaia  d’occhi rossi.
E la terra tremò, spaventata, quando i Giganti di Ghiaccio uscirono dai loro rifugi, ergendosi con le fauci schiuse e le schiene ricurve sul piccolo uomo che li osservava con un sorriso spezzato.
- E chi sei tu, per interrompere il nostro sonno ? – rantolò quello più alto e forte di loro, schiantandosi a terra con un gemito quando un lampo di luce azzurra rischiò di trapassargli il petto.
- Il vostro Re.






°°°




   


L’ennesima scintilla morì a contatto con la pelle fredda che sfiorava con dita gentili, sfrigolando ogni qual volta le sue mani si immergevano troppo a fondo  nei capelli cangianti che scivolavano in quella lingua di fata, la guida di ogni creatura sperduta nel buio dell’universo verso la  via di casa.
- Qualcosa ti turba ?
Semjace alzò lo sguardo dai capelli che stava acconciando in morbide trecce quando H’ava la interpellò con la sua voce bassa e vibrante, ma riabbassò in fretta gli occhi per paura di essere derisa, di non essere giustificata per il vuoto che sentiva all’altezza del petto.
Una voragine che sibilava il proprio rammarico ogni qual volta  i suoi occhi seguivano i lineamenti pietrificati del Tesseract, stesa sullo squarcio di universo che attingeva da lei la  vita, la  luce.
Eppure Semjace non gioiva di quell’immobilità, dell’incapacità di riflettere la propria mostruosa immagine negli occhi luminosi della loro creatura, non ne traeva godimento.
Sentiva solo un buco al petto, un formicolio che strideva lungo i suoi artigli, un disagio che si acuiva ad ogni ricordo del Tesseract che le sorrideva, gentile.
 - Sei infelice ?
La nota sorpresa nella voce di H’ava non la infastidì, perché loro non avrebbero dovuto sapere cos’era l’infelicità, loro erano esseri superiori che disdegnavano emozioni tanto umane, illogiche e prive di raziocinio.
Eppure lei si sentiva triste, rammaricata, ferita da quel viso che, più richiudeva tra i suoi artigli, più le causava una strana ansia, un’irragionevole sensazione di malessere.
- E se avessimo sbagliato tutto?  
La presenza di H’ava si fece soffocante alle sue spalle, come l’abbraccio indesiderato di un genitore che non tollera simili pensieri, simili ragionamenti, e anche se lei era la più vecchia tra loro, la più potente e la più severa, Semjace sentiva il bisogno di liberarsi di quel peso.
Di sfogare il proprio turbamento.
- Spiegati.
Ma H’ava non voleva veramente capire, pretendeva solo di  istruirla ad una corretta comprensione dell’essere vivente dopo aver udito quelli che lei credeva sproloqui di una creatura inferiore, vinta dalle emozioni e soggetta agli errori.
Ed i Creatori non commettevano mai errori.
- Forse …- trasse un respiro simile ad un singhiozzo quando sfiorò con un lungo artiglio il corpo che giaceva immobile sotto le sue mani, grattando la tenera carne dei polsi che teneva rovesciati sul ventre, come in preghiera – forse lei sarebbe stata felice con gli umani. Forse avremmo dovuta lasciarla  vivere …
Il petto di Astrid si macchiò di blu, un denso e corposo blu notte che Semjace ripulì frettolosamente con la manica della tunica, attenta a richiudere la ferita alla gola con la dovizia necessaria per non macchiare nuovamente il corpo del Tesseract.
E quando H’ava frusciò via con il suo sibilo di sdegno e l’artiglio ancora sporco del suo sangue la Creatrice si curvò su se stessa , abbracciando il corpo che  strinse al petto con frustrazione, rabbia.
Perché Yehouda non capiva, H’ava non voleva provarci, e nessuno poteva comprendere quanto a fondo l’avesse colpita sentirsi “madre” di qualcosa.
Lei che aveva stretto quel corpicino in un abbraccio che l’aveva scaldata dentro, che si era sentita voluta da qualcuno, che aveva sentito l’appartenenza di quella creatura, il suo bisogno, il suo strazio, il suo amore.
 La sua bambina.
- Stupidi insetti!
Il fragore dell’urlo di H’ava volò per la fucina come il rimbombo di uno sparo, strisciando tra le stelle che componevano il pavimento e gli spruzzi di nebulose che vorticavano attorno alla loro dimora, e quando Semjace seguì lo sguardo della Creatrice sentì una bolla di sollievo scoppiarle nel petto.
Perché le creature, gli insetti che H’ava fissava con rabbia lei li conosceva, li ricordava nella sua mente come i più illogici delle creature, ma le uniche che avessero amato la sua bambina.
Gli esseri umani cheora,  al cospetto di Odino, chiedevano notizie su di loro.
- Hanno deciso di sfidarci – la infornò H’ava con voce incredula, allungando un artiglio sullo squarcio di luce per raschiarne la superficie e sfogare la propria stizza, ma Semjace sentì un’ondata di sollievo sommergerla nel pensare che loro sarebbero venuti, non per sfidarli, ma per riprendersi ciò che avevano cresciuto e amato come una figlia.
La ragazza dormiente che la Creatrice cullò tra le braccia quando H’ava sigillò l’entrata per prepararsi allo scontro, e Semjace si scoprì incapace di sperare per la loro, di vittoria, quando la voce degli umani la raggiunse con le loro urla rabbiose e con quel nome sussurrato tra le labbra secche per la disperazione che la stessa creatura si trovò a bisbigliare, amorevole come la madre che per natura, lei non era  potuta essere.
Ma la madre che Astrid l’aveva fatta diventare, con un timido e debole richiamo.







°°°





Il brusio sconvolto delle divinità accompagnò la loro rigida avanzata come lo sguardo rapace di un nugolo di avvoltoi, e quando Thor crollò in ginocchio davanti ad Odino, il padre degli dei non potè che storcere la bocca e guardare in viso la strana creatura che con la forza di una sola mano pressava il dio dei fulmini contro il pavimento, per sottomerlo al suo volere e  utilizzarlo come merce di scambio.
- Cosa vi porta qui, Midgardiani? – li interrogò fremente di stizza la divinità, stringendo le labbra nel vedere come il richiamo di suo figlio fosse stato soffocato dell’ennesimo strattone brusco della creatura dalle pelle smeraldo.
Il Vendicatore che Tony Stark ammansì con un’occhiata silenziosa prima di sovrastare con la propria ombra la figura rigida di Pepper e quella altera di Maria Hill, accostata a lui con la pistola puntata contro la tempia del dio dei fulmini.
- Siamo qui perché necessitiamo del vostro portale.
L’ennesimo brusio colpì Iron Man come una pioggia di sguardi affilati e increduli, oltraggiati da come quelle creature inferiori pretendessero la loro attenzione, il loro interesse per una questione che non li riguardava più, non dopo l’allontanamento del Tesseract dall’universo.
- Non credo di potervelo accordare – lo zittì risentito Odino, trovando però nello sguardo scuro dell’uomo una fermezza che travalicava la momentanea follia di un uomo incosciente del pericolo che lo circondava, della possibilità di essere lacerato come il più insignificante degli insetti da quel dispiegamento di divinità.
- Non vi stiamo chiedendo il permesso. Il mio era solo l’informazione cordiale che precedete l’atto, s’intende- soffiò lo scienziato con l’alterigia che un essere umano non avrebbe mai avuto l’ardire di sfogare su chi più potenti e avanzati di loro, avrebbe potuto schiacciarli come mosche.
Ma Odino non era il suo dio, e benché Iron Man fosse consapevole della difficoltà sua e dei compagni nell’affrontare la potenza di tutte quelle divinità, il pensiero di Astrid non smorzava la proprio fermezza.
Non quella di Hulk che dei loro crani avrebbe lasciato solo granelli di polvere a scivolare via dalle dita tozze e verdi, non Pepper e Maria, benché deboli, benché umane e nemmeno eroine che però di quella missione ne erano le artefici.
Perché ad una donna alla quale era stato tolto un affetto poteva chiedersi tutto, ma non di abbandonare chi per l’una figlia, e per l’altra bambina innocente aveva segnato la loro esistenza.
Ed Astrid era stata tutto.
Figlia, nipote, alieno e Tesseract, ma la loro, una proprietà che ora  avrebbero rivendicato a creature che davvero avrebbero potuto massacrarli con la leggerezza di un infante vista la reazione esagitata del padre degli dei nel sentirli nominare.
- A nessuno è permesso varcare il confine dell’universo – tuonò Odino con voce altera, serrando l’unico occhio rimastogli per mettere a fuoco quell’accozzaglia di uomini e donne senza poteri divini – men che meno a voi midgardiani. Nessuno può.  
- E chi lo dice?
L’orrore portò via dal volto dell’anziana divinità tutto il colore, come una mano di bianco passata su una parete colorata ora divenuta grigia, cianotica come le guance che Odino tirò assieme alle iridi frementi dalla pupilla pulsante.
Perché quella voce lui la ricordava, l’aveva amata e poi temuta, e l’ilarità grottesca di quel tono suadente e carico di oscenità lo aveva sempre addolorato, lui e quel cuore di padre che Loki gli aveva smembrato con la follia dei suoi atti.
Lo stesso cuore che il padre degli dei sentì andare in pezzi per l’ennesima volta quando le porte dorate vennero giù assieme alle urla di orrore di chi vedeva i Giganti di Ghiaccio avanzare con i loro passi pesanti e grotteschi, comandati dall’uomo sfregiato che tutti loro fissarono con raccapriccio, astio e un velo di paura.
- Vedo che siete tutti contenti di vedermi, come sempre – si lasciò sfuggire il dio degli inganni nell’imitare un inchino che interruppe a metà per sogghignare all’ala destra di immortali e gioire dei sussulti spaventati delle loro spalle.
Terrorizzati.
Loki respirò a fondo per imprimere nei polmoni l’odore pungente della loro paura, un profumo inebriante che lo investì di un tremore gioioso prima che la voce di suo padre lo richiamasse all’ordine.
- Cosa ti porta qui, figlio? – lo interrogò, aspro, rafforzando la presa delle mani sui braccioli del trono dorato incassato nella parete.
L’uomo stirò un altro sogghigno, un po’ più pronunciato, giocherellando con lo scettro che stringeva delicatamente nella mano destra.
- Sono venuto per riprendere ciò che è mio di diritto, padre – e calcò l’ultima parola con l’astio e il disgusto che quella parola aveva sempre scatenato in lui, il raccapriccio per quella figura che paterna non era mai stata, né gentile, né comprensiva, solo silente, come il peggiore degli spettatori seduti in sala.
E nell’androne dorato il suo pubblico quel giorno era numeroso, misto tra dei e i mortali che Loki osservò con una smorfia contrariata prima di far vibrare la palpebra destra e tendere un braccio accanto a sé.
Quando Heimdall sentì lo scricchiolio della gabbia toracica che lo scettro affondato nel suo petto aveva frantumato nel trapassarlo da parte a parte il fiato gli venne via assieme al rantolo soffocato, e il sorriso deliziato della divinità non potè che rendere quel ‘crack ancora più osceno, ancora più ributtante.
- Fa male vero, mio nerboruto amico ? – sibilò Loki con odio, strattonando il braccio per muovere lo scettro e scatenare nel guardiano del portale un gemito di sofferenza.
- Non è inebriante il suono delle tue ossa maciullate ? – continuò mellifluo, tirando le labbra fino a farne combaciare il bordo con la cicatrice pallida che gli segnava la palpebra, una smorfia frantumata tra la gioia e il dolore di ricordare che lui quel suono lo aveva sentito, ed era stato Heimdall a generarlo.
Lui e quelle sue mani strette con forza attorno al gracile corpo che il guardiano aveva frantumato al suolo impietosamente, macchiando il sottile fianco del tesseract con la forma tozza delle sue dita.
Perché Loki non lo aveva dimenticato, neanche per un istante, il dolore che ognuno di loro aveva instillato nel Tesseract.
Ricordava ogni cicatrice, ogni bestemmia rivoltale con l’accuratezza di uno studioso, ed era giunto il momento di chiedere il conto di quel dolore.
- No!
Lady Sif si trovò a spirare con un lento e tremulo battito di ciglia quando, nel correre in contro al fratello si trovò con il dio alle proprie spalle e il suo braccio affondato nel petto, la mano piena del cuore che la guerriera vide pulsare tra le dita eleganti di Loki prima di accasciarsi ai suoi piedi e tingergli il mantello e il copricapo di gocce di sangue, segni scarlatti che Thor guardò con orrore prima di urlare il proprio raccapriccio a quella vista mentre Asgard intera gelava per la paura.
- Cosa credi di stare facendo? – lo riprese suo padre con l’angoscia di chi sa cosa lo avrebbe atteso, lui e la sua gente, di lì a poco.
E quando Loki alzò lo sguardo affilato dal corpo esanime lo fece morbidamente, dando a quel viso divorato dall’odio un che di dolce, in tutta la sua pazzia.
Una dolcezza che la divinità impresse anche nelle sua voce quando chiamò all’ordine i Giganti di Ghiaccio.
- Quello che ho sempre voluto da quando ho compiuto il mio decimo compleanno.
I vendicatori e le donne che li accompagnavano non poterono che stringersi in un cerchio stretto e ansioso quando l’ombra abnorme delle creature dagli occhi rossi inghiottì la loro, di ombra, portando via con i loro gorgheggi gli ansiti spaventati di Odino e dei suoi figli mentre Loki inclinava il capo con un sorriso deliziato.
- Uccidervi tutti.
Ciò che venne dopo nessuno di loro seppe spiegarlo.
Perché vi fu troppa morte, troppo sangue da  costringersi a serrare le palpebre e implorare il silenzio di smorzare le urla atroci degli immortali che ora tappezzavano un regno distrutto, macerie sulle quali Loki camminava con eleganza, quasi vedesse nella distesa di morte il proprio tappeto rosso, scarlatto non per l’onore di poter finalmente camminare sul suolo asgardiano come Re, ma per il sangue che gli imbrattava le vesti e che il dio scrollò di dosso nell’accostarsi al portarle assieme ai suoi sudditi, con ancora piccoli pezzi di carne incastrati tra i denti.
- Loki.
Quello di Pepper fu il più flebile dei sussurri, quelli che la notte inghiotte con un sonoro deglutire, quello che la donna si costrinse a mandare giù assieme alla saliva raggrumatasi in bocca nel sentire quegli occhi su di sé.
Uno sguardo assente, perso nell’immensità di quell’orrore che gli sporcava le mani e che rendeva il suo profilo aguzzo più affilato di una lama levigata.
- Veniamo con te.
Loki bloccò l’avanzata istintiva dei Giganti di Ghiaccio, scattati al gesto secco del suo braccio quando il pensiero di poter intristire il Tesseract con la morte di quegli umani gli morse il cuore e quell’angolo di emozioni che ancora lui poteva chiamare umane, e fu proprio con la consapevolezza di trovarsi con lo sguardo amaro della creatura su di sé che il dio diede agli umani le spalle, aprendo uno squarcio nell’universo per giungere lì dove lei lo stava aspettando.
Ai confini del mondo,  lì dove nessuno, secondo suo padre, avrebbe potuto recarsi.
Il limite, umano e divino, invalicabile per qualsiasi creatura dell’universo, ma lui, i limiti, li aveva sempre varcati, frantumati, plasmati secondo il suo volere.
Perché lui era il Re senza trono, e se sterminare un intero popolo di immortali per semplice ripicca poteva essere vista come la più travalicata delle soglie, uccidere chi tutti loro avevano creato, chi la vita dell’universo aveva generato, sarebbe stata la sua opera più grande, il limite più buio da superare.
E lo avrebbe fatto.
Per il piacere di distruggere  chi di lui si era sbeffeggiato, ma soprattutto, per riprendersi  quell’amore che crudelmente, ogni secolo, gli  veniva brutalmente strappato.



°°°
 



Il silenzio dell’androne cominciava ad essere soffocante per chi come Yehouda odiava la staticità e il silenzio, preferendovi gli sfrigolii dei mondi che ad un passo da loro svanivano come uno sbuffo di luci colorate ad ogni suo tocco, o alito, e il Creatore non poteva che trovare illogica la sua presenza lì.
Ma soprattutto, odiava dover affiancare sua sorella H’ava, la Suprema, la più potente, la più anziana, quella che si sbeffeggiava del suo malsano interesse per ciò che non era suo per natura ma che lui, in un modo o nell’altro, rendeva proprio.
Ed era proprio l’ingordigia di Yehouda a tenerlo inchiodato alle porte della Fucina, immobile di fronte quei battenti di aria e polvere di stelle che vibravano ad ogni onda di energia che si perdeva nell’immensità dell’universo e bussava alla loro porta per avvisarli dell’eventuale morte o nascita di una galassia.
Ma il fremito dei cardini di luce erano dovuti all’arrivo di creature ignobili, dell’anello più debole della catena tra mondi.
Umani.
Yehouda li aveva trovati sempre troppo emotivi, troppo illogici, troppo stupidi, troppo tutto per attirare la sua attenzione, eppure eccolo lì, a sorvegliare l’entrata come il più inutile dei guardiani, accompagnato dalla soffocante figura che sentiva respirare profondamente accanto a sé.
- Yehouda?
Il Creatore inghiottì un sussulto interno nel sentire la voce sfrigolante della sorella, nel riconoscere quel tono aspro e sprezzante che lo aveva sempre fatto sentire una nullità, perché lui lo era, in confronto alla potenza di H’ava.
Inutile.
Patetico.
E perciò, profondamente rancoroso verso di lei.
- Si sorella ?
H’ava tese un sorriso accondiscendente nel cogliere la falsità di quel dolce richiamo, perché la Creatrice sapeva che in quella bocca, ciò che i denti affilati di Yehouda schiumavano non era miele, ma il più terribili dei veleni, uno schiumoso rantolo di violenza con il quale l’avrebbe decapitata con un colpo netto, se ne avesse avuto il potere.
- Cerca di mantenere il controllo, e  non lasciarti influenzare dalle emozioni– lo rimproverò aspra, scoccandogli una lunga occhiata inquisitoria quando lo sentì sibilarle contro.
- Credo tu li stia sopravvalutando, sorella. Quelli che dovremmo affrontare sono semplici umani.
E con quell’umani Yehouda pensò di averle spiegato come  tutta quell’attenzione fosse inutile, se riservata per piccoli insetti, per lo scarto di un pianeta ancor più  inutile, ma H’ava si ritrovò a tendere un sorriso saputo quando furono i suoi artigli a rimandare per primo il bagliore ceruleo di un lampo che scaraventò il Creatore lontano da lei mentre Loki batteva a terra il bastone con un ringhio sommesso, informandoli del loro arrivo.
- Non se uno di loro ha ancora la vita dalla sua parte – si lasciò sfuggire H’ava in un soffio, aprendo le braccia per accogliere quella fila di creature, così diverse tra loro, ma unite dalla stupidità che li aveva condotti sul loro suolo sacro.
- Benvenuti nella Fucina, mie piccole e insignificanti creature mortali – li accolse amorevole, frusciando sul pavimento con il mantello impalpabile che le nascondeva gli arti ributtanti e affilati, nonché quello sguardo vitreo e fisso che li fece tremare tutti, tutti eccetto lui.
Il dio che la Creatrice fissò con meno asprezza, quasi raddolcita dall’immortale che per amore voleva ucciderli.
Quasi.
- E tu, figlio di Laufey. Ciò che sei venuto a rivendicare non ti è mai appartenuto, e mai ti sarà concesso.
Perciò vi invito ad abbandonare questo suolo, per non farvi più ritorno – continuò implacabile, profetica come la più terribile delle indovine, perché la morte li avrebbe attesi, una volta varcato quel confine, una morte in faccia alla quale Loki sorrise, schiudendo le sue labbra che non parevano neanche più umane, un taglio asimmetrico che sapeva solo sibilare come lo schianto secco di un corpo caduto al suolo.
Quelli che le sue mani e le fauci delle sue creature avrebbero dilaniato, scorticato come tronchi secolari abbattuti dalla novità, dall’avvento di un nuovo Dio, un nuovo Signore e padrone, la fine che Loki sapeva di rappresentare, di aver sempre rappresentato.
Lui che fin dalla nascita aveva portato il declino del popolo che lo aveva adottato, destinato ad annegare nella pazzia della sua anima, nel marciume di quel cuore che non aveva fatto altro che singhiozzargli nel petto, in attesa di trovare qualcosa per il quale battere profondamente, la creatura che lo attendeva al di là di quella porta, lei che lo aveva sempre atteso.
Perché il Tessercat era nato per essere suo, per essere amato da lui, una verità della quale si investì il braccio con il quale  sollevò il bastone divino e il cuore di luce da esso inglobato, il bagliore ceruleo che gli occhi di H’ava non ebbero modo di fissare a lungo prima di patirne lo schianto.
- Astrid!
Un grido di battaglia quello di Tony Stark, il primo a scaraventarsi sulla creatura che si era sbeffeggiata della loro natura umana, di quell’amore per ciò che non era mai stato loro, ma che avevano ugualmente amato, tenuto vicino al cuore come il più tenero degli amori infantili, quello che Hulk aveva cercato di stringere il più a lungo possibile prima di esserne allontanato.
Si udì uno schianto, e urla femminili, colleriche, affaticate da un combattimento che umani non potevano condurre a lungo, non contro chi la vita aveva creato, ma c’era lui, a sopprimere quel divario tra le loro nature, la divinità che non batteva ciglio nell’usare i suoi sudditi come scudo, lasciando corpi smembrati, teste mozzate ed arti tranciati a difenderlo dagli artigli della Creatrice che tornò ad accanirsi su di lui e sulla barriera di luce che tornò ad abbracciarlo.
- Non c’è onore in te, figlio di Leufey – latrò H’ava con risentimento, sentendo gli artigli sfrigolare su quel viso che avrebbe squarciato, se l’energia non si fosse accanita  tanto contro di lei, lei che quella stessa energia aveva creato, donando parte dei suoi poteri.
- Onore?
Una risata bassa gli tremolò sulle labbra arricciate, uno schioppo acuto come una frustata sui denti, cacofonico e ributtante persino per le orecchie della Creatrice abituata a suoni peggiori, mortali, come lo scoppio di un mondo, alla scomparsa di un’intera stirpe, ma quella divinità pareva riassumere in sé gli orrori del mondo.
- A cosa serve l’onore se non a renderci succubi di regole che non ci permettono di esprimere noi stessi ? – rantolò cupo, rafforzando la presa sul bastone che tese in avanti mentre l’energia tornava a sfrigolare nell’impatto con il corpo della Creatrice che gli si era avventata ancora contro.
- Osi metterti contro chi la vita di ha donato, lurida creatura ? – rantolò la Creatrice con rabbia, affondando gli artigli nella bolla di energia che lo inglobava, indispettita dal trovarsi così vicino a lui da potergli strappare il cuore con le mani senza però riuscire a toccarlo.
- Vita? – la sua risata questa volta risultò profonda, gonfia d’astio, amarezza e un barlume di follia che fece arretrare Hulk dal corpo dal capo mozzato che gettò di lato con disinteresse, livido di paura per quel sorriso che avrebbe potuto cavare il cuore a tutti loro.
Il sorriso di chi vivo non lo era mai stato, e che forse, mai lo sarebbe diventato, perché nato morto, lui e quel cuore che H’ava avrebbe voluto risucchiare tra le fauci quando riuscì ad essere ad un soffio dal suo petto.
E Loki lo vide, l’odio di chi in lui vedeva la sporcizia, l’orrore di un’esistenza sbagliata, corrotta, nata per errore, come lo era stata la nascita del Tesseract, quella vita che lui aveva imparato ad amare e per la quale si era ritrovato a ringraziare.
Perché attraverso di lei avrebbe potuto essere ciò che per natura non per potuto diventare, un uomo che poteva trovare bello ciò che vedeva, chi gli avrebbe sorriso e lo avrebbe chiamato con dolcezza, senza paura, senta timore, ma chiamato, semplicemente.
- La mia vita non è un qualcosa su cui  voi possiate decidere, o esprimere pretese,  ma  ti confiderò un segreto. Sono io a decidere di quella degli altri.
Sempre.

H’ava patì lo stupore  di sentire il suo respiro sul viso aguzzo, sulle palpebre di metallo che schiuse febbrilmente nel comprendere di essere stata invitata lei stessa oltre la barriera, in quella nube di energia e vita nella quale Loki la costrinse, accettando l’artiglio calato sul suo viso con un sorriso sprezzate prima che lo schizzo di sangue languisse sul pavimento.
Il fiotto che la schiena della Creatrice singhiozzò quando il braccio del dio la trapassò, lei e quel corpo che gli si accasciò contro mentre la palpebra di Loki cadeva smorta sull’occhio cavato, rotolato a terra assieme al cuore ancora pulsante della Dea.
E il silenzio accolse il fruscio di membra martoriate, il crollo di chi il Re senza trono aveva ucciso, dilaniato, per aprirsi un’altra strada macchiata di rosso, sporca del peccato della sua nascita, di passi che Loki sapeva di non poter mai ripulire dall’impronte scarlatte dei cadaveri sui quali aveva sempre camminato.
I corpi di chi a lui si era rivoltato, il tappeto che spettava a lui, che gli sarebbe sempre spettato ma alla fine della quale, ora,  avrebbe potuto trovare qualcosa di pulito, di meno  tetro, scuro, una luce verso la quale il dio si incamminò, lasciando alle spalle il sibilo angosciato di un mondo che aveva assistito alla nascita di un nuovo Signore e Padrone.
Ancor prima di patirne la presenza, Semjace ne sentì il fetore, il puzzo di sangue e il gorgoglio dei passi che il suolo stentava a trattenere a terra, poiché scivolosi, unti dal sangue che tinteggiò la Fucina quando Loki aprì le porte con una spalla, trascinandosi verso la creatura china su un corpo che riconobbe ancor prima di vederlo.
Il fiato faticava a rimanere intrappolato in gola per più di qualche secondo, soffocato dal sangue che gli aveva riempito i polmoni, ma il dio continuò ugualmente ad attingere aria, facendosi forza col bastone sul quale si posò, percorrendo a rilento la via che lo avrebbe condotto alla salvezza, alla sua, e a quella del cuore che parve smettere di singhiozzare quando la vide.
Palpebre chiuse, e respiro assente, ma lì, luminosa e morbida come ricordava, come avrebbero ricordato i suoi palmi, una volta che l’avesse raggiunta.
E quando vi arrivò, il Re crollò in ginocchio, senza forze e occhio, ma con un sorriso spezzato e la mano tesa su un corpo che Semjace trattenne con ansia, trovando l’assenza di vita in quell’iride opaca agghiacciante, spaventosa, ma lo trovò, il riconoscimento, in quella pupilla, non di lei, della sua essenza ultraterrena, ma di sua figlia, dell’unica cosa che per quella creatura valesse la pena sapere in vita.
- Non tornerà.
La mano continuò la sua discesa verso quel viso che, una volta raggiunto, inviò una scarica di piacere dai polpastrelli alle terminazioni nervose di Loki, tornate a macinare sensazioni quando riconobbe quella pelle e quell’odore, un profumo che sapeva di stelle, di mondi e vita, la sua.
Perché era lei, ciò per la quale avrebbe  abbandonato un’esistenza dedita alla vendetta, al rancore, all’odio verso il mondo, verso se stesso che non poteva cambiare, rendere diverso, ma lei non lo aveva mai voluto differente, migliore, buono.
Lei lo aveva accettato, ingenuamente, come potrebbe farlo una bambina alla quale si chiede cosa si ama, e lei lo aveva amato, profondamente, irrazionalmente, senza un reale perché, ma amato.
Una sensazione che Loki aveva sempre temuto, ritenuto inutile, vigliacca e debole, solo perché, non potendola avere, non poteva risultargli importante, non a lui che non era stata mai concessa, quella possibilità, ma finalmente l’aveva trovata, ciò che fin dalla nascita aveva bramato, desiderato con tutto se stesso.
Appartenere a qualcosa, a qualcuno che a sua volta solo a lui sarebbe toccato, senza trucchi, senza inganni.
Quando Semjace lo vide faticare con il bastone abbandonato in grembo non capì, in un primo momento, il perché di quel sorriso, di quell’occhio vitreo solcato dalla tristezza che le puntò addosso, facendolo scivolare sul petto verso il quale Loki si tese, stringendo nel palmo il globo di luce che solo allora, la Creatrice parve riconoscere.
- Fermo – lo bloccò agitata, schiudendo gli artigli sul polso che il dio irrigidì, tirando le labbra in una smorfia scontrosa che Semjace intaccò con l’ennesima stretta sul gracile arto che avrebbe potuto tranciare.
- Non puoi farlo, il tuo corpo non può contenere il contraccolpo. Morirai.
Morire.
Loki non mostrò alcun interesse per quella parola, per il senso di quella frase, per la fine che avrebbe fatto, non ora che lei era così vicina, che avrebbe potuta toccarla, ancora una volta, prima di ridarle ciò che le apparteneva, ciò che le doveva essere negato ma per il quale lui avrebbe pagato il prezzo.
Una vita voluta e amata per una che non lo era mai stata, il saldo di un’eternità che finalmente, il dio avrebbe potuto scontare con un sorriso.
- Fermo.
- Non mi importa – sfiatò senza voce, indebolito dalla perdita di sangue nel quale sarebbe affogato, inghiottito da ciò che da bambino e adulto lo aveva sempre circondato, fatto da padre, e da guida, una scia che alle sue spalle sarebbe parsa lunga chilometri e chilometri ma che ora lei avrebbe potuto far apparire meno nauseante, con la luce che la attorniava.
E forse persino lui sarebbe parso meno orrendo, meno ributtante, ma amabile, e solo, tremendamente, solo.
- Morirai.
- Non credo che la cosa possa importarti – latrò allora, sfiancato da quell’accanimento odioso, perché voleva sentire quegli occhi su di sé, almeno una volta, avrebbe voluto sentire la sua voce chiamarlo ancora, prima di spirare, prima che il mondo diventasse nero e da esso venisse inghiottito.
Ma Semjace la trovò, l’importanza, perché in quel globo che le dita sporche e scorticate dell’uomo stringevano teneva qualcos’altro, qualcosa di suo, quel cuore che quella creatura senza onore e senza patria  tendeva a chi entrambi avevano imparato ad amare, per il quale avrebbero rinnegato la propria natura, la propria stirpe.
Un tradimento che la Creatrice aveva compiuto quando aveva deciso di proteggerla, innamorata di qualcosa che non sarebbe dovuto esistere, ma che in lei aveva acceso la consapevolezza di poter essere diversa, di poter provare qualcosa oltre alla noia e alla indifferenza, un amore per il quale si trovò a sorridere con labbra con non aveva, e un cuore che per natura non aveva avuto.
Ma era lì, di fronte ai suoi occhi, su quel corpo verso il quale si tese, sfilando dalle mani del dio ciò che di più prezioso vi fosse per entrambi, che lo sarebbe sempre stato, una vita amata e venerata come la più tenera delle divinità.
- Mamma.
Bastò il ricordo di quella voce a smuovere le dita di ferro, a convincerla a conficcarle nel petto delicato e immobile che Loki vide sussultare, mentre il mondo attorno a lui cominciava a sbiadire, influenzato da quelle onde d’energia che il Tesseract stava inviando per riattivarsi, per tornare a vedere, e ad amare lui.
- Cos’è questo rumore?
Pepper si strinse al corpo affaticato di Tony con la gamba malconcia abbandonata malamente contro il pavimento, un suolo che vide tremolare e pulsare come la ferita aperta di qualcosa che stava per morire, di quel mondo che era stato il centro dell’universo, quello che loro, mortali, videro contrarsi sotto i loro occhi increduli prima che l’urlo di Hulk invocasse il nome di chi Loki stringeva tra le braccia, abbandonato con lei in un sonno senza incubi, attorniati da una figura astratta che sorrideva nel buio del cappuccio.
Perché una vita andava concessa, pagata, il prezzo che venne estinto, ma un pagamento al quale i  Vendicatori non ebbero modo  di assistere, sbalzati nel portale da un’onda d’urto che risucchiò ogni suono, luce, vita, prima di implodere come una Supernova per continuare il ciclo della vita e concedere, con la fine di quell’evoluzione, la nascita di qualcosa di nuovo, di mai visto, ma di ugualmente amato.
Profondamente, amato.



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