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Autore: darkneko_angel    30/03/2013    11 recensioni
Questi sono i 69esimi Hunger Games. 24 nuovi tributi verranno estratti.
Per la gioia di Capitol perderanno se stessi, lotteranno, soffriranno e moriranno. Infine saranno dimenticati. Che lo spettacolo cominci!
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri tributi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Guardami negli occhi, guardali bene, perché quando li rivedrai avranno visto la morte.
Stringi le mie mani, stringile forte perché quando lo farai di nuovo saranno state sporche di sangue.
Ascolta la mia voce ora che è sincera, perché quando la risentirai avrà mentito tanto.
Abbracciami forte, ora che sono tuo, perché quando tornerò sarò proprietà di Capitol City.
 

 

Distretto 1: Het e Marvel

 
Het si lasciò sfuggire un risolino eccitato torturandosi una ciocca di capelli corvini. Non ci poteva credere! Ce l’aveva fatta, era un tributo.
Anzi, era una vincitrice. Vincitrice in partenza. Si allenava da quando aveva sei anni e finalemente il momento era arrivato. Si concesse di fantasticare sull’arena, chissà che genere di sfide ci sarebbero state?
Il solo pensiero la riempiva di entusiasmo. Marvel, poi, le sembrava un avversario davvero intrigante. Certo, non molto intelligente all’apparenza, ma era alto, più di lei nonostante i due anni in meno, spietato e l’aveva visto spesso allenarsi, era forte. Iniziò a chiedersi come sarebbe stato un combattimento con lui, cercando di intuire i suoi punti deboli.
Lo spalancarsi della porta interruppe i suoi pensieri. –Het!- Sua madre entrò nella stanza con un gran sorriso. La donna corse dalla figlia e la abbracciò. –Wow, piccola mia, sei stata adorabile. Credimi, se non ti conoscessi bene non potrei credere che dietro questo faccino dolce si nasconda una furia assassina.-
- Impareranno a temermi, mamma. Tra meno di due settimane tornerò, vedrai.- rispose la ragazza, convinta. – Non ho dubbi di questo, tesoro. Oh! –la donna rise – Sono così fiera di te! Mi raccomando, sii forte. Fatti valere. Io ti seguirò in TV, ma sono sicura che sarai fantastica. Oh, ho incontrato i tuoi amici dell’accademia. Ti salutano, faranno tutti il tifo per te. Pensa, Amber mi ha detto che è più sicura di offrirsi l’hanno prossimo se sa che avrà te come mentore.-
La figlia si sentì lusingata da quelle parole. Adorava i suoi amici, non sarebbe stata la stessa cosa allenarsi, senza di loro. – Oh, si, dille che anche io sarò contentissima di farle da mentore. Direi che di strategie me ne intendo, io.- aggiunse, sicura delle sue capacità. La donna continuò – Insomma, siamo tutti felicissimi per te, non vediamo l’ora di vederti tornare vincitrice. E anche quel ragazzo… Diam ? Ho il presentimento che non gli dispiacerebbe tornare con te.- le strizzò l’occhio. Het arrossì –Mamma, non mi interessano i ragazzi, ora. Sono tutti dei tali stupidi… Quando vincerò avrò tutto il tempo per pensarci.-
- Meglio tesoro, meglio. Quando si tratta di uomini, più tardi è meglio è. Oh, e a proposito…-
-Sì, lo so. Se a Capitol City incontro papà lo “saluto” da parte tua.- disse con un sorriso complice.
Certo, “salutalo”. E magari “invitalo in quel bel paese” , anche. Così impara a fare il padre sul serio, anziché farsi i cavoli suoi e mandarti ogni tanto qualche vestito!-
- E fossero almeno bei vestiti! Guarda- aggiunse, sollevando la gonna bianca e rosa a fiorellini che portava per la mietitura.
- Ti sembra un vestito da guerriera questo? - madre e figlia scoppiarono a ridere. In quel momento il Pacificatore aprì la porta: -Tempo scaduto- La donna diede un bacio sulla guancia ad Het e si alzò: -Cara, un’ultima domanda: io sono felice che tu abbia deciso di offrirti, ma non ti avrò mica fatto troppa pressione? Lo fai per tua scelta, vero?-
La ragazza annuì, serena :- Certo! Sinceramente non so nemmeno come ho fatto ad aspettare fin adesso. -
Bene, allora sono più tranquilla con me stessa. Buona fortuna, tigre. -
- Grazie, ma non ne avrò bisogno-
 
 
 
Marvel si liberò con una gomitata dalla stretta del Pacificatore e si lasciò cadere con uno sbuffo sulla poltrona. Sicuramente nessuno dei suoi cosiddetti amici lo sarebbe venuto a trovare, quindi restava solo il suo patrigno, del quale avrebbe volentieri fatto a meno. L’uomo entrò quasi subito, squadrandolo da capo a piedi. – Bene, bene, era ora. Ti sei offerto finalmente.-
Il ragazzo lo guardò malissimo, trattenendosi per non prenderlo a parolacce.
Guarda che sei tu che mi hai obbligato a aspettare fino adesso. Io volevo andarci a dodici anni, ma tu devi sempre…- si fermò per non aggiungere “rompere le palle”
- Avanti Marvel, è inutile che ti credi il più forte del mondo. È ovvio che non hai le capacità per vincere a sì e no quindici anni come ha fatto Layla. Ora ce la potresti pure fare, comunque.- aggiunse, squadrando il figliastro come uno scommettitore che deve scegliere il cavallo vincente.
Trattieniti. Potrebbe essere il tuo mentore, ti serve, trattieniti.Sono nato per questo, vincerò.- disse il ragazzo, sicuro. – Bravo, bravo, l’importante è crederci.-
Marvel non capì se cercasse di prenderlo in giro o parlasse sul serio, ma decise di ignorarlo, semplicemente. Faceva sempre così, dal giorno in cui avevano cominciato a prenderlo in giro per la… diciamo, moralità sessuale di sua madre.
Uhm, okay. Hai qualcosa da dirmi? Sai, tipo consigli da vincitore?- disse, tanto per cambiare discorso. Non gliene poteva fregare di meno dei suoi consigli.
Beh… te l’ho sempre detto, sei un favorito, sappi di esserlo. Cerca di essere il capo del gruppo, conviene sempre. E naturalmente, non farti mai degli amici…-
-Perché poi dovrò sempre ucciderli- completò Marvel, annoiato. Glielo ripeteva da quand’era nella culla. Praticamente erano state le sue prime parole.
Non preoccuparti, lo so. Non ne ho la minima intenzione, non sono bravo a farmi degli amici. Semmai sono loro che vengono da me.- aggiunse, increspando le labbra in un sorrisetto sprezzante.
Mah, sarà. La tua compagna sembra una tosta. Direi che devi subito far capire agli altri chi comanda e eliminarla prima possibile, poi vedi di ottenere almeno 10 in addestramento, o non vale nemmeno la pena di… Marvel! Marvel, mi stai ascoltando?-
Il ragazzo- che effettivamente lo stava bellamente ignorando, pensando già all’euforia del bagno di sangue- rispose frettolosamente –Si si, capito tutto- pur non avendo la minima idea di cosa stesse parlando. Non aveva bisogno di lui per vincere.
Bene, visto che sei così convinto io andrei…-
E meno male! Pensavo che mi sarebbe rimasto appiccicato fino al bagno di sangue!, pensò Marvel.
- Buona fortuna, non vedo l’ora di avere un altro figlio vincitore.- disse l’uomo, e uscì sbattendo la porta.
Wow, allora sì che mi dai una ragione in più per vincere- ghignò sarcastico e indifferente il ragazzo, nella stanza vuota.
 


 
Distretto 2: Nirvana ed Elia

 
Nirvana sedeva sul comodo divanetto in pelle nera di una delle tante sale del Palazzo di Giustizia, continuando a guardarsi le mani che tormentavano l'orlo del povero vestito azzurro che ancora indossava; continuava a chiedersi se avesse fatto la cosa giusta, se veramente fosse stato necessario offrirsi volontaria. Magari le cose si sarebbero aggiustate da sole anche senza il suo intervento... No, aveva fatto la cosa giusta e lo sapeva, ma il senso di angoscia ancora non la voleva lasciar in pace.
La porta si aprì di colpo e Kurt irruppe come un uragano nella stanza; si catapultò sulla figlia senza darle neanche il tempo di alzarsi o spiccicare una parola: - Nirvana! Nirvana! - la chiamò abbracciandola.
- Papà...
- Figlia mia, perché, perché l'hai fatto! - continuò l'uomo, sciogliendo l'abbraccio ma tenendo ancora la ragazza per le spalle; aveva gli occhi lucidi dalle lacrime che tentava di trattenere con tutta la sua forza.
Nirvana non riusciva a guardarlo negli occhi: la tentazione di dirgli il vero motivo era tanta, ma così facendo avrebbe probabilmente messo in pericolo la sua vita allo stesso modo che se non si fosse offerta. Quel Pacificatore era stato molto chiaro: Se questa volta non ti offrirai, tuo padre farà una brutta fine.
Kurt aveva di sicuro pestato i piedi alla gente sbagliata e lei si era trovata a dover scegliere se dare la morte a suo padre in modo emotivo, con la sua stessa morte nell'arena, o in modo fisico, con la fucilazione del genitore nella piazza del Distretto.
- L'ho fatto... l'ho fatto per dimostrare a tutti quanto valgo! - disse ferma guardandolo.
C'era infatti una speranza, una possibilità, un lume di candela ben visibile: vincere. Sì, avrebbe vinto e sarebbe tornata a casa, portando gloria e onore a lei e suo padre; se il destino aveva voluto che si offrisse volontaria, una ragione doveva esserci, e Nirvana si stava auto-convincendo: quella ragione doveva essere la sua vittoria, doveva per forza.
- Tornerò a casa papà, e finalmente potremo vivere tranquilli: nessuno ci disturberà più, nessuno ci denigrerà più – continuò, gli occhi accesi della scintilla della speranza.
Kurt la guardò nelle iridi verde/nocciola e sorrise, lasciando che una delle lacrime sfuggisse al suo controllo: la speranza nello sguardo della figlia era riuscita ad entrare anche in lui: - A me non interessa del resto – iniziò – a me basta che ritorni a casa. Nirvana promettimelo, promettimi che ritornerai.
- Te lo prometto papà.
E avrebbe onorato ad ogni costo quella promessa.
 

 
In un'altra stanza non molto lontana, Elia guardava fuori dalla finestra che dava sulla piazza: al contrario degli anni precedenti, quando la Mietitura avveniva in modo ordinato e la gente tornava a casa serena, in quel momento c'era un putiferio al centro dello spiazzo; tutto perché i volontari designati non erano riusciti ad offrirsi, scatenando proteste post-Mietitura, dividendo gli abitanti in due fazioni, una contro l'altra. Elia ghignò sarcastico: lui e Nirvana erano riusciti a creare un gran disastro con un piccolo e semplice gesto ciascuno.
La porta si aprì e un piccolo bolide volò all'interno, andando a circondare con le braccia la vita del fratellone, in quanto la differenza di altezza fra i due era molto importante; in fondo Gabriel aveva solo 5 anni, ma nonostante questo, capiva perfettamente cosa stava succedendo ad Elia e piangeva tutte le lacrime di disperazione che possedeva, per la possibile fine che il fratello avrebbe potuto fare.
Elia sorrise dolcemente, cosa veramente rara per lui, e si abbassò prendendo Gabriel per le spalle: - Ascoltami Gabriel, non devi essere triste, non vuoi mica farmi credere che pensi che non riuscirò a vincere?
Gabriel fece di no con la testa.
- Allora non piangere, perché io tornerò sicuramente vincitore – continuò – E poi devi essere forte: devi proteggere Amanda in mia assenza – e gli arruffò i capelli con la mano.
- Quindi... quindi tornerai? - chiese il bambino, cercando di trattenere i singhiozzi.
- Certo Gabriel, lo prometto – gli rispose teneramente Elia.
Gabriel fu soddisfatto dal tono sicuro che Elia aveva usato e gli rivolse un timido sorriso, per poi andare a sedersi sul divano e lasciare il fratello all'altra visita.
Già, perché oltre a Gabriel, a salutare Elia era venuta anche Amanda: era una bella ragazza, dai capelli neri e gli occhi dorati, espressivi e vivaci, ed Elia l'aveva scelta come tata di Gabriel.
Amanda si avvicinò a lui, gli occhi colmi di tristezza e sull'orlo delle lacrime che si era ripromessa di non far scendere: - Lo prometti anche a me? Tornerai?
Elia annuì deciso.
- Guarda che ci conto, sai?
La distanza tra i due diminuì pericolosamente e in Amanda iniziarono a lottare l'enorme desiderio di baciarlo e la consapevolezza che lui non volesse: perché anche Elia aveva intuito che la ragazza provava dei sentimenti verso di lui, e doveva ammettere che anche lui non era indifferente; ma per il lavoro che faceva, non poteva permettersi di cadere in “trappole” simili, per cui si era sempre rifiutato di innamorarsi di lei. Ciononostante, non si sottrasse quando Amanda lo abbracciò e lo tenne stretto, anzi, ricambiò il gesto e cercò di trasmetterle tutta la sicurezza che poteva.
- Ripetimelo, ti prego – sussurrò Amanda, il viso contro la sua spalla.
- Tornerò da voi, non devi preoccuparti.
In quel momento Elia sentì qualcosa tirargli la maglia: Gabriel si era di nuovo avvicinato e lo guardava con un'espressione che solo un bambino poteva fare: alzò la piccola mano porgendogli qualcosa che Elia afferrò.
- Ma Gabriel, questo è il tuo preferito!
- Tienilo, porterà fortuna – rispose il piccolo mentre le lacrime riprendevano a scorrere sulle sue guance, e lo abbracciò di nuovo.
Elia osservò il piccolo peluches a forma di panda: quel pezzo di stoffa e Gabriel erano inseparabili e il fratellino lo portava sempre con sé, in ogni occasione; il ragazzo sapeva bene quanto ci tenesse, per cui rimase doppiamente colpito e commosso da quel gesto.
- Tempo scaduto – disse il Pacificatore aprendo la porta – andate fuori.
Per Gabriel fu quasi impossibile staccarsi dal fratello e se non ci fosse stata Amanda, probabilmente non l'avrebbe mai fatto.
Elia li osservò uscire e giurò a se stesso che avrebbe vinto. Per Gabriel. Per Amanda. Per suo padre.

 


Distretto 3: Bella e Ares


 
Il Pacificatore afferrò bruscamente il braccio di Bella e la trascinò verso la saletta delle visite, ma lei riuscì appena ad accorgersi del suo comportamento intrattabile.
In quel momento tutte le sue energie erano rivolte a mantenere un minimo di dignità e non scoppiare in lacrime come una parte di lei avrebbe voluto. In fondo, se voleva vincere doveva essere determinata. Si sedette con la poltrona, accennando un sorrisetto tranquillo, ma quando il Pacificatore uscì si prese il viso tra le mani e iniziò a piangere sommessamente, cercando di non farsi sentire. Non voleva uccidere. E non avrebbe saputo nemmeno farlo! Potevo solo sperare di vincere scappando.
E doveva farlo. La nonna ormai non doveva avere più molti anni da passare con loro, e Matisse non poteva andare in orfanatrofio. Era troppo piccolo, troppo dolce. Avrebbe vinto per loro.
Bella, tesoro.- sua nonna entrò nella stanza con Matisse per mano e la abbracciò con dolcezza. – Mi dispiace piccola, mi dispiace… avevo giurato a tua madre che ti avrei protetta da ogni cosa. – gli occhi dell’anziana signora si inumidirono. – Nonna… non preoccuparti. Non puoi farci niente. Io.. vi prometto che proverò a tornare.- abbozzò un sorriso. - Cara, io so che puoi farlo. Ma devi sapere subito che sarà difficile. Non sei una che uccide, ma sappi che non devi darti per spacciata. Non attirare l’attenzione degli altri tributi, non conviene mai. Evita gli scontri diretti. Sei intelligente e veloce, ricorda che queste qualità possono essere molto più utili della forza bruta. E se dovrai uccidere… - il tono della donna si fece più triste, come se fosse colpita da un ricordo doloroso –non sarà bello, per niente, ma ricordati che non sarà colpa tua, e non ti biasimerò per questo.-
La ragazza la guardò intensamente: -Sembra che ci sia stata, da come lo racconti.-
La nonna sospirò :- Immagino che sia ora di dirtelo. Si, ci sono stata-
Bella sgranò i grandi occhi azzurri: -Cosa? Tu, una vincitrice? E allora perchè non viviamo…-
-Nel villaggio dei vincitori? Credimi, quando vincerai capirai che non meriti nessun premio per aver accoltellato un’alleato che si fidava di te, o… aver fulminato una bambina di dodici anni… –per un’attimo rischiò di mettersi a piangere.- Non te l’ho mai detto perché temevo che mi avresti disprezzato per questo.-
Non potrei mai farlo- bisbigliò la ragazza.
Lo immagino, avrei dovuto avere più fiducia in te. Non sarò la tua mentore, Wiress è una brava donna, di sicuro è più giovane e lucida di me, ma spero di averti dato dei buoni consigli. A proposito, prendi questo.- prese un braccialetto con un ciondolo dalla tasca e lo porse alla nipote incredula.
Un’ingranaggio-
- Sì, cara. È il simbolo della tecnologia e dell’intelligenza, quella con cui ho vinto e con cui anche tu vincerai. E ora, anche Matisse ha qualcosa da darti.- A quelle parole il bimbo sorrise e salì sulle ginocchia della sorella. – Bel! Vai nell’alena?-
Bella ci restò di stucco: - No Matt, nessun’alena. Faccio solo… un viaggetto.- si sforzò di sembrare ottimista.
Un bimbo di quattro anni non dovrebbe sapere parole come arena.- sussurrò alla nonna, in tono triste.
Ma non potevano farci niente. A Matisse non fuggiva niente, proprio come alla sorella. – Non piangele, Bel- disse il piccolo, asciugando la guancia della sorella maggiore – Guarda!-
Le porse un altro ciondolo, a forma di cuore. La ragazza lo aprì e dentro c’erano le foto del fratellino e della nonna. –Grazie.- sussurrò, asciugandosi una lacrima. –Vi prometto che tornerò. Tornerò per voi.-
 

 
Ares si avviò verso la stanza del palazzo di giustizia con portamento fiero ed eretto, senza degnare di uno sguardo la giovanissima e terrorizzata Pacificatore che lo scortava (la conosceva, faceva parte del gruppo di Pacificatori che comandava a bacchetta). Conosceva il palazzo di giustizia come le sue tasche, non per niente la sua madre adottiva (o meglio, la sua fornitrice di denaro) era stata l’amante del sindaco.
B-buona fortuna signore- balbettò la ragazza aprendo la porta.
Grace!- chiamò in tono tono autoritario Ares, prima che si allontanasse.- Prendi questa. Compra un regalo ai tuoi fratellini.- le lanciò una monetina.
G-grazie signore.- la ragazza eseguì un’inchino esagerato e si allontanò in fretta.
Ad Ares venne in mente una frase di un qualche grande uomo del passato: “Se vuoi che il popolo ti ami, fingi di voler esserne amato”. Quello sconosciuto sarebbe stato indubbiamente fiero di come Ares esercitava il suo potere. Calmo e imperturbabile, si sedette sulla poltrona e si sistemò comodamente, in attesa che l’ora destinata alle visite finisse e lui potesse smetterla di perdere il suo tempo ad attendere nessuno.
Contrariamente alle sue aspettative, la porta si aprì, lasciando entrare il capitano Pillory, il fidato comandante del suo piccolo esercito privato. –Signore- l’uomo si inchinò cerimoniosamente davanti al giovanissimo principale.
Il ragazzo nascose alla perfezione la sorpresa che provava. – Salve, Pillory. Come mai qui?-
- Oh, sono solo venuto a salutarvi da parte di tutto il corpo dei Pacificatori.-
Ares sogghignò: - Grazie del pensiero, ma non lo vedo poi così necessario. Non dovrei impiegare molto tempo a vincere.-
Il Pacificatore per un istante apparve dubbioso, poi riprese la sua aria servile. –Certo, certo, non ho dubbi. Oh, abbiamo indagato nel passato della vostra compagna di distretto. Vive con la nonna ed il fratello più giovane, genitori morti in fabbrica. Dobbiamo… eliminarli e farlo strategicamente sapere alla ragazza, in modo da renderla emotivamente provata e quindi una minaccia minore?-
Ares considerò per un attimo l’ipotesi. Era indubbiamente una mossa nel suo stile, ma pensò che non valeva la pena di scomodarsi tanto per una ragazzina. – No, non lo trovo necessario. Non credo sia una grande minaccia.-
Un sorriso beffardo si delineò per un attimo sul viso dell’uomo. –Come ordinate, signore. Volevo solo farvi presente che non credo che vincere sia così facile e forse dovre…-
Ares colse immediatamente il tono insunuante delle sue parole e lo interrupe bruscamente: - Occupati del tuo lavoro, Pillory. I miei piani sono esclusivamente affar mio.-
L’uomo fece una smorfia. –Fate come volete, ma io non sarei così sicuro della vostra vittoria.-
Il ragazzo, indispettito da tanta sfrontatezza, si alzò in piedi e si avvicinò pericolosamente al sottoposto: -Dimmi, non ti ho forse sempre ricordato che il comando è una posizione fragile?- sibilò, con il preciso intento di inquietarlo- anzi terrorizzarlo. Il Pacificatore perse immediatamente la sua espressione beffarda: -Io… si signore, certo.-
- Allora vedi di comportarti da sottoposto, se non vuoi assistere da sotto terra alla mia incoronazione di vincitore.- disse il ragazzo, crudele, afferrandolo con uno scatto repentino alla gola.
L’uomo annuì farfugliando e quando il ragazzo lo lasciò andare si allontanò balbettando un cerimonioso saluto. Ares sorrise soddisfatto. La morte era parte della sua vita da sempre. La vittoria era praticamente già sua.
 



Distretto 4: Adele e Dilan
 

Adele si rannicchiò sulla poltrona delle visite, soffocando le lacrime. Stentava ancora a crederci. La mano andò istintivamente sull’ Ankh che si era fatta tatuare dietro il collo quando aveva scoperto di essere incinta. Simbolo di vita, le avevano detto. Si, vita un corno! Andare nell’arena. Morire. Uccidere, magari un dodicenne come Chuck. Chi prendeva in giro quando si era iscritta in accademia? Poteva saper combattere, ma non avrebbe mai saputo uccidere. Quando diceva che il suo sogno era divantare mamma non intendeva così! Lo sguardo le cadde sull’altro tatuaggio, la nota sul polso. La musica che aveva nel cuore. Buon notte al pescatore, buona notte alla barchetta
buona notte anche a te, o mia dolce sirenetta. Adele cominciò a cantare senza neanche accorgersene. Era solo una ninnananna, dolce e semplice, ma era comunqueuna delle preferite di suo fratello Chuck, ricordava bene il sorriso che si dipingeva sul suo volto serio quando cantava con lui sulla spiaggia. Prima che fosse estratto e morisse alla Cornucopia.

Il mare è la tua culla, l’onda azzurra è il tuo lettino

ora il sole scende, ninna nanna pesciolino
non aver paura, lo squalo non ti prenderà
quando riaprirai gli occhi la tua mamma ci sarà
buona notte al pescatore, buona notte alla barchetta
buona notte anche a te, o mia dolce sirenetta.

Aveva dimenticato quanto la facesse sentire bene cantare. E in quel momento la porta si aprì, lasciando entrare Seth, il ragazzo che l’aveva salvata, come indicava l’ancora tatuata sulla clavicola. Nonché padre di sua figlia, anche se lui non lo sapeva. Il ragazzo corse verso di lei e la baciò bagnandole il viso di lacrime. – Adele- il ragazzo singhiozzò- Adele, non puoi andartene, ti prego! Devi tornare.- il ragazzo scoppiò in singhiozzi- Non puoi nemmeno immaginare quanto mi mancherai. -
Il viso della ragazza si addolcì e si lasciò andare tra le forti braccia del diciottenne.
Non piangere Seth- mormorò pur essendo anche lei in lacrime.- Ci rivedremo, te lo prometto. Io… farò qualunque cosa per tornare da te.-
Il ragazzo si sforzò di sorriderle e la abbracciò, legandole qualcosa dietro il collo: una collana di perle.. – Ti ricorderà sempre il mare. Io ti aspetterò.-
- Oh, non vedo l’ora di rivederti.- sospirò la ragazza, ritraendosi. - E dimmi… non è che per caso i miei genitori…-
Seth scosse la testa. –No, mi dispiace.-
Adele sospirò, sapeva che sua madre non sarebbe venuta, ma almeno suo padre avrebbe dovuto essere felice che lei fosse agli Hunger Games a seguire le sue orme… ma in fondo doveva aspettarselo. Non era più loro figlia da molto tempo. Eppure, per quanto fosse (anche lei lo riconosceva) stupido e insensato, quel pensiero fece crollare l’ultima traccia della sua maschera di forza e la fece crollare di nuovo tra le braccia del fidanzato.
T..ti prego- singhiozzò- promettimi che se tornerò, qualunque cosa accada nell’arena, almeno tu non mi abbandonerai. Io…-
Un Pacificatore entrò in quel momento e subito abbassò lo sguardo, dispiaciuto di dover interrompere quel momento, ma la legge era la legge, per quanto assurda Adele la trovasse: Seth si allontanò,baciandola l’ultima volta.
Io aspetto la tua bambina, Seth. La nostra bambina- sussurrò, come per accettare quella verità felice, ma che era piombata su di lei troppo, troppo presto.
 


-Mi alleno da quando avevo cinque anni- ripetè mentalmente Dilan– Non devo avere paura.-
Benchè il ragionamento non facesse una piega, Dilan non poteva fare a meno di essere un po’ nervoso. Certo, si era offerto anche per proteggere Adele, la fidanzata (incinta, tra l’altro) di uno dei suoi migliori amici e vincere non rientrava nei suoi programmi,eppure il pensiero della morte lo spaventava. Lo spaventava l’idea di non rivedere più il mare, né i suoi amici e gli zii, che avrebbe fatto meglio in realtà a chiamare genitori. Si sforzò di dominare il nervosismo e si sedette calmo, seppur ansioso di salutare, probabilmente per l’ultima volta, le persone a cui voleva più bene.
Hey, Silver!-
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, nervoso, trattenendosi per non insultare Vidal, che era entrato (senza essere invitato, come al suo solito) nella stanza con tanto di sorellina di nove anni al seguito. Silver era un soprannome che gli davano gli amici, per il colore dei suoi occhi. I nemici non lo chiamavano così. – Johnson.- disse il ragazzo, incupendosi- Da quando in qua noi siamo amici?-
Vidal gli rispose con un sorriso da ragazzino – Ma che domande fai, fratello? Da sempre!-
Dilan strinse con entrambe le mani il bracciolo della poltrona, sforzandosi di non far apparire tutta la cattiveria sviluppata in anni di bastonate da parte dei genitori e repressa con tanta fatica.
Gli amici si aiutano a vicenda, non si mettono nei guai, Johnson.-
- Ma che cavolate stai sparando, Silver? Avanti, lo so che forse, ma dico forse non avrei dovuto tirarti una spada, e so anche che tu padre se l’è presa con te, ma avanti, eravamo ragazzini di dodici anni! A quell’età tutti sono stupidi.-
Il ragazzo strinse i pugni, guardandolo male, senza rispondere.
Vidal si scaldò. – Ma cavolo! Può essere che tu ce l’abbia ancora con me, dopo tanti anni? Io sono tuo amico, Dilan!- il rosso si avvicinò bruscamente all’amico, con uno sguardo arrabbiato negli occhi.
E finitela!- esclamò la piccola Carline con voce squillante. –Vidal, sei un grandissimo scemo.-
Si mise in mezzo ai due ragazzi e spinse via il fratello, poi con un saltello si piazzò sulle ginocchia di Dilan, stuzzicandogli la barba bionda con un dito. – Dil ! Che stavo dicendo? Ah, ah si: mio frarello è un grandissimo scemo, però non è cattivo. Cioè, di solito no. Vabbè… comunque lui mi dice sempre che ha fatto una cavolata, perché ti vuole bene e non pensava che ti avrebbe messo così tanto dei guai. E poi dice anche che era geloso perché tu-
- Carline!- la interruppe il fratello, arrossendo.
...perché pensava che tu fossi una schiappa con le armi e invece sei moooolto più bravo di lui-
- Carline! Io non ho mai detto queste cos…-
-Si si, Vidal, come no. E allora dice sempre che ti vuole chiedere scusa, ma siccome lui è troppo scemo per farlo, scusalo!-
Un luccichio divertito passò nei grandi occhi del ragazzo. – Seriamente?-
Vidal era rosso come un aragosta. –Avrei voluto tenerlo per me, ma a quanto pare…-
Il neo tributo si alzò e diede una pacca sulla spalla all’amico. –Beh, se volevi chiedere scusa, non devi mica vergognartene. Sono sempre bene accette.- Anche l’altro sorrise. –Beh, amici come prima?-
-Più o meno-
-Allora vinci ragazzo. E sei un favorito: comportati da duro. Da me, insomma-
-Molto modesto-
-Come sempre.- ridacchiò il diciannovenne. –Beh, buona fortuna.-
-Grazie-
Vidal prese per mano la sorellina (faticando un po’ a staccarla da Dilan) e uscì dalla stanza, sorridendo. Subito dopo entrò Alessa. –Era ora! – disse a Vidal con aria arrabbiata, ma era impossibile prenderla sul serio con quel viso dolce. Corse a sedersi davanti a Dilan e gli prese la mano, con gli occhi umidi.
Silver, non ho molto tempo per parlarti, ma sappi che non potrò mai ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto per me e Manuel. Se il nostro Radius potrà avere un padre… sarà solo grazie a te. E…grazie!- le lacrime fuoriscirono dagli occhi blu della ragazza, che se li asciugò con il dorso della mano.
Ma no, non devi…- stava dicendo Dilan, ma la ragazza lo bloccò con un bacio, lasciandolo di stucco.
Oh, beh- disse la ragazza a mò di spiegazione- so che era da un sacco che volevi farlo. Buona fortuna, Silver, fai vedere a tutto il mondo quanto sei forte.-
 



Distretto 5: Rebecca e Jack


-Beck! Come sta la mia assistente preferita?- il bel pacificatore dagli occhi blu e dai capelli ramati che aveva l’incarico di accompagnare la ragazza alla saletta delle visite le posò un braccio sulla spalla con aria noncurante.
- Riffle, ci stai provando con una ragazza appena estratta. Oddio, ma allora sei proprio un caso disperato!- la ragazza scoppiò a ridere. Puramente in teoria lei era davvero la sua assistente, ma in realtà… beh, in realtà quello che lui voleva era tutt’altro che professionale. Non che ciò non le piacesse. Decise di godersi il momento, in fondo c’erano delle -piccole, minuscole- possibilità che fosse l’ ultima volta che si divertiva con un ragazzo.
Perché? In questi anni di lavoro ho accompagnato tante di quelle ragazze sexy... Ma tu sei la migliore! È un peccato non potersi dire addio come si deve- disse il ragazzo ammiccando.
Rebecca considerò per un attimo l’opzione, ma decise di lasciar perdere. Avrebbe avuto tutto il tempo di divertirsi una volta vinto, e ora ci teneva a salutare la sua famiglia.
Quando vinco, quando vinco facciamo tutto quel che ci pare. Ora però togliti dalle scatole e vai a lavorare, Pacificatore sfaticato che non sei altro! Sciò!- rise ed entrò nella saletta, spingendolo via.
Come previsto, non fece in tempo neanche a sedersi e sospirare che sua mamma entrò di corsa nella stanza abbracciandola. Mentre usciva come era venuta, senza parlare, Rebecca restò a bocca aperta.
Certo non se l’aspettava, ma era contenta di vedere che era fiduciosa nella sua capacità di tornare. Si era preoccupata che reagisse come il padre di Steph quando suo padre era morto, ma aveva visto la sua forza di volontà e non poteva che essere fiera di essere sua figlia.La porta si aprì di nuovo, lasciando entrare Tom e Ruby, terrorizzati.
Cavolo. –Ehy, il resto dell’esercito dove l’avete lasciato?- chiese, cercando di dare un po’ di allegria alla situazione.
Beck!- Ruby si getto tra le braccia della sorella, scoppiando a piangere.
Beck, scusa! Io sono la più grande, avrei dovuto offrirmi volontaria al tuo posto!-
Rebecca sgranò gli occhi. –Ruby, questa è… la cosa più stupida che abbia mai sentito! Quale parte della frase “Tanto mi dovevo offrire” non ti è chiara?-
- Ehm… parecchie parti! Perché volevi farlo, scusa? Non siamo messi così male.- si intromise Tom, spaventato. Beck suppose che “ogni volta che guardo gli Hunger Games mi viene voglia di uccidere” non fosse una risposta rassicurante per un ragazzino di quattordici anni, quindi ignorò la domanda.
- Su, su, non preoccupatevi, io vincerò, lo sapete. Tom, tu devi essere l’ometto di casa adesso che Kyle si è sposato, okay?- disse addolcendo il tono. I tre fratelli si abbracciarono. – Ehy, a proposito, date un bacio a Kyle e alle ragazze da parte mia. Pensa, mi mancherà anche Abby , è proprio vero che i giochi ti cambiano dentro.- Tom e Ruby piegarono la bocca in un sorrisetto forzato.
Oh, aspetta!- Esclamò Ruby, frugando in tasca. –Ecco qua!- tirò fuori un piccolo libricino consumato e lo porse alla sorella. – Sono proverbi, Beck, tutta la saggezza del nostro distretto. Ti ricorderà casa. Ti vogliamo bene Beck, devi tornare! Ciao!-
Non riuscendo più a trattenere le lacrime, baciò la sorella sulla guancia, prese la mano di Tom e scappò via, facendo entrare Stephanie, la migliore amica di Rebecca.
Ehy, Beck! Alla fine ci sei finita sul serio nell’arena, eh?- la ragazza abbozzò un sorriso e si sedette di fronte all’amica –Non preoccuparti, nessuno ci sa fare con le armi come te. E poi non voglio passare il prossimi tre anni anni a consolare quel branco di morti di figa che ti viene dietro! Vinci, okay?-
Rebecca rise e tirò un sospiro di sollievo. – Meno male, almeno tu un po’ di allegria! Non potevo più di lacrime! Credo che non ci sarà più bisogno di dare lo straccio in questa stanza per i prossimi dieci anni… però almeno tu niente lacrime, vero Steph? Steph?- l’altra ragazza lasciò perdere l’orgoglio e scoppiò a piangere, abbracciandola.
Cavolo. Anche lei. –Oddio! Chi sei tu, che ne hai fatto di Steph Donovan?- Beck prese le mani dell’amica e la guardò negli occhi. –Senti, ti conosco da undici anni e non hai pianto una volta, una! Nè quando tua madre se ne è andata, nè quando tuo padre è diventato.. quello che è. E allora non piangere neanche adesso, accidenti! Io tornerò, sono sicurissima. E, nel remoto, impossibile, assurdo caso non dovessi tornare.. mi prometti che chiamerai la tua prima figlia come me?-
Steph annuì, trattenendo le lacrime.- Si, la chiamerò Rebecca, ma non ce ne sarà bisogno, perché tu tornerai.-
Rebecca sorrise. -Bene, ma non Rebecca, Beck, chiamala Beck. Mi piace di più. E ora sgombera, ci si rivede tra tre settimane, e salutami il tuo vecchio e il nostro caro branco di morti di figa!-
 


Jake si alzò dalla poltrona e cominciò a a camminare saltellando per la stanza, torcendosi nervosamente le mani. Aveva paura, tanta paura, ma non doveva crollare.
Doveva tornare dai suoi genitori, dai suoi amici e da Peter, soprattutto, Peter che era come parte della sua anima. Mentre saltellava da un piede all’altro per cercare di allontanre i cattivi pensieri il fratello entrò e, prima di dire una sola parola, gli diede un sonoro ceffone.
Peter, ma cosa cavolo…- il ragazzo si fermò, perché quello che stava dicendo sembrava un tantino ipocrita, visto che aveva appena fatto un occhio nero al fratello sul palco della mietitura.
Jake, cosa cavolo avevi in mente!- strillò il gemello, facendosi sentire anche persino dalla compagna di distretto nella stanza vicina.
Ma volevo solo salvarti! Non potrei mai perdonarmi se morissi.- disse Jake con una serietà più unica che rara in lui.
Jake, la mamma non potrà sopportarlo. Di perdere un altro figlio.Di tutte le volte che è rimasta incinta le restiamo solo noi, e credi che questa volta andrà meglio? I nostri genitori non sarebbero mai più gli stessi, e neanche io. Devi mettercela tutta per tornare.-
Il tributo abbozzò un sorriso, anche per distogliere l’attenzione da quel triste discorso –Ma è ovvio! Preparate i fuochi d’artificio per quanto tornerò.- Disse, ammiccando per sdrammatizzare la situazione.
Il gemello sorrise incerto, più per confortare il fratello che per vera allegria. –I miei fuochi d’artificio non saranno mai belli quanto i tuoi, lo sai.-
Jake sospirò e abbracciò il fratello. –Su, su coraggio, non cascarmi nel sentimentale! Non comportarti come se fosse l’ultima volta che ci vediamo- Jake odiava vedere la gente soffrire, persino i perfetti sconosciuti, figurarsi la sua famiglia. –Piuttosto, stai vicino a mamma e papà, per favore. Nessuno sa tirare su il morale alla gente quanto te e se… non dovessi tornare non voglio che ci stiano troppo male. Sai, mamma…-
Entrambi lasciarono cadere il silenzio. Ormai tutto il Distretto sapeva delle innumerevoli gravidanze finite male di Grace e della disperazione – la follia- che si stava impossessando di lei.
Poi Peter riprese il discorso. –Beh, certo. E poi sono io quello che cade nel sentimentale, eh?-
Jake ridacchiò. –Dai, fratello, lasciamo perdere e fatti abbracciare. Promettimi che qualunque cosa accada tu rimarrai sempre il mio fratellino pazzoide, vero?-
Anche l’altro rise. – Parli tu, che hai quasi fatto saltare in aria la scuola con i fuochi d’artificio?-
- Ehy, quello è stato un incidente e non è per niente carino da parte tua nominarlo!-
- Avanti, non fare l’offeso adesso. Beh, io ora vado. Fatti valere fratellino, voglio vederti tornare, e anche tutto intero!- Peter diede una pacca sulla spalla del fratello e uscì dalla stanza. Dopo pochi secondi entrò di nuovo, fermandosi con sulla soglia. –Oh, Jake, dimenticavo. Buona fortuna.-
Gli lanciò qualcosa e uscì, stavolta definitivamente.
Il tributo guardò l’oggetto che aveva in mano: il braccialetto di suo fratello. Si, gli avrebbe portato fortuna.
 



Distretto 6: Nina e Blade


Nina aveva incosciamente sperato che fosse suo padre ad accompagnarla alla saletta, ma non fu così. Ovviamente, l’aveva abbandonato una volta, perché non avrebbe dovuto farlo di nuovo? Era solo un disturbo, per lui, un ostacolo alla sua carriera. A volte era stata persino tentata di farsi scoprire nei suoi crimini, solo per costringerlo a ricordarsi di lei, ma lui non se ne era mai accorto. Ad accompagnarla fu un normalissimo pacificatore di mezza età, che si teneva a debita distanza da lei come se fosse spaventato. Reazione naturalissima e che le fece piacere, del resto tutti sapevano quanto persone aveva ucciso per non farsi scoprire, mentre entrava nelle case a rubare. Ma scusa, pensava Nina, che c’era di male? Tutte le persone sono cattive. Suo padre aveva ucciso sua madre lasciandola morire di tubercolosi senza fare niente per lei. Le donne dell’orfanatrofio lasciavano morire di tristezza e solitudine i bambini senza nemmeno accorgersene. Si, tutte le persone sono cattive, ed era per questo che Nina ne stava lontana. E poi, che ci poteva fare? Non era colpa sua se nell’orfanatrofio le avevano rubato ogni traccia di bontà. La porta si spalancò improvvisamente e Nina corresse i suoi pensieri. Tutte le persone erano cattive, tranne Alec. –Oh Nina, povera Nina! Mi dispiace!- il ragazzo corse da lei e la abbracciò.
Basta scassare le balle, Alec.- lo spinse via facendolo cadere sul pavimento. Detestava la bontà di quel ragazzo. Gli ricordava troppo la bambina-angelo che anche lei era stata.
Ma Nina!- gli occhi azzurri di Alec si fecero tristi. –Io.. Nina, io lo so che non sei come credi, c’è del buono in te… mi dispiace vederti cosi!-
La ragazza si strinse nelle spalle. –Oh, ma chissene! Parliamo di qualcosa di serio, non viene Claire?- disse con una particolare scintilla di cattiveria nei suoi occhi azzurri e penetranti.
Claire è morta, Nina, non verrà.- sussurrò Alec, con gli occhi pieni di dolore.
Lo so, lo so. Uffa, mi andava, di farmici una fumatina. Tu sei proprio una rottura di balle, Claire è stata un’ idiota, ma almeno era simpatica.- sbuffò.- Ma tu che fai servizio all’orfanatrofio, non te ne potevi accorgere che si stava cannando troppo? Certo che sei proprio inutile.-
Il ragazzo abbassò gli occhi. –Perdonami- mormorò, quasi tra sè e sè. Aveva voluto bene a Claire, ma del resto a chi non voleva bene, lui?
-Può darsi.- la ragazza stirò le labbra in un sorrisetto cinico- Ora sgombera, però, che mi sono stufata di parlare con te. -
Alec ci restò di stucco: -Ma.. io credevo.. voglio dire, potremmo non rivederci più, vorrei almeno abbracciarti… Non hai paura di morire?-
- No, perché? Tanto qui è una schifezza, una vita così meglio perderla che trovarla.- sbuffò, annoiata, come se stesse facendo un discorso di poca importanza.
A me dispiacerebbe, però!- sbottò il ragazzo prendendole una mano –Non sei sola, io ti voglio bene e secondo me anche tuo pad… -
-Alec, non me ne frega un cacchio di rivederti, ti ci sta in testa o no? E ora leva il disturbo, ho detto, sciò!- Mentre il ragazzo si allontanava, trattenendo le lacrime, Nina sorrise. Adorava ferirlo, era eccitante. Ed era ancora più eccitante vedere come ogni volta tornasse comunque da lei.
 

 
Gli occhi nerissimi di Blade si fissarono cupi sulla porta chiusa.
Per un attimo si concesse una specie di sorriso. Bene, era agli Hunger Games. Sentì uno strano senso di rilassamento al pensiero che presto tutta la rabbia repressa da troppo tempo sarebbe fluita libera alle spese di qualche povero disgraziato. E poi magari suo padre se fosse riuscito nell’ obiettivo di procurare un vincitore alla sua famiglia si sarebbe deciso a comportarsi da genitore in modo accettabile.
In quel momento la porta si aprì.
Blade, caro!-
Un groviglio di emozioni si agitò nel cuore di quel ragazzo tanto addestrato a reprimerle.
Dolore. Rancore.
Furia.
Che ci fai qui?- urlò il ragazzo scattando in piedi e stringendo i pugni.
La madre gli rivolse un sorriso traboccante falsità. –Ma come, tesoro, sono venuta a salutarti!-
Blade ebbe quasi la nausea a sentire quelle parole falsamente dolci. – Adesso? Solo adesso che sono appena stato estratto te ne frega qualcosa di me? Io non esisto per te, o non te ne saresti mai andata!-
Il ragazzo colpì il bracciolo della poltrona con un pugno, rischiando di romperlo. –Vattene!-
-Caro, ma…-
-Vattene!- la donna si decise a dargli retta e Blade per un attimo credette di essere stato lasciato in pace, finchè dalla porta non entrò suo padre. Che palle. Suo padre veniva dal Distretto 1 e in gioventù era stato uno di quei ragazzi che aspirano alla vittoria, ma da quando la figlia era morta nella finale dei giochi due anni prima più che a uno spietato vincitore Favorito somigliava quello del 12: assente, scorbutico e alcolizzato perso.
Tuttavia in quell’occasione gli sembrava abbastanza in sé. Doveva essere molto fiero di essere riuscito a gettare nell’arena entrambi i figli. - Uhm, uhm, bene. Sei agli Hunger Games, ragazzo!- barcollando leggermente si sedette davanti al figlio e gli assestò una virile pacca sulla spalla. – Avrei preferito che ti offrissi, ma va bene così, non pretendevo che avessi il coraggio di offrirti a quindici anni come Beatriz. Cavolo, lei sì che era una ragazza con le palle! Ce l’aveva quasi fatta… Nah, pazienza, mi accontento di te.-
Il ragazzo sentì una pericolosa scarica di rabbia percorrerlo da capo a piedi, ma si sforzò per restare fermo. – Beatriz era solo una stupida. Mamma se ne è andata per colpa sua vero ?- disse, strofinandosi la cicatrice sul sopracciglio fattagli dalla gemella.
Il padre fece un gesto vago con la mano. –Mah, chi le capisce le donne? Sono sempre un’errore, Blade. Non voglio vederti nemmeno parlare a una ragazza, nè nell’arena nè fuori. Sono solo femminucce piagnucolose che hanno paura anche della loro ombra, e l‘ultima cosa di cui hai bisogno è di affezionarti a qualcuno.- Blade annuì freddamente, malgrado non si trovasse del tutto d’accordo. Quella ragazza, la sua compagna Tina, o come si chiamava, Blade non poteva fare a meno di ammirare il suo coraggio. Quanto avrebbe voluto avere anche lui la forza di sfidare davvero suo padre! Non ne aveva mai avuto il coraggio, però ricordava ancora troppo bene quando la madre se ne era andata, spinta dal costante atteggiamento di sfida di sua sorella, e non voleva perdere anche lui. Per quanto come padre lasciasse a desiderare, come allenatore gli serviva.
Bene. Cos’altro?- chiese brusco.
Fatti vedere forte. Non importa se non sei simpatico o interessante, se sei spietato ti ameranno lo stesso. Corri alla Cornucopia, ma vedi di non morire, non voglio vergognarmi di te per tutta la vita. Ricorda di non fare cavolate, non accendere un fuoco di notte e non abbassare mai la guardia. Ora vado, tu vinci, e non azzardarti a farti ammazzare, non mi restano più altri figli che possano vincere. – gli occhi si fecero lucidi al ricordo della sua adorata Beatriz, riempiendo l’animo del figlio di un confuso turbine di odio e gelosia – Forse mi renderai fiero di te, figliolo.- L’uomo bevette qualcosa dalla fiaschetta che portava al collo e si allontanò, con seri problemi a restare in piedi .
Ma chi se ne frega, pensò Blade, guardando annoiato il soffitto.
 



Distretto 7: Hope e Donald


Hope riuscì di vincere la timidezza e sorridere al Pacificatore che la accompagnava e si sedette composta sulla poltrona, sebbene tremando di paura. Se voleva avere qualche possibilità doveva abbandonare la sua abituale riervatezza e trovare un modo per farsi amare anche dagli estranei ed era meglio cominciare subito: persino il pensiero dell’intervista la terrorizzava, anche senza parlare dell’arena vera e propria. Nessuno avrebbe puntato su una silenziosa ragazza che non aveva la minima abilità, ma in cuor suo sperava lo stesso che qualche miracolo potesse permetterle di tornare. La ragazza chiuse gli occhi e canticchiò tra se e se la melodia che amava suonare al pianoforte, cercando di calmarsi.
Hope!-
Nella stanza entrarono Robb, Lorence e Simeòn, insieme alla sua amica Esme. – Ciao- mormorò timidamente la ragazza, cercando di apparire sicura di sè.
La prima a rompere il silenzio carico di tensione fu l’esuberante Esme.
Hope! Hey non pensare nemmeno per un momento che tu non possa tornare. Se riesci a farmi passare un’intero giorno di di scuola senza finire in punizione allora puoi fare qualunque cosa!- L’altra si sforzò di sorridere.
- È vero… non preoccupatevi, io… io ci proverò. -
Esatto! Non temere, Hope, sai arrampicarti, non sei male come mira e poi sei dolcissima, tutti ti adoreranno. Fortuna che non hai preso da me, che sono un’imbranato fatto e finito!- aggiunse Lorence, il secondogenito della famiglia Anderson, che aveva appena passato l’età da mietitura.
Finiscila, Lorence, se le ricordi come sei messo tu la deprimi e basta. – si intromise il maggiore, Simeòn, ridendo. – Piccola, tu sei la sorellina che sognato per tanto tempo, mi manchi tanto da quando sono andato a vivere con Sybille e di certo non ti perderò ora. Sono sicuro che puoi vincere, e vedrai che una volta vinto delle sciocchezze come reggere lo strascico al mio matrimonio non ti preoccuperanno più!-
Hope arrossì, era da quando Sybille e Simeòn si erano dati il primo bacio che cercavano inutilmente di costringerla ad accettare il ruolo di damigella, fregandosene immensamente della sua repulsione per lo stare al centro dell’attenzione. -Ma non sono brava a stare in pubblico, lo sai. Come farò davanti a tutta Panem?-
Fu l’altro fratello, Robb, quasi suo gemello per quanto erano legati, a rispondere per lui. –Tu? Ma se tutti ti adorano! Lorence sarà uno scemo e un grandissimo sfaticato- fu interrotto per un attimo da uno sguardo assassino da parte del fratello, ma proseguì come niente fosse. – ma ha ragione. Sei, gentile, buona, adorabile. Se potessi sponsorizzare qualcuno sponsorizzerei sicuramente te. E anche Hector. Il pacificatore non l’ha fatto entrare, perché siamo troppi, ma dice che non vede l’ora di vederti tornare.- Hope sorrise al pensiero dell’allegro cugino più grande, l’unico a parte Esme e Robb a cui apriva davvero se stessa.
Proprio in quel momento il Pacificatore entrò, annunciando la fine del tempo.
Add… arrivederci- disse Hope, con un dolce sorriso sulle labbra.
 

 
Donnie rabbrividì, quando il Pacificatore lo scortò nella saletta al palazzo di giustizia. Non odiava nessuno e di certo non senza conoscerlo, ma non poteva proprio dimenticare il giorno in cui i suoi genitori avevano dato la vita per proteggere un orfanella innocente dalla loro crudeltà.Come si poteva essere così cattivi? L’unico lato positivo di quella triste vicenda era che la povera orfanella accusata di furto sarebbe poi diventata la sua amata, Wendy.La ragazza entrò nella stanza quasi contemporaneamente a lui, quasi spingendo via il Pacificatore e buttandosi tra le sue braccia. Donnie le gettò le braccia al collo e le sfiorò dolcemente le labbra carnose, prima di allontarsi quanto bastava per riuscire a sussurrarle un – Tornerò, non preoccuparti per me.-
La ragazza mora annuì, con le lacrime agli occhi.- Donnie, so che ce la puoi fare, ma ho paura per il nonno. Ha avuto un infarto, ora è in ospedale, ma non so se ce la farà.-
Il fidanzato la abbracciò con dolcezza, cercando di nascondere la sua paura per fare coraggio a Wendy. –Su, non avere paura. E chi lo ammazza quello? Sai com’è il nonno.-
Quella frase riuscì a strappare un sorriso alla ragazza. – Lo spero. Oh, dimenticavo.-
La sedicenne infilò una mano in tasca e tirò fuori un sassolino. Abbozzò un sorrisetto stirato. –Beh, non è un diamante, ma è la prima cosa che ho trovato, ci tenevo a darti qualcosa.-
Donnie le sorrise e se lo infilò in tasca. –Oh, grazie mille. Mi porterà sicuramente fortuna, se me l’hai dato tu.- disse, prima di baciarla di nuovo, più intensamente. Sarebbe stato sicuramente bello avere qualcosa che gli ricordasse casa, la pace dei suoi boschi e le risate dei suoi amici.
Oh- disse dopo essersi staccato.- Io… avevo sempre sperato che avrei avuto un anello per questa occasione, e anche che fossimo in una situazione più felice, ma…- dopo aver detto quelle parole si inginocchiò sul pavimento, tenendo il sassolino in mano a mò di anello di fidanzamento –Wendy Penguin, vuoi diventare mia moglie?-
Gli occhi della ragazza si inumidirono, nonostante fosse molto tempo che nessuno dei due piangeva.
-Oh si Donnie, lo voglio. Ma senza pensarci un attimo, proprio! Voglio restare con te per sempre, quindi devi promettermelo, che tornerai. Fai qualunque cosa! Non importa se devi portarti a letto mezza Capitol City, tu sei solo mio e non ti perderò così presto!- quasi urlò, praticamente stritolandogli la mano.
Ehy, ehy, calma. Puoi scommetterci che tornerò- ridacchiò il diciottenne, giocando con le ciocche more della ragazza. Il Pacificatore entrò dichiarando –Tempo scaduto- proprio mentre si chinava per baciarla di nuovo.
Donnie pensò che non avrebbe mai, mai sopportato i Pacificatori.
 



Distretto 8 : Jennifer e Lysandre



Jennifer girava nervosamente per la grande stanza del Palazzo di Giustizia, frugando da tutte le parti: un foglio e una penna, chiedeva solo questo. Aveva anche domandato al Pacificatore di guardia se avesse potuto procurarglieli, ma lui aveva risposto con un'alzata di spalle e un “arrangiati” a cui la ragazza non aveva potuto ribattere. Il bisogno spasmodico di scrivere l'aveva accompagnata da quando aveva alzato automaticamente la mano per offrirsi come volontaria, e non l'aveva ancora abbandonata: era il suo modo per sfogarsi; quanto avrebbe voluto scrivere cosa pensava in quel momento!
La porta si aprì ed entrarono i suoi genitori: il padre, Arthur, corse subito ad abbracciarla: - La mia piccola Jennifer! Non dovevi, non dovevi offrirti!
Jennifer ricambiò l'abbraccio: - Non cambierei idea, anche se potessi tornare indietro: ho salvato una vita, e di questo sono fiera – concluse, gli occhi lucidi.
- Arthur, non darla ancora per spacciata – Eileen si intromise nel discorso; lei e la figlia avevano sempre avuto un rapporto di leggera freddezza, ma erano pur sempre sangue dello stesso sangue – Ha preso da te la sua intelligenza, ed è furba.
Jennifer sorrise a quei complimenti, molto rari da sentire dalla bocca della madre: - Sì, ce la posso fare.
- Spero però che tu abbia ereditato da me il buon senso – riprese Eileen – ti servirà, nell'arena.
- Hai anche una buona mira – continuò Arthur, staccandosi da lei – sfrutta bene il periodo di addestramento che avrai a Capitol per capire qual è l'arma migliore per te.
Già, l'arma. Jennifer aveva sempre pensato che se fosse stata sorteggiata per gli Hunger Games sarebbe morta, in quanto non sarebbe riuscita ad uccidere nessuno. Ma ora, una consapevolezza ed una convinzione si stavano facendo largo in lei: voleva tornare a casa, voleva vivere, ma per farlo avrebbe dovuto macchiarsi le mani di chissà quanti omicidi. E l'avrebbe fatto, ora ne era certa.
I suoi genitori vennero richiamati dal Pacificatore che li fece uscire dalla stanza in modo poco gentile, lasciandola temporaneamente sola con i suoi pensieri. Ma dopo pochi minuti la porta si aprì di nuovo e Joanne entrò disperata.
- E' colpa mia! E' colpa mia! - esclamò, gettandole le braccia al collo e iniziando a piangere – Se mi fossi allenata tu non avresti dovuto offrirti al mio posto! Perché sono così debole!?!
Jennifer lasciò che l'amica si sfogasse, e quando sentì che i singhiozzi si stavano affievolendo, iniziò a parlare: - Ascoltami: non essere stupida, io mi sono offerta perché non voglio che tu muoia, e l'avrei fatto in ogni caso, credimi.
Forse non era vero: se Joanne si fosse allenata almeno un minimo, forse Jennifer non si sarebbe offerta al suo posto. Ma con i se e con i ma la storia non si fa.
- Per cui – riprese Jennifer – non voglio che tu ti senta in colpa, hai capito?
Joanne la guardò, pronta a ribattere.
- Ehi! Ti ho detto niente sensi di colpa! - le sorrise Jennifer, anticipando la frase dell'amica – Io tornerò a casa, per cui non avrai neanche tempo di sentirti male, te lo prometto.
- Stai attenta – sussurrò solamente l'altra, abbracciandola di nuovo e sperando con tutto il cuore che quel gesto non diventasse un addio.
 


Lysandre si sistemò meglio al collo la sua sciarpa color turchese intenso e la strinse forte con la mano: doveva ammetterlo, era nervoso e Sciarpi era l'unica che potesse dargli conforto. Sì, Sciarpi, la sua fedele sciarpa, quella che aveva tessuto da solo anni prima, la sua prima creazione; ci era così affezionato ed era così orgoglioso di lei che le aveva dato anche un nome, Sciarpi appunto.
Il ragazzo sospirò e si sedette sul comodo divano, aspettando che il tempo delle visite trascorresse: non si aspettava che nessuno lo andasse a trovare; di amici ne aveva pochi, o nessuno, e quasi tutti suoi amanti occasionali; di amiche invece ne aveva, ma sospettava che fossero attirate dalla sua compagnia più per consigli che per altro: in fondo era il loro amico gay. Non aveva famiglia. Perché Lysandre aveva smesso di considerare suo padre come tale anni addietro, quando dopo molte vicissitudini e litigi, gli aveva rivelato di non essere come lui voleva e per premio era stato cacciato di casa. Lysandre ricordava ancora il suo sguardo traboccante di odio e disgusto, mentre gli urlava di non farsi più vedere...
La porta si aprì e al ragazzo venne un mezzo infarto, immerso com'era nei suoi pensieri; senza che avesse modo di capire chi o come, delle braccia lo circondarono e la sua maglietta iniziò ad inumidirsi.
- Ehi Franny occhio alla maglia! Deve durarmi anche per il viaggio in treno! - esclamò lui sorridendo, avendo riconosciuto la donna.
E poi riuscì a capire chi era venuto a trovarlo. Erano addirittura in quattro: quella che gli si era buttata addosso era Franny, una donna trentenne, che Lysandre riteneva un po' matta e con il ciclo perenne, in quanto aveva costanti sbalzi d'umore, comportamento che gliel'aveva subito fatta piacere; la seconda era Syria, anch'ella sulla trentina, che ospitava spesso Lysandre per la notte e lo considerava quasi come un figlio; la terza si chiamava Haleandra, sua coetanea, ed era una delle poche che lo apprezzasse per tutti i lati del suo carattere – buoni o cattivi – e che lo tenesse in riga quando strafaceva. E poi c'era lei.
- Alzati da lì, sembri un depresso dopo una sbornia.
Jennyfer andò a grandi passi verso la finestra, la aprì e si accese una sigaretta – ovviamente non era permessa, ma dettagli.
- Sì, anche tu mi mancherai Jen – ghignò Lysandre; Jennyfer era quella che preferiva senz'altro: insomma, la prostituta e il gay. Senza dubbio erano una bella accoppiata – A proposito, hai notato la coincidenza? Ti chiami come la mia compagna per gli Hunger Games. Ti giuro che quando l'hanno chiamata mi sono cagato sotto per paura di vedere te! - rise lui – Ma poi ho ricordato che sei troppo vecchia per partecipare...
- Sta' zitto – tagliò lei, fumando nervosamente – Primo, non sono vecchia, sei tu che sei ancora in fasce; secondo, togliti dalla testa di morire in quella fottuta arena, te lo vieto: devi tornare, alla faccia di quella Capitol City del...!
- Sì, ok, abbiamo capito – la interruppe Haleandra, cercando di frenare la marea di ingiurie che stava per inondare la stanza – Lys, mi raccomando, non fare stupidaggini.
- Non le farà – disse Syria, avvicinandosi affettuosamente a Lysandre e accarezzandogli i capelli – sei intelligente e sveglio...
- E soprattutto figo – continuò Franny asciugandosi il viso con una manica del vestito – li conquisterai tutti.
Lysandre sorrise a quegli incoraggiamenti: non pensava che ci potessero essere persone che tenessero così tanto a lui.
- Sì, sì, sì, ha le carte in regola per farcela e bla bla bla – si intromise Jennyfer, buttando il mozzicone di sigaretta fuori dalla finestra – ma di 24 che hanno il potenziale per farcela, ne torna vivo solo uno e giuro su Dio, se non sarai tu ti verrò a menare anche all'inferno!
- Non giurare su Dio se devi venirmi a cercare all'inferno – disse sorridendo Lysandre alzandosi – potrebbe essere una cosa blasfema.
- E' una cosa blasfema – commentò Jennyfer – ma quando mai sono stata una brava cristiana? - e rise.
Lysandre si lasciò contagiare da quella risata, e con lui anche le altre tre. Mai un saluto per gli Hunger Games era stato così ilare, ma Lysandre non poteva che esserne felice: non aveva bisogno di una famiglia quando aveva quattro amiche così, e vincere i Giochi della Fame gli sembrava un'impresa tutt'altro che impossibile in quel momento.
 



Distretto 9: Karmilla e Benjamin


Karmilla prese la piccola fiaschetta che teneva sempre al collo legata ad un cordino e bevve un generoso sorso di vodka. Sì, andava decisamente meglio.
- L'ho sempre detto, l'alcool è il rimedio migliore ai guai della vita.
Priska apparve all'improvviso dietro a Karmilla con un boccale di birra in mano, e imitò la ragazza trangugiandone metà.
- E io ti ho sempre dato retta – rispose l'altra – Ma pensi che nell'arena mi lasceranno bere?
Priska rise: - Non penso, in caso ti offrirò qualcosa io al momento giusto.
- La mia era un'affermazione ironica e una domanda indiretta per chiederti se avevi qualche consiglio da darmi.
- I-io ho q-qualcosa da d-dirti... ma probabilmente n-non ti servirà...
La voce di Anthony raggiunse flebile le orecchie di Karmilla che si girò: il diplomatico era apparso sulla poltrona e come al solito si stringeva le ginocchia con le braccia, dondolandosi sul posto.
- Avanti, sputa il rospo – gli disse lei.
Anthony alzò lo sguardo da cane bastonato: - A parer mio, n-non dovresti dar a v-vedere questo t-tuo comportamento... R-rischi di spaventare gli s-sponsor – balbettò lui.
- Oh andiamo Tony! - esclamò Priska – Fatti un goccio, offro io, ma togliti quell'espressione da pesce lesso dalla faccia!
- Aspetta Priska – iniziò Karmilla, bloccandola con un cenno della mano – stava dicendo qualcosa di interessante.
Anthony finì di traballare e il suo viso si illuminò: - D-davvero pensi che siano c-cose u-utili? - chiese. Se fosse stato un cane starebbe scodinzolando.
- Ma certo che lei pensa che siano cose utili! - Ermengarda apparve, nel suo pomposo vestito settecentesco, brutalmente strappato in due parti all'altezza dell'addome – Caro, non dovresti minimizzarti sempre così tanto!
- Stai parlando con un suicida depresso, dovresti ricordartelo, genio – commentò sarcastica Priska, bevendo un sorso di birra – Non mi pare molto intelligente nel dare consigli.
- Ha parlato quella che è annegata in un abbeveratoio per animali dopo essere svenuta per il troppo bere – le rispose a tono e irritata Ermengarda.
- Almeno io non sono una sfigata che si è fatta tranciare in due da una carrozza – sorrise ironica Priska.
- E piantatela! - Karmilla si era stufata di quei battibecchi, ma non poté fare a meno di nascondere un sorriso dietro all'irritazione; le piaceva troppo vedere quelle due che si sbranavano ad insulti – Se avete qualcosa da dirmi bene, se no potete anche sparire!
- E rilassati Karm! - Cola comparve sull'enorme lampadario della stanza.
- Già, in fondo stai solo andando a morire! - sghignazzò Coca, vicino al gemello, iniziando a dondolarsi appeso al lampadario.
- Ehi, voi due! È un lampadario costoso! - li rimproverò Ermengarda.
- Già, molto costoso – Karmilla assunse un'aria più attenta – e... e assolutamente sporco!
La ragazza prese dalla tasca della divisa da cameriera uno straccio, agguantò una sedia, vi salì sopra e iniziò a spolverare meticolosamente il lampadario imprecando: - Guarda te... Sporco, sporco! Sporcizia dappertutto! - esclamò iniziando a guardarsi intorno – Esseri immondi che pensano sia tutto un porcile! Appena tornerò li metterò in riga!
- Se tornerai! - dissero in coro ridendo Coca e Cola, appollaiati sopra ad un mobile – Chi lo sa, potresti anche venire a farci compagnia!
- Ma certo che tornerà! - esclamò fiduciosa Ermengarda.
- Io h-ho i miei d-dubbi... - commentò a bassa voce Anthony – S-seguirà il mio c-consiglio e si farà a-ammazzare s-subito... - e riprese a dondolare.
- Una cosa è certa – iniziò Priska – Ora non si fermerà fin quando non avrà pulito ogni traccia di polvere in questa stanza... Chiamatemi quando avrà terminato – e si stravaccò sul divano.
Dopo un'ora buona un Pacificatore andò ad avvertire Karmilla che era arrivato il momento di salire sul treno. Appena entrò nella stanza sgranò gli occhi nel vedere la lucentezza degli oggetti presenti: mai erano stati così puliti.
Riavutosi dalla sorpresa, notò Karmilla seduta sul divano con una mano alzata, intenta a dare colpetti... al niente??
- Nessuno è venuto a salutarti – le disse ghignando – devi essere veramente sola.
- ...Quindi stai tranquillo Anthony, e non deprimerti ancora, che non puoi morire una seconda volta.
- Ehi ragazzina! Parlo con te!
Karmilla alzò la testa stizzita: - Quanta maleducazione c'è in questo distretto! - si alzò in piedi – E comunque sei un'idiota, mi sono venute a trovare più essenze di quante credi – e scomparve oltre la porta, lasciando il Pacificatore interdetto.
L'uomo era nuovo del distretto e non sapeva che Karmilla sosteneva di vedere spiriti e fantasmi, e di parlarci pure!
- Che dite, ce la farà? - chiese preoccupata Ermengarda.
- E' Karmilla Loshad – iniziò Priska, mezza ubriaca – E' un'imprevedibile garanzia.
 


Benjamin si passò una mano sul braccio sinistro, accarezzando le innumerevoli cicatrici che si era fatto lavorando nei campi, e sospirò guardando fuori dalla finestra: oramai era in gioco, e doveva giocare, facendo vedere a tutti quello che valeva. E il perché si fosse cacciato da solo in quel “guaio”, gli trapassò la testa come una scossa; Benjamin aveva sempre saputo di essere un ragazzo complicato e spesso privo di buon senso, e l'istinto che alla Mietitura gli aveva fatto alzare la mano ne era un esempio. Ma probabilmente molti avrebbero pensato che avesse l'animo da Favorito, perché lui si era accorto di essersi offerto per una cosa soltanto: la gloria. Nei Distretti 1, 2 e 4, questa motivazione era apprezzatissima da tutti, anzi, diciamo che era la normalità; nei distretti inferiori invece era considerata il biglietto di sola andata per il non-ritorno. E infatti le domande che i suoi genitori gli rivolsero dopo essere entrati nella stanza, furono riguardo a questo.
- Benjamin, perché? Perché?! - gli chiese il padre, non capacitandosi ancora dell'azione del figlio.
- Voglio mettermi alla prova – rispose semplicemente il ragazzo. Un lato del suo carattere ben definito era che diceva sempre la pura e semplice verità – Voglio scendere nell'arena e dimostrare il mio valore.
- Ma morirai! - gli rispose l'uomo.
- No. - la voce della madre arrivò sicura; era sempre stata una donna forte, anche se in quell'occasione aveva molta più difficoltà a mantenere il proprio autocontrollo – Lui potrebbe morire, ma non succederà, vero?
Benjamin scosse la testa: - Assolutamente no.
E dal suo sguardo, la madre capì che poteva fidarsi di lui.
Quando i genitori se ne furono andati, entrò la sua migliore amica, Alicia: - Ti rendi conto di quello che hai fatto? - gli chiese seria. La ragazza lo conosceva bene, ed era abituata al suo carattere, ma non avrebbe mai pensato che potesse arrivare a tanto.
- Mi pare ovvio – rispose lui.
Alicia scosse la testa: no, non poteva sperare di concludere qualcosa con quel discorso, anche perché ormai il danno era fatto.
- Tieni – e gli lanciò qualcosa.
Benjamin, dopo averlo preso al volo, osservò l'oggetto: era una catenina d'argento con un ciondolo a forma di foglia, che risplendeva alla luce.
- Ti porterà fortuna – spiegò Alicia – perché ti rappresenta: una foglia che sembra debole, ma nello stesso tempo ha la forza di sopravvivere alle tempeste, saldamente ancorata al suo albero – gli andò vicino e lo abbracciò – Ricordati sempre da dove vieni, e il tuo albero ti sosterrà anche da lontano.
 



Distretto 10: Victoria e Dennis


Victoria osservava i pascoli che si estendevano nel suo Distretto: per loro non era cambiato niente da quella mattina, semplicemente stava passando un'altra giornata. Ma per lei tutto era diverso. Si era offerta volontaria. Era uno dei tributi degli Hunger Games di quell'anno. Ma non si era pentita: si era offerta per salvare sua sorella da una certa orribile fine; consapevole del peso del suo gesto, se avesse potuto tornare indietro nel tempo, l'avrebbe rifatto, è sicuro.
La porta si aprì e si richiuse di botto e Frida quasi si gettò sulla sorellina, stringendola in una salda presa: - Perché cazzo l'hai fatto?! - disse, la voce rotta dai singhiozzi che continuavano a salirle alla gola.
Victoria ricambiò l'abbraccio senza far trapelare emozioni negative: le si stringeva il cuore nel vedere la sua amata sorella il quello stato, ma aveva deciso di far vedere che era forte, e doveva iniziare da subito; e poi sperava che il vederla tranquilla avrebbe giovato anche a Frida.
- Tieni.
Frida si era allontanata quel tanto che bastava per appuntare qualcosa al vestito di Victoria. La bambina la osservò: era una spilla a forma di margherita.
- Sei tu – spiegò Frida, asciugandosi le lacrime con la mano – semplice, ma forte e bellissima, la margherita non può che rappresentarti – e la abbracciò di nuovo.
- Frida, sai che ce la posso fare – iniziò Victoria dopo un attimo di silenzio, controllando le alterazioni nella voce – mi sono allenata, mi sono preparata, tornerò a casa.
- Tempo – avvertì un pacificatore.
Prima di vederla sparire oltre la soglia, Victoria strinse forte la sorella e una singola e luminosa lacrima accompagnò quel gesto, andando a bagnare la spalla di Frida, che se avesse potuto, non l'avrebbe mai lasciata andare: - Arrivederci, sorellina – le sussurrò prima di uscire.
Dopo Frida, entrarono Edgar e Grace, i loro genitori.
- Oh Victoria! - disse la madre abbracciandola. Non era mai stata molto presente per le figlie, e ora che una di loro stava per lasciarle – forse per sempre – le aveva fatto pentire di non aver passato più tempo con loro.
Il sindaco si unì all'abbraccio famigliare, commosso. Entrambi i suoi genitori le fecero piovere addosso una caterva di domande, ovviamente retoriche, perché le risposte erano conosciute da tutti, e poi iniziarono ad abbracciarla e baciarla, augurandole buona fortuna e facendole promettere di tornare. Victoria li rassicurò sorridendo, dicendo loro che non li avrebbe delusi e sarebbe tornata viva, ma questa volta fu ben attenta a controllare le lacrime.
- C'è qualcun altro per te – disse Edgar alla figlia – guarda fuori dalla finestra.
Victoria si avvicinò alla finestra e scrutò oltre.
- Ehi Victoria! - un suo compagno di scuola, assieme ad altri suoi amici, stava aspettando fuori dal Palazzo di Giustizia – Saremmo venuti dentro, ma non ci lasciano entrare con lei!
Da dietro un angolo, un ragazzo suo compagno avanzò tenendo una corda dietro di sé...
- Shira! - esclamò Victoria stupefatta.
La sua stupenda cavalla bianca a chiazze nere, come avesse sentito il richiamo della padrona, alzò la testa e nitrì nella sua direzione.
- Anche lei ti augura buona fortuna! - esclamò un suo amico – E vedi di tornare, intesi?
Victoria per poco non si commosse.
Frida. I suoi genitori. I suoi amici. Shira. Tutti facevano il tifo per lei, e lei non li avrebbe delusi.
 


Dennis si passò la mano fra i biondi capelli, tic che aveva sempre avuto; iniziava a realizzare quello che voleva dire “essere un tributo” agli Hunger Games: era un po' come essere la carne da macello che loro stessi producevano e mandavano a Capitol. Almeno, gli altri del Distretto lo facevano, lui non aveva mai dovuto lavorare poiché i suoi genitori erano farmacisti e avevano accumulato una certa ricchezza che gli aveva permesso di vivere - per non dire lusso - nell'agiatezza.
E come evocati dai suoi pensieri, Geraldine e Alfred entrarono nella sala e si tuffarono letteralmente addosso al loro unico figlio.
- Dennis! Ce la farai, io so che ce la farai! – esclamò piangendo sua madre abbracciandolo.
Il padre si contenne di più, ma si poteva vedere lontano un miglio che era sull'orlo delle lacrime: - Siamo sempre stati orgogliosi di te, Dennis.
- E continuerete ad esserlo – sorrise rassicurante il ragazzo – Non preoccupatevi, tornerò sicuramente.
Il resto del tempo i genitori continuarono ad inondarlo di frasi, parole, speranze e preoccupazioni che probabilmente quella stanza era stufa di sentire; ogni anno la stessa cosa.
I due coniugi uscirono, e Dennis rimase da solo, fino a quando non sentì una voce che ben conosceva: - Ehi stronzo!
Il ragazzo si stampò in faccia un ghigno soddisfatto, avendo riconosciuto la voce del suo migliore amico, nonché vicecapo della sua banda, Walter. Insieme a lui, alcuni membri della gang.
- Vedi di tornare intero eh! - disse andandogli vicino e salutandolo colpendogli il pugno chiuso con il suo – Se no per fare la tua bara dovranno abbattere un povero albero, e noi essendo naturalisti non vogliamo questo, vero?
Dennis rise sarcastico: - No di certo! Ma vedi di non fare casini adesso che sono via! Quando tornerò, voglio trovare ancora tutti i membri della banda, cerca di non ammazzarne nessuno.
- Sarà difficile, ma farò uno sforzo – rispose l'altro con lo stesso tono.
- Io invece scommetto che non riuscirà ad arrivare fra gli ultimi dodici – disse uno degli altri ragazzi.
- No, io ribatto, arriverà fra i primi dieci, sicuro – replicò un altro.
E partì un giro di scommesse macabre sulla posizione in cui si sarebbe piazzato Dennis.
- Bastardi, perderete tutti dato che vincerò – replicò lui – ma potete scommettere sul numero di ragazze che mi farò – continuò ghignando.
- Su questo sono sicuro – iniziò Walter – te le farai tutte e dodici, a meno che non ci sia proprio qualche cesso inguardabile...
Dennis si lasciò andare in una risata quasi genuina; era con quei ragazzi, la sua banda, che aveva trascorso le sue giornate: agli occhi del Distretto, tutti loro erano violenti, criminali, sempre pronti a buttarsi in risse, ma per lui erano tutto, una seconda famiglia.
Dennis si convinse ancora di più a tornare e pregustò il momento in cui tutti avrebbero perso la loro scommessa e lui sarebbe diventato ancora più ricco.
 



Distretto 11: Esmeralda e Marcus


Il Palazzo di Giustizia si trovava dietro al palco adibito alle Mietiture, per cui il suo amato pesco era visibile anche dalla finestra della stanza in cui si trovava. Esmeralda continuava a guardarlo, per imprimerlo bene nella sua mente: aveva paura che appena fosse entrata nell'arena, avrebbe perso tutto quello che di più caro aveva, non solo materialmente, ma anche mentalmente; aveva paura che i ricordi sfumassero fino a scomparire. Perché era risaputo: l'arena trasformava le persone ed eliminava tutto ciò che di buono c'era in esse. E se così non succedeva, eri morto. Non c'erano alternative a quest'ipotesi, perché vincere gli Hunger Games mantenendo se stessi era qualcosa che nel profondo tutti ritenevano impossibile.
I primi a farle visita furono ovviamente i suoi genitori e accanto a loro, il suo amato cuginetto. I quattro si strinsero in un tenero ma forte abbraccio e sua madre iniziò a piangere dicendole che era stata un'incosciente, che non lo doveva fare.
- Io ti capisco – disse suo padre dopo che la madre si fu un momento calmata – so quanto tieni a Shila e ti conosco troppo bene per aver dubitato che ti saresti offerta al posto suo.
- Non odiate Shila, vi prego – supplicò Esmeralda, terrorizzata da quell'idea.
Suo padre scosse la testa e fece un breve sorriso, gli occhi lucidi a causa delle lacrime: - Stai tranquilla, sarà sempre la benvenuta, e saremo tutti insieme quando tornerai da questi crudeli giochi.
- Sì, perché tornerai, vero? - chiese retoricamente sua madre, prima di lasciarsi sfuggire un altro singhiozzo.
Esmeralda annuì, cercando di sembrare convinta.
Intanto Patrik le si era avvinghiato alle gambe e non la voleva lasciar andare: era troppo piccolo per capire appieno quello che stava succedendo, ma aveva già vissuto esperienze tali da intuire che ciò che stava accadendo alla cugina era qualcosa di brutto.
- Torna – disse semplicemente.
Esmeralda gli accarezzò la testa; Patrik aveva già perso i genitori a causa delle frustate mortali dei Pacificatori: non avrebbe permesso che un altro membro della famiglia gli fosse portato via.
Quasi subito dopo che i suoi genitori e il cuginetto ebbero lasciato la stanza, entrò Shila.
Le due si guardarono in silenzio per lunghi secondi, forse minuti, e poi lentamente Shila si avvicinò all'amica e la abbracciò, trasmettendole tutto l'affetto che poteva: - Grazie – le sussurrò all'orecchio.
Sapeva che Esmeralda non voleva sentirsi dire frasi del tipo “Non avresti dovuto farlo”, “Per colpa mia morirai!” e altre d'occasione, perché sicuramente, avesse potuto tornare indietro l'avrebbe rifatto. Per cui fece quello che era meglio per entrambe, cioè stare in silenzio e piangere mute lacrime sulla sua spalla.
Esmeralda ricambiò l'abbraccio: - Non serve che tu me lo chieda: tornerò sicuramente. Ti affido il compito di non far abbattere il mio pesco – concluse, abbozzando un sorriso.
Shila si asciugò velocemente le lacrime e annuì convinta, cercando a sua volta di far comparire un sorriso sul volto: - Le promesse sei solita mantenerle.
- E questa volta non sarò da meno – finì la frase Esmeralda.
E mai fu più convinta nella sua vita.
 


Marcus stava pensando al cantiere abbandonato: sì, in quel momento sfogarsi contro qualcuno in un incontro di pugilato sarebbe stato veramente l'ideale per scaricare tutta la tensione che aveva accumulato dentro. Anche combattere contro un novellino sarebbe stato stimolante in quel frangente.
La porta si aprì e sua madre e suoi dure fratelli minori fecero il loro ingresso nella stanza; Alicia gli andò in contro e lo abbracciò: - Marcus... - non aveva neanche il fiato per concludere la frase, perché rumorosi singhiozzi le impegnarono i polmoni.
- Mamma devi essere forte – le disse Marcus con un tono caldo e rassicurante, prendendola per le spalle e obbligandola a guardarlo in faccia – non ci sarò più a difendervi, non potrò proteggervi – e il suo tono assunse una nota d'angoscia – per cui dovrai farcela con le tue forze... Ma non preoccuparti, ci sarà Ryan.
E Marcus si piegò sulle ginocchia per raggiungere l'altezza del suo fratellino di dieci anni: - Ehi, non piangere – gli disse con finta aria di rimprovero ma sorridendogli – oramai sei un ometto, devi essere forte per tutta la famiglia e sostenere la mamma e Layla finché non tornerò, va bene?
Ryan tirò su con il naso per eliminare la sofferenza dal suo volto e far capire al fratello che era pronto: - Va bene... perché tu tornerai, vero?
Marcus annuì: - Mi sembra ovvio – rispose sicuro di sé – lo sai che sono forte, ce la farò senz'altro.
Layla, di appena sei anni, si avvinghiò al suo collo: - Non andartene fratellone! - esclamò con le lacrime agli occhi.
Il ragazzo la strinse assieme a Ryan: - Tornerò presto, ve lo prometto.
- Tempo scaduto – comunicò un Pacificatore, invitando poco gentilmente la famiglia ad uscire.
Marcus osservò i suoi famigliare andare via, e non ebbe quasi il tempo di pensare ad altro che sulla soglia comparve lui; il suo viso si indurì di colpo.
Evan era sulla soglia, incerto su cosa fare o dire.
- Sei venuto ad augurarmi buona fortuna? O forse... buona sfortuna? - chiese ironico.
Suo padre si mise una mano dietro la nuca e guardò un punto fisso sul pavimento; Marcus lo odiava: era sempre stato un uomo violento e manesco, picchiava spesso e volentieri la moglie ed era stato lui a procurargli quella cicatrice che aveva in fronte.
- Adesso avrai campo libero – riprese Marcus – ma se oserai fare qualsiasi cosa a uno di loro... Ti verrò a uccidere anche dalla tomba – ringhiò.
- Ti domando scusa.
Marcus rimase interdetto a quelle parole: - … Come?
- Sono stato un pessimo padre... e marito... Me ne accorgo solo ora – Evan parlava a voce tanto bassa da essere quasi impercettibile – E so che è tardi per dirti che sei sempre stato importante per me, e che sono fiero di te... Non mi perdonerai, lo so, ma spero ci riuscirai una volta che sarai tornato – e fece una pausa – Perché tu tornerai, me lo sento nel sangue. Buona fortuna Marcus.
Ed Evan uscì dalla stanza, senza dare la possibilità al figlio di dire niente.
Marcus non ebbe il tempo di realizzare appieno quel discorso che il suo cuore prese a battere ad un ritmo più veloce del normale: Leonora entrò nella stanza e gli si avvicinò sorridendo: - Ehi, falli secchi tutti nell'arena, d'accordo?
- Certo, e quando avrò finito, non riusciranno neanche a riconoscerli!
Nessuno dei due fece caso alla frase macabra che era uscita fuori involontaria dalla bocca di Marcus, perché entrambi sapevano che forse quello sarebbe stato il loro ultimo incontro, ma nessuno dei due ci credeva veramente: erano sempre stati abituati a sostenersi a vicenda e l'avrebbero continuato a fare nonostante la lontananza. O per lo meno, lo avrebbe fatto sicuramente Leonora.
- Tempo! - chiamò l'odioso Pacificatore.
Leonora sospirò: - Allora ci vediamo presto?
Marcus annuì convinto e la vide voltare le spalle e fare per uscire...
… Ma la ragazza si bloccò e si voltò di scatto, per poi tornare vicino al giovane e premere le proprie labbra sulle sue. Il cuore di Marcus perse un colpo, per poi iniziare a battere all'impazzata, mentre i due si scambiavano un primo, passionale bacio.
- Questo – disse Leonora, leggermente rossa in viso, dopo essersi staccata – ti farà sempre ricordare di me.
E prima di andarsene, gli lasciò un altro breve bacio a stampo.
Josh e Liam, i due amici di infanzia del ragazzo, si accorsero subito dello strano atteggiamento che aveva Marcus, quando entrarono per salutarlo: - Ehi, sei con noi? - disse Josh, passandogli una mano davanti agli occhi.
Marcus si riprese: - Eh? Sì, sì, ci sono!
Liam soffocò una risata: - L'effetto-Leonora è sempre presente vedo.
Il giovane si arrabbiò imbarazzato e replicò alle battute maliziose dei suoi due amici.
- Quindi... - iniziò Josh, dopo un attimo di silenzio – Sei un tributo, eh?
- Parrebbe di sì.
- Ma questo non ti permette di tirartela – riprese Liam – mi raccomando, ti vogliamo qui di nuovo come ti abbiamo lasciato.
- Su questo potete esserne sicuri! - esclamò lui sorridendo rassicurante – E io invece voglio ancora trovare il Distretto al mio ritorno, vi prego di non bruciarlo!
Liam e Josh risero e cercarono di nascondere la tristezza che li stava assalendo dentro. D'altra parte, anche Marcus in tutto quel tempo aveva cercato di dimostrare la sua forza e la sua certezza riguardo al suo ritorno da vivo, e aveva finito per auto-convincersi.
 



Distretto 12: Talia e Wayne

 
Talia osservava alcuni piccoli uccellini volare liberi nell'aria: in fondo era primavera e ognuno di loro stava andando in cerca del compagno o della compagna con la quale condividere il nido; anche lei avrebbe voluto essere come quei volatili e scappare via da lì. Ad un tratto dei grossi corvi neri piombarono sui graziosi uccellini, gracchiando, con gli artigli affilati pronti a ghermire le prede: alcuni dei piccoli volatili vennero presi e uccisi all'istante e gli altri si dispersero velocemente, inseguiti dai loro aguzzini.
Talia venne scossa da quella visione: non era stato assolutamente un buon presagio.
La porta si aprì ed entrarono i suoi genitori con la piccola sorellina di cinque anni, che andò subito ad abbracciarla; Daisy piangeva molto forte e continuava a pregare la sorella di non andare: i suoi genitori avevano ritenuto giusto dirle che forse Talia non sarebbe più tornata, che forse quella era l'ultima volta in cui si sarebbero viste.
- Sssssh, non piangere – le disse dolcemente Talia accarezzandole la testa – vedrai che tornerò presto.
La madre prese Daisy in braccio e con la mano libera accarezzò la guancia della figlia, mentre grosse lacrime le scendevano sulle guance: - Io ho fiducia in te; tu puoi vincere, perché sei speciale.
E quella non era una parola detta per l'occasione, e Talia ne colse la sfumatura. Avrebbe utilizzato il suo formidabile intuito e sesto senso, lo stesso che le aveva permesso di trovare suo padre che si era perso nella miniera, anni addietro.
Il padre annuì alle parole della moglie, gli occhi lucidi dalla tristezza: - Sì, Talia tu tornerai, anch'io ne sono certo. Stai attenta all'arena, non lasciare che ti cambi.
E la famiglia si strinse in un lungo e commosso abbraccio, prima che il Pacificatore di turno annunciasse loro che il tempo era scaduto.
Dopo i suoi parenti, nella stanza entrò la sua migliore amica; Dawn le andò incontro e la abbracciò forte: - Era questo – disse fra le lacrime – era questo che intendevi quando mi hai detto di non preoccuparmi! Oh Talia! Se l'avessi saputo prima...
- Se l'avessi saputo prima, ti saresti lasciata andare alla disperazione troppo presto – le rispose sorridendo Talia, accarezzandole i capelli neri – ti conosco, non avresti vissuto normalmente il periodo che ci separava dalla Mietitura.
Dawn si scostò dall'abbraccio per guardare la sua amica negli occhi: - Ma tu... tu tornerai, vero? - le chiese, pregando per una risposta affermativa che le trasmettesse sicurezza.
Talia però non poteva dirlo con certezza, non dopo che quei corvi avevano brutalmente interrotto il volo libero degli uccellini: - … Sì, tornerò, stanne certa.
E guardando fuori dalla finestra, vide poggiati sul davanzale due dei piccoli piumati animali che si stringevano l'uno all'altro, trasmettendo un senso di tenerezza a chiunque li guardasse: era quello il segno che lei aspettava, un segno di speranza, perché anche dopo una battaglia senza esclusione di colpi, c'era sempre spazio per nuova vita.
Sarebbe partita, sarebbe sopravvissuta all'aggressione dei grandi corvi e sarebbe ritornata al nido illesa.
 


Tiger aveva già percorso l'intera lunghezza della stanza almeno una decina di volte – non era un tipo paziente, no – in attesa che quei perditempo dei Pacificatori permettessero alle visite di incominciare. Il ragazzo imprecò mentalmente contro quei guardiani così idioti, per poi ricordarsi che anche suo padre era uno di loro... ma per il genitore, lui probabilmente non era nessuno. Anzi, togliamo il probabilmente. Larrie Tiger aveva sempre straveduto per suo fratello Fred, considerandolo il suo unico erede, o comunque dedicava molte più attenzioni al membro più piccolo, Valentine. Sembrava che di Wayne non gli importasse proprio niente e il ragazzo si era sempre chiesto il perché di questo atteggiamento.
Perso nei suoi pensieri, Tiger non si era accorto della marea di gente che era entrata tutta insieme nella stanza, e che ora lo attorniava quasi soffocandolo.
- Ehi, non respiro! - esclamò, cercando di spostare di forza la sua famiglia da lui e creare uno spazio vivibile.
- Se è per questo fra pochi giorni non respirerai proprio più – commentò Charlotte acida. Lei e Tiger non erano mai andati d'accordo, anzi, si può dire pure che si detestassero – Ma ti rendi conto di cos'hai fatto? Sei idiota in testa allora!
- Avrò preso da te allora – ghignò lui di rimando – dato che il tuo quoziente intellettivo è inferiore alla media.
- Così non andrai proprio da nessuna parte, lo sai vero? Ci penseranno gli sponsor a segarti, non mandandoti niente – quasi sputò lei.
- Charlotte ha quasi ragione – si intromise Fred cercando di sedare la lite – dovrai essere più amichevole e meno volgare quando sarai a Capitol... Comunque – e alzò una mano verso di lui sorridendo – complimenti per il fegato, anche se non so se sia più coraggio o incoscienza.
Tiger gli batté il cinque e sorrise soddisfatto: con Fred al contrario era sempre andato molto d'accordo; il loro era un rapporto di sfida continua, basato poi sul rispetto per il vincitore delle scommesse più assurde e strane. Ed era proprio una scommessa con lui ad averlo portato a proporsi come tributo, per cui Fred non poteva che ammirarlo.
- Fratello, vedi di darti da fare nell'arena, eh! - riprese Fred – Non vogliamo fare brutte figure.
- Concordo – si intromise Larrie, che fino a quel momento era rimasto in silenzio – se vincerai, almeno renderai la tua esistenza utile a qualcosa.
Tiger incassò l'ennesimo colpo che il padre gli aveva inferto, ma iniziò a considerare gli Hunger Games anche come una possibilità di farsi vedere sotto una nuova luce agli occhi del padre.
- Papà, non dire così – iniziò Valentine, il quindicenne – Wayne è sempre stato utile a tutti noi...
- Tsè! Utile come un arco senza frecce – commentò Charlotte aspra.
Valentine fece finta di non sentirla e abbracciò il fratello: - La mamma non è riuscita a venire, ma sia io che lei crediamo in te e sappiamo che ce la puoi fare!
Tiger si lasciò abbracciare: Valentine era l'unico, oltre alla madre, a volergli veramente bene in famiglia, e nei suoi confronti il ragazzo aveva sempre dimostrato un atteggiamento molto protettivo; inoltre, aveva anche riflettuto sul fatto che offrendosi aveva eliminato una possibilità a Valentine di essere estratto, perché era sicuro che il fratellino non sarebbe durato nell'arena.
- Ehi Tigre, hai finito con le smancerie da femminuccia?!
Tiger sorrise alzando lo sguardo; sulla porta era comparso River, il suo migliore amico. Ma parlare semplicemente di amico era riduttivo: River era un compagno, un fratello, un alleato, un rivale; insieme comandavano una gang di teppisti. Erano il Leone e la Tigre del distretto, e tutti li rispettavano e li temevano.
- Sto semplicemente cercando di entrare nello spirito dell'arena, razza di coglione – gli rispose Tiger per le rime, ma senza togliersi dalla faccia il suo sfrontato sorriso – Mi dicono che dovrò rinunciare alle volgarità.
- Balle – replicò l'altro avvicinandosi – dovrai sempre essere te stesso in quel posto, gli spettatori lo apprezzeranno fidati... E comunque il più coglione fra noi due sei tu, razza di idiota, che ti offri per gli Hunger Games senza dirmi niente!
- Era tutto per l'effetto sorpresa, volevo vedere la tua faccia da fesso nel momento topico.
- Sei soddisfatto ora? - chiese River ghignando.
- Direi di sì – rispose l'altro con la stessa espressione – Ah, vedi di non farti ammazzare in mia assenza.
- Lo stesso vale per te.
- Tempo – chiamò il Pacificatore.
Tiger guardò uno ad uno i volti di coloro che erano venuti a trovarlo. L'arena non gli faceva paura, ma molte cose gli sarebbero mancate. La continua sfida con Fred. La dolcezza di Valentine. L'amore di sua madre Krista, a casa perché troppo sofferente per salutarlo. La strafottenza di River. Persino quell'oca di sua sorella Charlotte gli sarebbe mancata, almeno un pochino, giusto perché si divertiva a cercare sempre nuovi soprannomi offensivi per lei. Per ultimo si soffermò sul padre: non poteva dire di odiarlo, ma forse era giunto il momento di guadagnarsi il suo rispetto, e quale modo migliore se non di vincere i Giochi della Fame?









NDA di darky e Keily:
NON UCCIDETECI! Ci siamo impegnate, e avete bisogno di scrittrici in salute per continuare, no?
*schiva pomodori* okay, se qualcosa non andasse bene, avvertiteci senza problemi^^ Speriamo che il capitolo vi piaccia!
Scusate il ritardo e l’eventuale schifosità della scrittura.
Ciao! <3
  
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