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Autore: Yoko Hogawa    30/03/2013    22 recensioni
In un mondo in cui le persone nascono con il nome della propria Anima Gemella "tatuato" sul dito anulare della mano sinistra, John e Sherlock vivono due situazioni particolari ed opposte. Mentre il primo è costretto a nascondere il proprio nome per non essere discriminato, il secondo ne è totalmente privo.
In modi diversi, entrambi crederanno di essere destinati a rimanere soli.
Finché non si incontrano.
[SoulBond!AU]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: va bene, terzo capitolo.
Ormai non posso più commentare la bellezza debilitante delle parole che ricevo per questa fanfic... spero che le risposte siano abbastanza esaustive, perché rimango seriamente senza neuroni ogni volta (e l’ansia da prestazione aumentaaaaa XD).
 
Bene, si entra nelle atmosfere post-Reichenbach. Ammetto che è da un po’ che pensavo di calarmi in questo contesto dal punto di vista di Sherlock, è sono abbastanza contenta di poterlo fare qui.
Come anticipato, ritorna il POV alternato. E devo affrontare lo scoglio Mary, purtroppo, il che mi risulta ostico alla luce degli ultimi spolers, ma è necessario *sospira*.
 
Ah, questo capitolo contiene una sorta di easter egg. Sono palesi, ma mi sono divertita ad inserirli XD vediamo chi li sa trovare.
E dato che mi stava uscendo davvero troppo lungo, ho dovuto per forza di cose spezzarlo in due. Questo ha fatto sì che questa sia decisamente la parte più noiosa... pazienza, il prossimo sarà meglio (spero) ;D
 
Ancora una volta, auguro a chi vorrà una buona lettura ♥
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3. Andante grazioso
 
 
 
 
 
Era stato come inscenare una tragedia.
Reclutare gli attori, preparare la scenografia, studiare il copione. Silenzio in sala. Su il sipario.
Era stato fin troppo bravo, ma non era sicuro che ciò che si era ritrovato fra le mani alla fine della sceneggiata fosse una vittoria.
Sparito dal mondo. Era bastato un trucco di magia e un referto del coroner. Per fare tutto ciò, Molly era stata essenziale.
Molly.
Non aveva più aperto bocca da quando Sherlock le aveva spiegato il piano, facendo ogni singola cosa nel più completo silenzio. Era stato con mani tremanti che gli aveva passato i vestiti di ricambio dopo la caduta – i suoi dovevano esser tenuti come prove e riconsegnati, successivamente, a Mycroft per non destare dubbi – e faticava a trattenere le lacrime quando, accompagnandolo all’uscita automezzi, lo aveva lasciato uscire sotto la pioggia.
Non poteva biasimarla. Gli aveva chiesto di inscenare il suo suicidio e proclamare la sua morte e, più di tutto, di mantenere il segreto della sua premeditata sopravvivenza fino a quando non sarebbe stato il momento (e nemmeno lui sapeva quando questo momento sarebbe giunto). Per lui non sarebbe stato un problema, oggettivamente, ma supponeva che le persone normali – le persone come Molly – trovassero nelle grosse menzogne, nelle bugie che causano dolore, la vera difficoltà del silenzio. Qualcuno una volta gli aveva detto che tutti aspirano alla catarsi,1 ed è per questo che le persone si aiutano l’un l’altra: per perdonare qualcosa a se stesse.
Tutto stava nel crederci.
Ora, nel cuore di Londra con indosso vestiti in cui non si sentiva minimamente a proprio agio – jeans, felpa grigia con cappuccio, scarpe da ginnastica –, l’unica cosa che gli rimaneva di quella giornata erano flash confusi che cercava con tutte le sue forze di tenere fuori dai propri pensieri.
Sentiva la sua mente pronta a scivolare in quella sorta di strano limbo che intercorre fra l’arrivo al giro di boa e l’inizio della seconda metà della corsa; quel momento in cui ci si piega sulle ginocchia e si prendono grandi boccate d’aria tentando di convincersi che la fatica è niente, il dolore è niente, il sudore è niente, la sofferenza è niente a confronto della soddisfazione di tagliare il traguardo.
Aveva bisogno di riflettere, riorganizzare, mettere in ordine le informazioni che, chiuse a chiave nel salone del suo mind palace, minacciavano di fargli esplodere il cervello non appena libere. Aveva bisogno di un luogo dove avrebbe potuto lottare contro la frustrazione senza attirare l’attenzione, dove porsi le domande scomode e darsi risposte ancora più ingombranti. Dove permettere a se stesso di cucirsi addosso gli ultimi pezzi di quell’identità che aveva gettato via ore prima (insieme a tutta la sua vita).
Un posto dove pensare a John e permettere a se stesso di sentirsi male.
Quel posto esisteva e corrispondeva ad un indirizzo di Clapham che Molly gli aveva scritto sull’angolo strappato di foglio a quadretti.
In realtà non credeva che fosse ancora a Londra, quando aveva dato il suo nome a Molly. Avevano perso i contatti dopo l’università, interrotti di netto senza nemmeno un saluto, e lui aveva fatto quello che faceva sempre con le cose che non avevano importanza: ne aveva chiuso il ricordo dentro un barattolo e lo aveva messo sullo scaffale del “potrebbe tornarmi utile”, dimenticandosene.
Solo saltuariamente tornava in quella stanza del mind palace, alla ricerca di chissà quale ricordo, e passandoci davanti si fermava a guardare il piccolo vasetto di vetro, sfiorandolo con gli occhi senza mai toccarlo. Un gesto fatto per caso che però gli faceva arricciare l’angolo delle labbra (e allora sì, forse era stato importante almeno un po’, almeno per un po’).
Finché quel nome non era stato l’unica possibilità d’appello.
Il nome che ora, scritto sulla cassetta delle lettere di una tipica casa a schiera londinese, dai muri color Terra di Siena e il tetto spiovente, era proprio davanti ai suoi occhi.
Stringendosi nelle spalle piene di umidità e fradice di pioggia, suonò il campanello. La porta si aprì quasi istantaneamente.
Victor Trevor.
Non era cambiato di una virgola. Sembrava di vedere lo stesso ragazzo che, all’università, aveva sul comodino le foto del suo Bull Terrier accanto a quella della sua famiglia.2 Forse i capelli erano leggermente più corti, ma sempre del medesimo color biondo ramato, e le spalle si erano fatte più squadrate.
Si guardarono per quello che sembrò un minuto intero, uno in pantaloni e camicia sulla porta di casa sua, l’altro con il cappuccio bagnato di una felpa a coprirgli i capelli imbrattati di sangue secco. Tutto il tempo trascorso insieme era racchiuso in quegli occhi e in quel silenzio, sporcato dai rumori di sottofondo di una città che non dorme mai.
Fu con un cenno secco del capo che Victor fece un passo indietro, invitandolo ad entrare con la mano. Sherlock aprì il cancelletto d’ingresso e, in tre lunghe falcate, entrò in casa a testa bassa.
 
Inizialmente non si dissero niente. Victor si limitò a dargli asciugamani e vestiti di ricambio per poi indicargli il bagno, dove Sherlock passò venti minuti buoni a fissare il suo riflesso allo specchio, ascoltando il silenzio che regnava nella stanza così come nella sua mente. Era infreddolito e stanco, strisce di sangue macchiavano la pelle del suo viso e del suo collo, e gli occhi erano rossi per tutto il trambusto e per il trauma subito che, nonostante le precauzioni prese, non era limitato. Ora che era al sicuro, e l’adrenalina stava cedendo il passo alla spossatezza, non c’era un singolo muscolo che non gli facesse male, e un ematoma esteso stava cominciando a formarsi sul braccio sinistro, che aveva usato come perno per atterrare sul marciapiede.3 Dopo un sospiro decise di fare la doccia, cancellando dal suo corpo almeno una parte di quei segni.
Fece in fretta, lavandosi i capelli e la pelle con i prodotti che trovò all’interno. Si asciugò alla bene e meglio, frizionando i capelli ricci con l’asciugamano senza usare il phon, e infilatosi i vestiti di ricambio (pantaloni neri di una tuta e una T-shirt grigia, Victor si ricordava con cosa gli piacesse dormire, a quanto sembrava) tornò in cucina.
Victor era impegnato a preparare il tè. Lo accolse con un sorriso gentile quando varcò la soglia, scalzo e con i capelli umidi, indicandogli il tavolo con un cenno del capo. Aveva preparato un paio di sandwich e, a giudicare dall’odore, del tè.
Lo stomaco di Sherlock si ribaltò, ma lui non lo diede a vedere. Si sedette alla sedia davanti alla quale era stato appoggiato il piatto con i panini ma, com’era prevedibile, non li toccò nemmeno.
« Non hai fame » disse allora l’altro, finalmente, aggiungendo al tè fumante zucchero e latte.
La sua voce era esattamente come si ricordava, esclusa la sfumatura di preoccupazione che riuscì a percepire. « No » rispose lui, anche se quella di Victor era stata più una constatazione che una domanda.
L’altro ridacchiò come se se lo fosse aspettato, prendendo le tazze e raggiungendolo al tavolo. Solo quando gli posò davanti la sua, Sherlock notò l’anello d’oro all’anulare.
« L’hai trovato? » domandò, senza specificare di cosa parlasse. Victor era sempre stato abbastanza bravo nel capire di cosa parlasse.
Ed infatti non lo deluse. Seguì lo sguardo di Sherlock al proprio anello e, stendendo di riflesso le dita, annuì con un sorriso. « Chris. Lui ha trovato me » disse, alzando lo sguardo: « siamo sposati, ad agosto saranno 4 anni. È architetto, e ora come ora sta lavorando a Nuova Delhi. Io insegno, sai? Fisica, all’università. Passo sei mesi in Inghilterra e sei in India. Beh, esclusi i fine settimana e le vacanze » disse, chiacchierando completamente a suo agio, come se non si fossero persi l’un l’altro da quasi dieci anni.
« E tu? » chiese poi, prendendo un sorso di tè. « Hai trovato qualcuno per cui vale la pena? ».
Probabilmente avrebbe risposto, Sherlock, se il pensiero di John non fosse stato così violento da bloccargli il fiato in gola. Non l’aveva visto dopo la caduta, quando per sembrare morto si era procurato una sincope, ma lo aveva sentito urlare il suo nome prima del volo, e ciò che aveva sentito in quella voce si era scavato un posto al centro esatto del suo petto, torturandolo con spilli ed aghi ad ogni respiro.
Non rispose alla domanda, ma senza accorgersene si sfregò con il pollice destro l’anulare sinistro. Dato che aveva le mani appoggiate sul tavolo, fu un gesto che Victor notò.
« Se non ne vuoi parlare... » cominciò, ma Sherlock lo interruppe.
« John » disse, prendendo un respiro profondo. « Si chiama John ».
« John H. Watson » confermò Victor: « seguo il suo blog. Siete diventati piuttosto famosi ultimamente » commentò.
Sherlock alzò lo sguardo dalla tazza di tè che non aveva intenzione di bere, fissandolo per un attimo in quello sereno e tranquillo di Victor. Non sapeva niente della congiura, del suo nome screditato, di tutto ciò che era successo negli ultimi due giorni. L’articolo della Riley sarebbe uscito solo la mattina successiva – così come i titoli su qualsiasi altro quotidiano – dunque non aveva motivo di dubitare di lui. Non ancora.
Si limitò, per questo, a rispondere con un « già ».
« Non giudicarmi, ma ho sempre sperato che fra di voi ci fosse qualcosa di... più. Di intimo » disse, bevendo un altro sorso di tè.
Sherlock sospirò di nuovo, scuotendo il capo. « È un fraintendimento comune, Victor » commentò solamente.
Gli occhi dell’altro saettarono di nuovo verso di lui. « Niente? Niente, niente? » domandò, curioso.
Sulle labbra di Sherlock balenò il fantasma di un sorriso. « Mi ero dimenticato la tua inutile passione per il gossip » disse, glissando con classe.
« Beh, sapere tutto di tutti era una delle mie specialità, non ricordi? » ironizzò Victor, ma si accorse subito che strappare un sorriso a Sherlock, uno di quei sorrisetti strafottenti a mezza bocca, quella sera era impossibile.
Sherlock non aveva voglia, di sorridere.
« Peccato, Sherlock. Sembra una brava persona » aggiunse solamente.
« Lo è » confermò. Sono io quello sbagliato.
Un silenzio leggero ma malinconico si dilatò nella stanza, accogliendo solo i rintocchi dell’orologio a muro. Silenzio che venne spezzato di nuovo da Victor, la cui voce era tornata seria e preoccupata.
« Sherlock, cos’è successo? » domandò, osservandolo: « la telefonata della signorina Hooper è stata breve, ma sembrava che fosse sull’orlo del pianto. Quando ha detto il tuo nome ho pensato al peggio... » disse.
Holmes evitò di guardarlo, tenendo gli occhi fissi su una venatura del tavolo. Non aveva voglia di spiegare, di ripercorrere con la voce – e con la mente – quelle ultime, estenuanti giornate; non aveva il coraggio di spiegargli cos’avrebbe trovato sui giornali l’indomani mattina, a cosa avrebbe dovuto credere, convincerlo che non fosse un rapitore né un assassino, né tantomeno un impostore.
Spiegare era lungo, impiegava tempo ed energie che lui non aveva più. Per una volta nella sua vita, una volta sola, il suo unico desiderio era di stendersi, chiudere gli occhi e rimandare tutto di qualche ora.
« Lo vedrai domani mattina sui giornali » gli disse dopo alcuni istanti di silenzio: « e crederai a ciò che vuoi ».
Victor, lo sguardo ancora fisso su di lui, assottigliò gli occhi, pensieroso. « So già a chi credere » esordì poi, la voce sicura e perentoria.
Sherlock non ebbe la forza di replicare, ma annuì, riconoscente.
 
 
 
 
Non aveva mai capito l'espressione "come se non fosse nel suo corpo".
La usavano molto spesso nei romanzi (e lui ne aveva letti parecchi), ma non era mai arrivato a capirne il concetto. Forse perché era sempre riuscito ad essere padrone di se stesso, nel bene o nel male, o forse perché l'aveva spesso considerata una definizione troppo strana per essere reale, troppo artefatta.
Tuttavia, seduto a quel tavolo d'acciaio, in una sala interrogatori di New Scotland Yard, non avrebbe potuto trovare parole più adatte di quelle per descrivere come si sentisse.
Come se il corpo non fosse il suo, ma solamente in prestito. Come se non stesse davvero vivendo in quel momento, respirando in quel momento, pensando quel momento. Come se guardasse se stesso dall'esterno e non potesse far altro che provare una profonda pena.
Pover'uomo ridotto allo stremo, la schiena curva e le spalle pesanti. Pover'uomo alla deriva. Pover'uomo.
Non riusciva ancora a capacitarsi di ciò che aveva visto. Oggettivamente lo sapeva, la propria mente aveva capito e catalogato l'accaduto per quello che era: Sherlock si era buttato dal tetto del Barts.
Ma c'era qualcosa in lui - una parte di lui - che non aveva voluto guardare. Che non voleva ricordare. Che si rifiutava di mettere in fila le parole e dirlo ad alta voce, ammettendo la concretezza di ciò che era successo qualche ora prima.
Poter'uomo che ancora non voleva crederci.
Alzò lo sguardo dal tavolo solo quando la porta dall'altra parte della stanza si aprì e da essa entrò un uomo, cravatta nera e camicia bianca sgualcita con le maniche arrotolate fino ai gomiti, portando con sé un fascicolo di cartoncino giallo e una zaffata di odore di sigaretta. Aveva i capelli neri e corti, spettinati come chi é abituato a passarci spesso le dita in mezzo, e la faccia di una persona che nelle ultime ore aveva affidato la propria esistenza alla caffeina.
« Dottor Watson, io sono il Detective Inspector Aberline » si presentò, sedendosi nella sedia di fronte: « prima che lei lo chieda: no, non siamo parenti. Il mio cognome si scrive con un sola "b" » aggiunse, probabilmente per prevenire una domanda che in molti gli facevano ma che John non aveva la minima intenzione di porre.
Capì a cosa si riferisse solo dopo; l'Ispettore Abberline, nel 1888, fu il poliziotto di Scotland Yard assegnato al caso dello Squartatore.
In quel momento non gliene poteva importare di meno, della sua mancata omonimia grammaticale. Lo osservò con sguardo stanco e vacuo, separando le labbra per la prima volta da quella che sembrava un'eternità; dovette umettarle con la lingua, prima di parlare.
« Dov'é Lestrade? » domandò ma quasi si stupì quando la voce si rifiutò di uscire, se non in un sussurro stentato.
Aberline, accavallando le gambe sotto al tavolo e mettendosi comodo, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un I-phone e un pacchetto di sigarette. John dovette distogliere lo sguardo - la stessa marca di quelle di Sherlock.
« L'ispettore Lestrade non si occupa di questo caso. Per ovvi motivi é stato momentaneamente sospeso dl servizio » disse distrattamente, trafficando per un secondo con le impostazioni del registratore dello smartphone: « mi permette di registrare la nostra conversazione, dottor Watson? » chiese poi.
John annuì.
Il detective fece partire la registrazione e si portò il cellulare vicino alla bocca. « Registrazione dell'interrogatorio del dottor John Hamish Watson, 15 giugno 2011, ore 20:42. Conduce l'interrogatorio il qui presente, Detective Inspector Aberline » disse a chiare lettere, appoggiando poi il telefono sul tavolo in mezzo a loro.
Stava per porgli la prima domanda, ma John non glielo permise, anticipandolo.
« Perché mi trovo qui? » chiese, il tono duro e spossato, decisamente non in vena di giocare o di perdere tempo su delle futilità.
Aberlineafferrò il pacchetto di sigarette, estraendone una e l'accendino. « Le dispiace se fumo? » domandò.
John non mosse un muscolo per negare o acconsentire; Aberline si accese comunque la paglia, ignorando il divieto di fumare in luoghi chiusi ove non consentito.
« Fino a qualche ora fa era qui come testimone, dottor Watson. Come lei ben sa, il principale sospettato di un caso di rapimento, e potenziale serial killer, si è suicidato oggi pomeriggio e lei è l’ultima persona con cui Sherlock Holmes ha parlato » disse l’ispettore.
John chiuse gli occhi ancora prima che finisse la frase.
Strinse i denti quando una poco famigliare ondata di dolore minacciò di sopraffarlo. Sherlock non era né un rapitore né un serial killer! Come si permettevano di accusarlo senza prove? Senza un’indagine approfondita? Era tutto un piano di Moriarty, di un Moriarty che era reale, perché non riuscivano a vedere? Come si permettevano di infangare il suo nome dopo tutto quello che aveva fatto per loro?
Si sentì sull’orlo di perdere il controllo ma ricacciò tutto dentro di sé.
Deglutendo, annuì in silenzio. « Cosa significa “fino a qualche ora fa”? » aggiunse poi, con voce bassa ma seria.
« Lei ha sulla testa un paio d’accuse abbastanza pesanti, dottore » disse quello, aprendo la cartelletta ed estraendone un foglio con il logo della Polizia in alto al centro: « aggressione a pubblico ufficiale e resistenza all’arresto. Fortunatamente per lei non perseguibili fino a nuovo ordine, date le circostanze, ma proseguendo con la normale indagine di routine abbiamo trovato questo... » pronunciò, estraendo un secondo foglio.
Un documento che conosceva bene e che già una volta aveva visto.
Una copia del suo certificato personale, fotocopiato e riconosciuto con un timbro dall’ufficio anagrafe, con una frase evidenziata in giallo.
 
S.I.N.: Broken Connection Entity (“Sherlock”)
 
John non poté fare a meno di arricciare il naso davanti a quelle parole, che tornavano a tormentarlo dopo anni dall’ultima volta che le aveva viste.
Chissà perché, sapeva già dove Aberline volesse andare a parare.
Alzò lo sguardo su di lui, rimanendo in silenzio. Se all’inizio aveva considerato il D.I. come un suo pari – con una divisa, certo, ma sempre un suo pari, una persona esattamente come lui – ora i ruoli erano cambiati; per quanto potesse cercare di vivere senza pensarci, o di nasconderlo per non doverne affrontare le conseguenze, lui era un BCE e, come tale, si sarebbe sempre trovato in una posizione di intrinseca inferiorità rispetto a tutti coloro che, per nascita, avevano la fortuna di avere un’Anima Gemella a desiderarli.
Aberlineinarcò un sopracciglio al suo sguardo decisamente poco amichevole. Indicò poi la fotocopia del certificato con due colpetti del dito indice, soffiando fuori una nuvola di fumo. « Questa mi è nuova » commentò.
John non distolse lo sguardo e non fece nulla per addolcirlo. Perseverò nel suo ostinato silenzio.
« A dire il vero, è nuova a molta gente. Quando ho chiesto informazioni al D.I. Lestrade mi sono sentito rispondere, ed era sincero a giudicare dall’espressione stupita, che non ne sapeva niente. Così ho fatto una veloce ricerca, e mi sono imbattuto in un’interruzione... no, un trasferimento, al quarto anno di Medicina, dalla London University all’Accademia Militare della RAMC. Una scelta peculiare, soprattutto per uno studente con voti eccellenti come i suoi. Mi sono chiesto il perché e, parlando con l’addetto all’ufficio anagrafe, sono venuto a sapere che lo stesso anno il Comitato Direttivo della London University richiese una copia dello stesso certificato che ora le sto mostrando. Coincidenza? Non credo » disse, facendo una pausa per portarsi di nuovo la sigaretta alle labbra e aspirare una boccata di fumo.
Watson seguì i movimenti con gli occhi, ma ancora non aprì bocca. Stava aspettando tutt’altro. Attendeva che arrivasse al punto.
Aberlinelo fissò negli occhi per qualche istante prima di porre la prima di molte domande: « è abituato a nascondere la propria condizione di BCE, dottor Watson? » chiese, la voce supponente e derisoria.
Qualcosa, dentro John, ribollì d’impazienza. La mano destra, che ancora ricordava con piacere l’impatto delle proprie nocche contro la mascella di Gregson, cominciò a prudergli.
« Abbastanza » rispose.
« Sa che in certi casi è reato? » continuò l’altro.
John annuì.
« Può dirlo ad alta voce? » intervenne però Aberline, indicando con un cenno del mento il registratore.
« Sì » pronunciò quindi John.
« Sherlock Holmes ne era a conoscenza? » domandò poi.
A sentire il suo nome, lo stomaco gli si annodò. « Sì » affermò comunque.
« Anche del fatto che il nome sul dito era proprio il suo? » continuò.
Il medico arricciò il naso, infastidito. « Sì » sputò.
Era vicina. La vera domanda che Aberline voleva porgli era dietro l’angolo. Mancava poco.
« C’era qualcosa di romantico fra voi? » chiese però, facendo un giro ancora più largo.
E andando a virare su argomenti decisamente privati.
« Posso rifiutarmi di rispondere? » chiese, quasi del tutto sulla difensiva e decisamente a disagio.
Aberlinefece spallucce: « sì, certo, ma se posso darle un consiglio è meglio che risponda subito, piuttosto che sotto giuramento davanti ad una Corte ».
In trappola, ecco come si sentiva. Bloccato in un buco nella sabbia mentre Aberline se ne stava in piedi sul bordo ad aspettare che la marea lo riempisse. Sapevano bene entrambi che andare ad un processo, per un Ribbon, era come firmare di proprio pugno un ordine di incarcerazione. In un sistema di Common Law come quello inglese, in cui l’ultima parola spettava ad una giuria di (finti) pari – quando mai si era visto un Ribbon, o un Bondless, in quelle giurie? – i BCE venivano condannati colpevoli a prescindere del numero di prove a loro favore.
Stringendo dolorosamente i denti, rispose. « No » disse, secco.
E Aberline prese la palla al balzo.
« Ne è deluso? ».
Insinuazione. Mancava solo un sorrisetto strafottente a piegargli le labbra e John avrebbe potuto riconoscere il momento esatto in cui l’altro aveva afferrato del tutto il coltello dalla parte del manico.
Poteva mentire. Sapeva dove voleva arrivare, ed era abituato a far sembrare verità assolute le più infime bugie. Solo Sherlock era in grado di smascherarlo ancora prima che ci provasse – ma quello non era più un problema.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Proteggersi non aveva più senso.
« Come potrei non esserlo, Detective Aberline? » domandò retoricamente: « amo una persona che dovrei odiare. Come potrei non esserlo? » ripeté, deglutendo e scostando finalmente lo sguardo dagli occhi del poliziotto.
Forse dovrei dire “amavo”, pensò fra sé e sé.
Se avesse potuto, Aberline avrebbe sogghignato.
« Abbastanza da essere suo complice? ».
Anche se se l’era aspettata, quella domanda lo colpì peggio di un treno in corsa, facendogli mancare un battito. Sgranò gli occhi e li riportò sul detective che, comodamente accomodato sulla sedia, prese l’ultimo tiro dalla sigaretta e si sporse per spegnere il mozzicone direttamente sul tavolo.
« Cosa sta cercando di insinuare? » domandò John con un filo di voce, suonando quasi minaccioso.
« Complicità in omicidio, complicità in rapimento, magari istigazione a delinquere? Chi lo sa. Ho tante possibilità quante sono le indagini sul suo conto che mi attendono, dottor Watson. Chi mi assicura che non sia stato lei, il grilletto che ha fatto scattare Sherlock Holmes? » chiese retoricamente.
John sentì la furia montare di nuovo dentro di sé.
Ma Aberline continuò, imperterrito. « Non credo che lei sia la mente dietro tutto questo, no. Ciò che voglio capire è se ha avuto la sua parte. In una visione d’insieme, non mi sembra normale che un ex medico militare di ritorno dall’Afghanistan con diagnosticato un Disturbo da Stress Post-Traumatico vada a vivere con una persona che per vivere risolve casi d’omicidio. E non solo, ne diventa addirittura l’assistente. Ma la cosa più interessante è che, come BCE, lei sia andato a vivere proprio con l’uomo che, potenzialmente, potrebbe essere il suo SIN. Deve ammettere che tutto ciò sembrerebbe strano anche se si trattasse di una persona normale » disse.
E furono esattamente quelle parole che fecero scattare John, ormai al limite della sopportazione.
« “Normale”?! » sbottò, raddrizzando la schiena: « Cosa ne sa lei? Cosa ne sa di cosa voglia dire trovare il proprio SIN quando si è un Ribbon? Cosa ne sa? Noi non siamo  delle pedine uscite male dalla fabbrica! Su cosa basa questa sua arroganza, sul fatto che sono un Ribbon?! » gridò, le mani chiuse a pugno contro il tavolo: « Io sono innocente, Sherlock è innocente, e nessuno, nessuno, riuscirà mai a convincermi che quell’uomo mi abbia mentito! » sbottò.
Aberline lo guardò in silenzio, l’aria di chi aveva raccolto le informazioni che gli servivano.
« Lei è in stato di fermo, dottor Watson » disse poi, alzandosi e raccogliendo le proprie cose con nonchalance: « due agenti verranno fra poco per scortarla nella sua cella. Si metta comodo ».
 
 
 
 
Victor si fermò con la forchetta a mezz’aria, intento a cuocere il bacon per la colazione. Le maniche della camicia arrotolate fino al gomito e la cravatta blu ripiegata sulla spalla, si voltò completamente verso la televisione con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati.
« Sherlock? » chiamò poi, girandosi verso il salotto solo con il capo ma non con gli occhi, che rimasero puntati sulla giornalista della BBC One.
Sherlock, steso sul divano con gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento, non si scompose minimamente. « Non ora » disse solo, senza muovere un muscolo.
Ma Victor non si arrese. « Sherlock! » esclamò, cercando di trasmettergli l’urgenza.
Holmes aprì gli occhi di scatto, sbuffando, per poi alzarsi e camminare a piedi scalzi fino in cucina.
Una volta posato lo sguardo sulla televisione, la sua espressione cambiò. « Alza il volume » disse a Victor e quello, raggiungendo a tentoni il telecomando, eseguì.
“È di poche ore fa la notizia che il dottor John Watson, collega e amico del detective suicida Sherlock Holmes, è in stato di fermo alla sede di New Scotland Yard con l’accusa di complicità in omicidio e rapimento di minori. Pare che durante un controllo di routine messo in atto dalle forze di Polizia subito dopo il suicidio dell’eroe del Reichenbach, i poliziotti abbiano scoperto che il dottor Watson, famoso per il suo blog, è in realtà un BCE. Le accuse sono per il momento non perseguibili a causa delle indagini tutt’ora in corso, ma una conferenza stampa verrà organizzata in serata con il Detective Inspector Aberline di New Scotland Yard, attualmente a capo delle indagini”.
Sherlock smise di ascoltare nel momento esatto in cui la giornalista passò la linea al collega, fissando lo schermo senza in realtà vederlo. Deglutì, inspirando profondamente, cercando con tutto se stesso di contenere l’irritazione che, sfruttando un momento di debolezza, poteva anche farlo correre seduta stante a New Scotland Yard.
« Victor? » disse poi.
Quello, al suo fianco, girò il capo in sua direzione.
« Mi serve un favore. Devo contattare mio fratello ».
 
 
 
 
La porta della cella si aprì con un sonoro tonfo e un rumore di chiavi, lasciando entrare la figura sempre più trasandata di Aberline.
Si guardarono, uno dalla porta e l'altro dall'unica branda presente nella cella, squadrandosi come cani che cercano un pretesto qualsiasi per cominciare a ringhiarsi contro.
Fu Aberline a mollare per primo il loro muto gioco di sguardi, spostandosi dall'uscio e facendo un cenno verso l'esterno con il mento.
« Sei libero, Watson. Ti hanno pagato la cauzione. Probabilmente anche le accuse decadranno » disse.
John rimase un attimo fermo prima di alzarsi in piedi e dirigersi verso la porta, il passo fermo ma completamente esausto. Non aveva dormito molto, in quei tre giorni, così come non aveva fatto altro che fissare il muro della propria cella sforzandosi di non piangere. Non era il luogo, non era il momento. Se doveva farlo, sarebbe stato solo davanti alla sua tomba, dove avrebbe permesso all'evidenza di schiacciare il suo autocontrollo.
Aberline lo accompagnò lungo tutto il corridoio, rimase lì mentre gli venivano restituiti i suoi effetti personali e lo affiancò di nuovo fino all'uscita. Fortunatamente non incontrò nessuno di sua conoscenza (non sapeva se avrebbe potuto sopportare di vedere Donovan o Anderson senza rischiare un'altra accusa di aggressione a pubblico ufficiale, in quel caso particolare non si fidava affatto di se stesso).
La mano bruciava, il dito sembrava volersi direttamente staccare dal resto dell'arto, e la lieve fotosensibilità era uno dei classici sintomi della febbre da infezione. Aveva bisogno di un antibiotico ma, soprattutto, aveva bisogno di farsi un bagno, sedersi e cercare di mettere in ordine almeno i successivi giorni della propria vita.
« Lei ha delle amicizie in alto, non è vero? » chiese Aberline una volta raggiunta la porta.
Watson, ancora preda della sensazione di non essere completamente in sé, si limitò a fermare il passo e a girare il volto in sua direzione. « Cosa? » chiese.
« La cauzione. E il decadimento delle accuse. L'ordine è arrivato dritto dritto da Gregson, e non ho mai visto Gregson abbandonare una causa che lo riguarda direttamente così in fretta. Questa non può essere altro che l'opera di qualcuno di importante » spiegò, il tono seccato ma più che altro esausto.
John non fece una piega. Solo uno fu il nome che gli venne alla mente, ma si guardò con attenzione dal dirlo.
Nel suo silenzio, Aberline sospirò. « Arrivederci, dottor Watson » disse, girandosi e allontanandosi.
Spero proprio di no, pensò John prima di uscire alla luce del pallido sole londinese.
Fuori dalla porta, dall'altro lato della strada, un'elegante macchia scura era ferma, probabilmente in attesa. La portiera posteriore si aprì ma John non rimase ad aspettare che la famigliare figura di Anthea comparisse sul marciapiede.
Girandosi, sé ne andò a piedi.
L'auto nera non lo seguì.
 
 
 
 
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Osservò da lontano la schiena di John mentre si allontanava dalla lapide nera, seguendo il percorso appena compiuto da mrs. Hudson. Era ben nascosto dietro ai cipressi del cimitero, in un punto in cui poteva tranquillamente vedere senza essere visto, e in cui comunque John non lo avrebbe mai notato.
Lo aveva visto parlare, anche se non aveva potuto capire cosa dicesse, troppo lontano per sentirlo o leggere il labiale. Lo aveva visto esitare, girarsi, cambiare idea, tornare indietro.
Lo aveva visto piangere. E mettersi inconsapevolmente sull’attenti prima di andarsene.
John. Il suo John. Leale, fedele John.
Non avrebbe fatto niente di quello che gli aveva detto prima di buttarsi dal tetto. Non avrebbe mai creduto alle sue ultime parole, a quelle pietose auto-accuse. Avrebbe continuato a difendere la sua memoria fino alla fine, fino allo stremo... pazzo, sciocco John.
Che senso ha difendere la memoria di un fantasma, John? Che senso ha difendere l’onore di una persona che ti ha abbandonato due volte?
Con un sospiro tirò fuori la mano sinistra dalla tasca del cappotto, osservando il dorso dell’anulare con sguardo grave.
Continuava a non esserci niente quando, invece, l’unica cosa che voleva in quel momento era che ci fosse scritto “John”.
Così avrebbe saputo. Così avrebbe capito. Avrebbe visto che il nome non diventava nero, avrebbe intuito che era vivo, che era da qualche parte, nascosto, e forse avrebbe capito che era tutto in piano, una macchinazione necessaria.
Sarebbero stati legati al di là della lontananza.
Con una smorfia, si rimise la mano in tasca. Un’ultima occhiata alla lapidea nera ormai sola in mezzo all’erba e, girando su se stesso, si mise in marcia.
Camminò velocemente fra le tombe del cimitero di West Brompton, infilandosi con nonchalance in una piccola uscita laterale che dava su una stradina a senso unico stretta e raramente utilizzata. Dopo una camminata di 50 metri, aprì lo sportello di un’auto nera e salì sul sedile posteriore.
Dentro, intento a guardare fuori dal finestrino opposto, Mycroft lo aspettava.
« È stata una visita illuminante? » chiese con la sua voce melliflua, gli occhi fissi sul panorama esterno, che cominciò a scorrere con l’incedere tranquillo dell’automobile.
Sherlock non rispose. Mycroft sospirò.
« La tua nuova identità » disse allora, allungando al fratello minore una busta di carta marrone.
Sherlock, afferrandola, la aprì. Conteneva un referto medico fasullo, un cellulare vecchio modello, un biglietto aereo e un passaporto.
Fece scivolare verso l’alto i documenti quel tanto necessario dal leggerne le prime righe. Si accigliò.
« James Kimberley Griffith » lesse: « sul serio, Mycroft? Un malato di cancro? » aggiunse poi, il tono basso e strafottente.
« Una persona che gode di una condizione medica favorevole al nostro scopo » parafrasò il politico, le mani appoggiate sul ventre una sopra l’altra. « Salirai su un volo diretto a Firenze. Essendo un malato di cancro verrai tenuto separato dal resto dei passeggeri, per garantirti una maggiore comodità, il che è esattamente ciò che ci serve per far sì che nessuno abbia l’ardire di riconoscerti. Verrai anche fatto scendere prima degli altri e accompagnato in aeroporto saltando i controlli. A Firenze incontrerai un agente sotto copertura dell’MI6 che ti darà l’indirizzo dell’appartamento che sono riuscito ad affittare in zona. Una volta lì ti manderò, pian piano, tutto l’occorrente per i successivi spostamenti, informazioni comprese. Tutto chiaro? ».
Infilando il falso referto nella busta, Sherlock annuì.
« Dovrai essere cauto » continuò poi Mycroft: « non posso garantirti una protezione costante. La maggior parte delle volte dovrai vedertela da solo » aggiunse.
Sherlock annuì di nuovo. « Lo so ».
Il viaggio verso l’aeroporto proseguì in silenzio, interrotto solamente dal rumore attutito delle ruote sull’asfalto.
Loro non si erano mai parlati molto, e non fuori dal necessario. Nemmeno da piccoli. Mycroft ci aveva provato ad essere un buon fratello maggiore, per un po’; Sherlock gli riconosceva lo sforzo, ma semplicemente non ne era stato in grado. O forse Sherlock lo aveva invidiato, e dunque detestato, troppo fin da subito per dargli una possibilità concreta di formare un legame fraterno.
La loro idea di fratellanza era per uno il dispetto, per l’altro il controllo. Raramente Sherlock aveva ammesso di aver bisogno dell’aiuto dell’altro, e questa era la prima volta che lo faceva volontariamente. Solo Mycroft aveva i mezzi sufficienti a proteggere se stesso dall’onda d’urto che il suo gioco con Moriarty aveva scatenato e, volendo, a proteggere anche le altre persone involontariamente coinvolte.
Solo Mycroft poteva proteggere John, ora. Questo era sufficiente a fargli riconsiderare trent’anni di risentimento.
« Il mio appartamento... » cominciò poi Sherlock, rompendo il silenzio ormai in vista dell’aeroporto: « deve restare esattamente così com’è. Vorrei che pagassi a mrs. Hudson l’affitto e ne mantenessi la proprietà » disse.
« Va bene » rispose Mycroft.
« John può prendere quello che vuole » aggiunse poi: « anche il violino, se vorrà. Nel caso decida di trasferirsi. Devi farglielo sapere ».
« Quale risposta devo dargli, se mi chiede come faccio a saperlo? ».
« Inventati qualcosa » ribatté Sherlock, ma se normalmente il suo tono di voce sarebbe stato seccato e supponente, ora riusciva a suonare solo disilluso e, forse, anche triste.
La macchina rallentò, infilandosi con grazia nel traffico di fronte al Terminal 2. Molte persone entravano ed uscivano dalle porte portando valigie e trolley e, sicuramente, nessuno aveva il tempo di guardare al di là del proprio naso.
Sherlock cominciò a cambiarsi. Si tolse il cappotto, che lasciò sul sedile, infilandosi una felpa verde e una giacca a vento beije. I jeans, che aveva già infilato sopra le uniche scarpe a tennis che possedeva, gli davano l’aria di una persona qualunque e, in attesa di chiudersi nei bagni dell’aeroporto e tagliarseli, nascose i capelli sotto un cappello a tesa larga marrone. Infine, per entrare nel personaggio, sfilò da sotto il sedile un bastone di legno scuro.
Bastarono pochi tocchi per trasformarlo in una persona completamente diversa, e le sue doti recitative avrebbero fatto il resto.
Una volta che ebbe finito di cambiarsi, Mycroft gli porse una scatolina blu. «Tieni. È il momento per te di indossarne uno » gli disse.
Incuriosito, Sherlock la prese. Era talmente abituato a doverne fare a meno che dovette aprirla, per capire cosa contenesse.
Un anello d’argento.
Ma non era un anello normale. Fine ma non troppo sottile, di argento puro ripetutamente lucidato; usato, dunque. Nella parte bassa era visibile un piccolissimo taglio dove l’anello, nel tempo, era stato ristretto. Nella parte alta, e leggermente più larga, una filigrana quasi invisibile riproduceva lo stemma di famiglia – irriconoscibile per chiunque se non per un Holmes.
Sherlock aveva già visto quell’anello. Molte volte.
« È il tuo » disse.
« Corretto » ammise Mycroft.
« Perché lo dai a me? » domandò.
Il fratello maggiore non rispose, limitandosi a guardarlo negli occhi con le labbra strette. Per tutto il tempo aveva tenuto la mano sinistra nascosta sotto la destra, ed ora Sherlock poteva capire il perché non fosse un gesto casuale.
« Ah... » esclamò, togliendo il gioiello dalla scatola e infilandoselo al dito. Era perfetto. « Devo dedurre che avete deciso di Legarvi? » domandò al contempo.
Mycroft, in risposta, tolse la mano destra dalla sinistra e lasciò scoperto l’anello d’oro bianco che da poco ricopriva il suo SIN.
Sherlock lo adocchiò velocemente. « Sbaglio, o avevate deciso di ignorarvi per via dei vostri rispettivi incarichi lavorativi? ».
« E del suo matrimonio » aggiunse Mycroft.
« Che non rappresentava più un problema giù da un po’ » specificò però Sherlock, aprendo e chiudendo le dita della mano sinistra come se, così facendo, potesse abituarsi più in fretta ad indossare un anello. « Cosa vi ha fatto cambiare idea? ».
Mycroft attese qualche istante prima di rispondere, stuzzicando l’anello d’oro bianco – usato dalle coppie Legate durante il periodo di “fidanzamento” – con l’indice della destra.
« Le cose cambiano di fronte alla morte, Sherlock » mormorò poi, scostando gli occhi sul finestrino. « Capisco la necessità di non avvertirmi del tuo piano fino a dopo il funerale, è stata una scelta del tutto logica. Ma in quei giorni non c’era nessun altro, a parte... » deglutì, lasciando cadere. « Non mi pento di questa decisione » aggiunse poi.
Sherlock, che aveva seguito il discorso in silenzio, distolse lo sguardo a sua volta, osservando la struttura dell’aeroporto fuori dal finestrino.
Era strano sentire Mycroft parlare, o anche solo accennare, di sentimenti. Lui che la maggior parte delle volte faceva per il bene della Nazione cose di cui persino Sherlock si sarebbe vergognato. Lui che usava ogni mezzo senza alcuno scrupolo.
Era strano sentire la sua voce sottintendere la paura, la tristezza, l’abbandono.
Il bisogno.
L’amore.
« Importarsene non è un vantaggio » lo rimbeccò poi Sherlock, metà come monito e metà per ripicca.
« Lo so » rispose l’altro.
L’automobile si fermò del tutto e Sherlock, già con la mano sulla maniglia, era ormai pronto per sparire del tutto dalla circolazione. Esitò solo un secondo, prima di scendere.
« Prenditi cura di John » disse solo.
Mycroft, girando il capo verso il fratello minore, annuì.
Il secondo successivo, Sherlock Holmes era sparito.
 
 
 
 
L’aria della notte era fresca ma pungente.
Nemmeno Luglio aveva risparmiato a Londra la pioggia. Aveva piovuto per tutto il giorno, una di quelle pioggerelline fini e di vento che rendono inutile persino l’ombrello, e l’aria era ancora satura di quell’odore tipico e della relativa umidità.
Guardando il cielo coperto di nubi, rese rossastre a causa delle luci di Londra che vi si riflettevano impietose, John sospirò. Si sistemò meglio, steso sulla panchina di legno, muovendo le spalle alla ricerca di una posizione più congeniale (che non trovò). Poi si portò la sigaretta alle labbra.
Non aveva mai fumato in vita sua. Nemmeno in Afghanistan, dove un pacchetto di sigarette riusciva a valere più dell’oro, secondo solo ad una borraccia d’acqua e ad un caricatore pieno. Nemmeno quando la sua vita si era, ripetutamente, trasformata in un inferno e una sigaretta non sarebbe stata altro che una piccola scheggia di sollievo racimolata con mani tremanti.
Era un medico, si diceva. Si trattava della sua salute. Ci teneva alla salute.
O forse, la sua vita non era mai stata un Inferno peggiore di quello.
Nonostante tutto.
Era passato un mese e lui aveva smesso di contare i giorni.
La notizia cominciava a sgonfiarsi, ad essere sostituita da altri scandali, altri gossip. Come ogni altra cosa, il “caso dell’impostore suicida” – com’era stato ribattezzato – cominciava a sbiadire. Pochi articoli erano rimasti, poche le novità da scrivere, ed essendo parte di una ruota che gira in continuazione senza sosta, i giornalisti cominciavano a stancarsi.
Ma questo non aveva impedito alla sua vita di andare letteralmente a puttane.
Dopo che la notizia del suo fermo amministrativo a Scotland Yard si era diffusa, e dopo la soffiata sul fatto che fosse un BCE, conseguenze che non si sarebbe nemmeno sognato – ma che forse avrebbe dovuto aspettarsi – si erano abbattute su di lui come grandine.
Ora tutti sapevano che era un Ribbon. Tutti. Dal postino al Primo Ministro.
I giornalisti non lo avevano lasciato in pace per giorni, appostati davanti alla porta chiusa del 221B di Baker Street come giaguari in attesa di una preda facile, e lui non aveva nemmeno tentato di parlare, di dire la sua opinione. Non era di Sherlock che volevano sapere, loro, credevano che sul detective fosse già stato detto tutto e che i fatti parlassero da soli,  e anche se la maggior parte delle domande implicava comunque Sherlock e il suo lavoro, John non aveva intenzione di dare loro corda.
Eventualmente, si erano stancati. Dopo quindici giorni d’assedio, una mattina avevano cominciato a diminuire di numero e, alla fine, se n’erano andati tutti. Giusto in tempo.
John non era più in grado di vivere a Baker Street. Ogni angolo di quell’appartamento gli ricordava Sherlock, urlava il nome “Sherlock”, e più il tempo passava più il SIN sul suo dito bruciava e sanguinava. I Ribbon e i Bondless non seguono le leggi normali del Legame, John lo aveva sempre saputo, dunque non c’era uno straccio di informazione riguardo ad un BCE rimasto senza... senza cosa? Senza compagno? Senza Legame?
Sherlock non era l’uno, e di certo lui non aveva mai avuto l’altro.
L’infezione era comunque durata per ben dieci giorni, costringendolo a prendere antibiotici e potenti antinfiammatori. Lo stress causato dalla situazione, sommato alla sua situazione medica, non lo aveva aiutato.
Gli era dispiaciuto lasciare mrs. Hudson. La donna non aveva commentato il suo essere BCE, così come non aveva mai mutato atteggiamento nei suoi confronti. Quando era tornato a casa da Scotland Yard, quattro giorni dopo la morte di Sherlock e senza aver potuto partecipare al suo funerale per colpa dell’arresto, lei lo aveva semplicemente abbracciato e aveva pianto sulla sua spalla. John non aveva potuto fare altro che stringerla a sua volta, in silenzio, e volerle bene.
Ogni tanto le telefonava. Lei lo invitava a prendere un tè, ma John rifiutava sempre. Ancora non aveva il coraggio di rivedere quella porta, di varcarla, di risentire sulla pelle la sensazione che dava. E mrs. Hudson, più di tutti, capiva.
Mycroft si era fatto carico dell’appartamento, venne a sapere. Non direttamente da lui, ovviamente. Anthea si era presentata davanti alla porta dell’appartamento di Harry, una mattina, e gli aveva spiegato tutto senza entrare o staccare gli occhi dal cellulare. Gli aveva detto che poteva prendere ciò che voleva, che Sherlock aveva deciso così in un messaggio lasciato a Mycroft prima di morire, ma John accolse quella notizia con una smorfia e il sapore della bile in bocca.
Aveva scritto a Mycroft? Quando, prima di buttarsi? Non poteva lasciare un messaggio anche a lui, invece di farlo assistere a quella caduta che gli si ripresentava sotto il naso non appena chiudeva gli occhi?
Non cercò, in quel momento, di ricoprire di zucchero la pillola amara. Non pensò al fatto che fosse normale, dato che erano fratelli, o comunque l’unico membro della sua famiglia con cui era ancora in contatto.
Si sentì tradito e basta e chiuse la porta senza nemmeno rispondere o salutare. Mycroft non lo contattò più, così come smise di vedere macchine nere seguirlo per strada da lontano.
Un problema in meno, aveva pensato.
Sbagliato. I veri problemi si presentarono in seguito.
Un paio di sere dopo, Greg lo aveva invitato al pub per una pinta. Solo loro due.
Aveva accettato. Nonostante la rabbia che si portava dentro gli corrodesse il fegato, John era un uomo giusto e sapeva che Greg aveva agito in quel modo solo perché obbligato. Sapeva che si fidava di Sherlock – dopotutto lo conosceva da più tempo di lui – e sentiva anche che l’altro, sotto la sua solita voce profonda e la parlata un po’ gergale, aveva il bisogno di scusarsi.
Gliene diede l’occasione.
Greg gli raccontò tutto. Del dopo, del funerale, di Mycroft. Di come fosse rimasto stoico davanti alla bara del fratello, che non avevano potuto aprire per motivi di decenza, ma avesse continuato a prendere profondi respiri come ad auto-imporsi la calma. Di quanto il cimitero fosse pieno di gente.
Di come le sue opinioni su di lui non fossero cambiate, nonostante avesse saputo la notizia che fosse un BCE.
Di come, alcune sere, pensasse a Sherlock e si sentisse in colpa.
John non poté consolarlo, però. Non si sentì in grado di farlo. Il perdono era qualcosa che aveva negato persino a se stesso e, semplicemente, non poteva concederlo ad altri. Ognuno aveva la propria dose di responsabilità, pensava, e i propri fantasmi a tormentarlo.
Ma l’anello d’oro bianco che Greg portava al dito raccontava una storia che John non sapeva, e che si risparmiò di conoscere per il bene del proprio equilibrio emotivo già fragile.
Un equilibrio che non aveva più trovato.
Avrebbe dovuto sentirsi distrutto, forse triste. Credeva che l’impatto della morte di Sherlock sarebbe stata come il proiettile che gli aveva trapassato la spalla, addirittura peggiore. Nelle sue prime sedute con Ella non era nemmeno riuscito a pronunciare il suo nome senza cominciare di nuovo a piangere, o fermarsi per deglutire e riprendere fiato. E doveva sentirsi così, era giusto che si sentisse così; avrebbe continuato a sentirsi così per il resto della sua vita, si era detto, dunque tanto valeva abituarcisi.
Ma una mattina si era svegliato rendendosi conto di aver dormito senza incubi. Si era guardato allo specchio ed era riuscito a pronunciare “il mio migliore amico si è suicidato buttandosi da un tetto” senza esitare, senza aver bisogno di riprendere fiato, senza far tremare la voce.
Si era reso conto che il ricordo di Sherlock non faceva più così tanto male. Ed era troppo presto, era morto da troppo poco tempo... non poteva già essere al di fuori dell’elaborazione del lutto, non quando era ancora così vicino e vivido, non quando il suo SIN ancora lo tormentava con il dolore di un’infezione che sembrava infinita e che non guariva mai.
Ma quella era la realtà, e la realtà era l’indifferenza. E per questo si odiava.
John Watson era sopravvissuto ad un (secondo) abbandono che avrebbe dovuto ucciderlo, ma lo lasciava semplicemente indifferente. Non riusciva a sopportare di averlo dimenticato così in fretta, di avere superato il trauma senza il minimo sforzo, e la sua infelicità non derivava dalla morte di Sherlock, ma dall’odio per la persona in cui quella morte l’aveva trasformato.
Insieme al fumo soffiò fuori anche una risatina amara.
Lasciò penzolare la mano che teneva la sigaretta dalla panchina, muovendo gli occhi sul cielo tutto uguale mentre il sorrisetto gli moriva sulle labbra. A minuti sarebbe arrivato l’autobus ed era lunga la strada per Shoreditch, l’unico buco di Londra in cui era riuscito a trovare un appartamento in cui vivere.
Scostò lo sguardo sulla linea del tetto del Barts sopra di sé, posandolo poi sul marciapiede accanto alla panchina. Ogni traccia di sangue era sparita, ma riusciva tranquillamente a figurarsela mentalmente, prendendola da quell’immagine per sempre marchiata a fuoco nei suoi ricordi.
Si lasciò scivolare dalle dita il mozzicone della sigaretta che, toccando il marciapiede bagnato, si spense subito.
Cedere al fumo; fumare la sua stessa marca di sigarette era l’unico modo in cui era riuscito a crollare, alla fine.
Che vergogna, John Watson.
 
 
 
 
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Alzò gli occhi sullo specchio del lavandino, nudo e con i capelli ancora bagnati.
Uno dei primi raggi di sole della giornata entrò dalla finestra, insieme all’aria calda tipica dell’estate fiorentina, e si posò sulla sua pelle fin troppo chiara.
Avrebbe dovuto abbronzarsi, probabilmente.
Dopo tredici giorni nella città italiana, finalmente era arrivato il primo rapporto di Mycroft. A quanto sembrava i vari clienti di Moriarty erano rimasti scontenti dal suo operato – il codice informatico che, a quanto pare, davvero non esisteva affatto – e si erano lanciati in una caccia all’uomo contro la sua rete di informatori e collaboratori.
Inizialmente aveva sorriso. I nemici dei miei nemici sono miei amici. Ma Mycroft aveva giustamente puntato il dito sulla possibilità che venissero a sapere della sua sopravvivenza, e quella era gente che si faceva pochi scrupoli. Dopotutto Moriarty aveva ingannato quelle organizzazioni criminali con l’unico scopo di “giocare” con lui, dunque era davvero breve il passo che lo avrebbe trasformato a sua volta in loro nemico – e quindi in preda. E lui di certo non aveva tempo da perdere con loro.
Aveva saputo da fonti certe che i principali sottoposti di Moriarty, quelli che erano a conoscenza di almeno parte del folle piano, erano già fuori dal Regno Unito, spariti dalla circolazione prima che le acque si agitassero troppo.
Jonathan Wild. Simon Newcomb. Adam Worth. Ralph Spencer. Sebastian Moran.4
Aveva dovuto pagare caro, per quei nomi. Rientrare nel giro degli spacciatori, arrivare ai magnaccia della prostituzione, parlare con i rivenditori d’armi provenienti dalla ex Jugoslavia, per arrivare infine ai ricettatori d’informazioni, introvabili e cauti quanto cari.
Era stato difficile fare tutto da Firenze, ma se si guadagnavano i contatti giusti l’Italia, in quanto a criminalità organizzata, non tradiva mai le aspettative. Soprattutto se si è Christopher Tietjens, membro decadente dell’alta società inglese, alla ricerca di chi lo ha rovinato e pronto a sborsare una rispettabile quantità di denaro.
Ormai poteva considerare bruciata quella copertura, e sarebbe dovuto partire da Firenze in nottata. Le informazioni che aveva raccolto non dicevano nulla sull’ubicazione delle persone a cui dava la caccia, ma sapeva quasi per certo che si erano spostati tutti in Asia o nel Medio Oriente. Zone di guerra, o povere, in cui difficilmente la mano della civiltà e della tecnologia poteva arrivare a stanarli.
Pensava di partire dall’India, ma Mycroft aveva deciso per lui.
Insieme al fascicolo era arrivato un biglietto aereo per Lhasa, in Tibet, e con esso i documenti della sua nuova identità.
Compresa la fototessera dell’uomo in cui avrebbe dovuto trasformarsi in tutto e per tutto.
Motivo per cui era davanti allo specchio in quel momento.
Mycroftgli aveva detto di aspettare. Di non lanciarsi subito nella caccia. Di lasciare passare l’uragano e mettersi in cerca solo quando il mare fosse stato di nuovo calmo, perché se solo si fosse fatto scoprire in giro per l’Asia sulle tracce di criminali già ricercati, si sarebbe messo troppo in vista. Le notizie nell’underground del crimine volavano ad una velocità diversa da quelle dell’overground della legalità.
Non poteva fare altro che assecondare il volere del fratello.
Sospirando, allungò la mano in un sacchetto di plastica appoggiato sul termosifone spento, estraendone un flacone d’acqua ossigenata, una confezione di permanente fai-da-te e una tinta bionda per capelli.
Quando ebbe finito, e guardò nello specchio, l’uomo che si trovò davanti non era più Sherlock Holmes.
Era Peter Guillam, agente dei Servizi Segreti, inviato a Lhasa per un appostamento diplomatico all’ambasciata britannica in Tibet. E lo sarebbe stato per molto tempo.
Tanto valeva abituarsi all’idea.
 
 
 
 
Il suo nuovo ufficio, o “studio medico” che dir si volesse, non era niente di che.
Una scrivania di legno chiaro e metallo, molto simile ad una cattedra scolastica; una libreria con testi decisamente vecchi, un appendiabiti d’acciaio, un lettino imbottito e un separé tipico dei vecchi ospedali, di quelli di plastica bianca con intelaiatura d’acciaio.
Non vi era alcun apparecchio, ma la Madre Superiora gli aveva garantito che gli sarebbero stati consegnati un ECG e uno spirometro quello stesso pomeriggio. In fondo alla stanza, appena dopo la porta d’ingresso, un armadietto bianco e chiuso a chiave conteneva siringhe, farmaci e tutto il materiale che, in mano ad un bambino, potrebbe essere stato pericoloso. La chiave dell’armadietto gli era stata consegnata insieme alla chiave della stanza stessa.
Appoggiando le sue poche cose sulla scrivania, John sospirò.
Nessuno aveva voluto assumere un BCE.
In ogni luogo in cui si era presentato a chiedere lavoro tutti sapevano già chi fosse, e meno della metà aveva avuto almeno la decenza di fargli un colloquio, prima di scartarlo. Alcuni avevano persino tirato in ballo la scusa dell’igiene e del pericolo di contagio, asserendo che la sua ferita aperta potesse entrare in contatto con il sangue di pazienti infetti – come se non esistessero cerotti e guanti appositamente creati! – e l’avevano buttata su di un patetico “è per il suo bene, dottor Watson” che puzzava di scusa lontano un miglio.
Dopo il terzo ospedale e la decima clinica privata, si era perso d’animo. Dopo il trentesimo fallimento in generale, si era ridotto a cercare il numero di Sarah in mezzo all’agenda.
Sarah era stata gentile, ma sapeva. John lo aveva capito subito non appena gli aveva risposto. Aveva detto di non aver posti liberi, nemmeno part-time, e John aveva voluto credere che fosse la pura verità solo per disperazione, in memoria dei vecchi tempi. Ed era stato proprio quello il motivo per cui Sarah, forse impietosita, gli aveva girato il numero del St. Thomas Crowford.
Un orfanotrofio.
Non aveva faticato a vederci la logica. A parte i bambini orfani per la morte dei genitori, la percentuale più alta di abbandoni si registrava fra i Bondless e, più di tutti, i BCE. Non era difficile che un Ribbon fosse assunto da istituzioni di quel tipo come medico interno, soprattutto se si aveva la “fortuna” che il Ribbon in questione fosse riuscito a finire gli studi e a diventare medico.
Erano posti come quello che gli facevano pensare a sua madre, alla santa donna che aveva voluto tenerlo con sé a tutti i costi, perché quando ci rifletteva oggettivamente non poteva fare a meno di figurarsi, nei primi anni ’80, come ospite di una di quelle strutture. Non li aveva mai sentiti parlarne, all’epoca, ma era sicuro che suo padre ci avesse pensato, prima di andarsene di casa.
Lo aveva sempre odiato ma in quel momento, completamente perso nel ciclone della vita che si era abbattuto su di lui, anche se con l’amaro in bocca non riusciva a dargli torto.
Per lo meno la vista è ottima, si disse, avvicinandosi all’ampia finestra dietro la scrivania; dava sul cortile interno dell’istituto, una distesa ampia di erba verde e alberi al momento spogli, ma poteva tranquillamente immaginarseli d’estate con le chiome piene di foglie verde chiaro. Erano querce, se non andava errato.
Un lieve bussare lo distrasse dalla vista.
« Avanti » disse, girandosi e appoggiando le mani sullo schienale della sedia.
Dalla porta entrò una giovane suora, il vestito nero invernale e il velo dello stesso colore a coprirle i capelli, al collo un rosario di perline bianche che terminava con un piccolo crocifisso d’argento. Aveva il viso lineare e dolce, gli occhi marroni e le sopracciglia bionde, e il sorriso aveva una piega dolce e benevola. Giunse le mani in ventre mentre di fermava al centro della stanza, a qualche passo dalla scrivania.
« Dottor Watson, io sono suor Agatha » si presentò: « la Madre Superiora mi ha detto di riferirle che sarò a sua disposizione per qualsiasi cosa, durante il suo lavoro qui, e che apprezziamo tantissimo la sua presenza nel nostro istituto ».
Il St. Thomas Crowford era un orfanotrofio privato gestito dalle suore. Cattolico, ovviamente, ma nonostante questo non avevano fatto obiezioni quando John aveva detto di essere un BCE. Trovandosi a crescere bambini che per la maggior parte avevano il suo medesimo problema, non provavano alcun tipo di pregiudizio dettato dalla religione.
Essendo di proprietà di privati, il personale presente non facente parte del clero – lui, due addetti alle pulizie e un giardiniere – era pagato.
In realtà lo stipendio non era granché, ma era sufficiente a coprire almeno le spese d’affitto di quella sottospecie di monolocale che aveva trovato a Shoreditch.
Sorrise alla suora, annuendo piano. « La ringrazio, sorella » rispose.
« Agatha va benissimo, dottor Watson » disse quella, prima di chinare piano la testa uscire dallo studio.
John sospirò di nuovo, spiegando il camice ed indossandolo prima di mettere a posto le sue cose.
Quello era il meglio che avrebbe potuto trovare.
Tanto valeva abituarsi all’idea.
 
 
 
 
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Il distaccamento dell’Ambasciata Britannica a Lhasa era un edificio che sembrava meno decadente degli altri solo grazie all’intonaco ancora attaccato ai muri (per la maggior parte).
L’acqua corrente era limitata e garantita da un paio di cisterne sul tetto. La caldaia funzionava a bombole di propano e, quando si spegneva la fiamma pilota, il che avveniva spesso a causa dei forti venti freddi che spiravano in quota, ci volevano quarantacinque minuti perché l’acqua della doccia si scaldasse di nuovo. Vi era una sola linea ferroviaria, costruita nel 2006, che la collegava ad una sola città e senza fermate intermedie.
Lhasa era una copia cinese delle favelas argentine adattate all’alta quota.
Nei giorni di bel tempo, che erano più frequenti di quello che si poteva pensare, tutta la città era avvolta da un panorama a 360 gradi della catena montuosa dell’Himalaya.
Dalla prospettiva di Sherlock, tuttavia, quel posto era il buco più noioso in cui gli fosse mai capitato di vivere.
I suoi incarichi per conto del Governo erano l’unica cosa che gli permetteva di resistere giorno dopo giorno. Smistava informazioni, per lo più, dal Governo agli agenti e viceversa. Un situazione comoda per uno come lui, dato che avrebbe potuto avere su due piedi dettagli sulle persone a cui dava la caccia (Jonathan Wild, Simon Newcomb, Adam Worth, Ralph Spencer, Sebastian Moran; si ripeteva quei nomi ogni mattina come una preghiera, come un mantra, come una ninna nanna stonata), ma l’incarico non rimaneva meno logorante.
Certi giorni gli sembrava di impazzire. Ma le notti... le notti erano peggio.
Il suo appartamento era un monolocale sopra una ferramenta, che per la maggior parte vendeva briglie e vettovaglie per i pastori di capre. Un cucinino, un letto, un bagno, una televisione che prendeva solo canali in cinese pieni di interruzioni, e nient’altro. Niente Internet, niente computer.
Mycroftaveva scelto bene il luogo del suo esilio.
Il più delle volte, di notte, pensava. Permetteva alla sua mente di distrarsi dal quadro generale, di abbassare le barriere che frapponeva fra pensieri e ricordi. Vagava, steso sul letto, nell’ala del suo Mind Palace che aveva abbandonato insieme a Londra, passeggiando fra le porte che aveva chiuso a chiave, sigillando dietro di esse tutti i ricordi che gli sarebbero stati d’intralcio.
La concentrazione non serviva alla caccia, no... serviva a non crollare prima di aver portato a termine il piano.
Dietro la maggior parte di quelle porte, vi era John.
Era la sua droga, era il suo “farsi male”.
A volte bastavano dosi piccole, e allora sceglieva scene legate alla loro ormai persa quotidianità.
Immaginava di trovarsi nel salotto del 221B, seduto sulla poltrona a pensare, con John di fronte a lui intento a leggere uno dei suoi libri. Oppure si vedeva al tavolo in una mattina assolata e John, seduto affianco a lui, sfogliava il giornale con una mano e con l’altra reggeva una fetta di pane tostato mezza sbocconcellata. E teneva la lingua fra le labbra, come qualsiasi volta che leggeva qualcosa di interessante, aggrottando le sopracciglia prima di leggergli dei passaggi di un articolo, convinto che potessero attirare la sua attenzione.
Ma c’erano sere in cui l’immaginazione non era sufficiente. Erano quelle notti in cui continuava a stuzzicarsi inconsapevolmente l’anello d’argento con le dita e l’unico modo che aveva per calmarsi, l’unico modo che aveva per tornare in sé, era aprire la porta più lontana e nascosta di quei corridoi e visitare l’unico ricordo che avesse il potere di distruggerlo, ma di fargli ricordare al contempo come si faceva a sorridere.
Chiudeva gli occhi e all’improvviso era a Dartmoor, il suo nome sul dito dell’uomo che stava baciando.
La sua soluzione al 7%.
 
 
 
 
Era stata una serata estenuante.
Aveva messo in conto che potesse succedergli, quando aveva accettato quel lavoro. Al St. Thomas c’erano bambini anche al di sotto dei cinque anni e, nonostante le probabilità fossero minime, c’erano.
Subito prima della fine del turno, suor Agatha aveva portato in infermeria uno dei bambini più piccoli in preda ad un pianto incontrollato.
John aveva capito subito.
Adamaveva compiuto 5 anni da poco ed era un avventore frequente dell’infermeria. Aveva tirato fuori più pennarelli dal suo naso che da un portapenne e una volta aveva dovuto persino dargli un punto per chiudere un taglio che si era fatto cadendo sui sassi. Quel bambino era una forza della natura ma non lo aveva mai, mai, sentito piangere.
Tranne quella sera.
Riconobbe quel dolore dal suono stesso del pianto.
Non si ricordava come aveva fatto a convincerlo a calmarsi e a dagli la mano sinistra, ma aveva potuto confermare ciò che sospettava grazie ad una semplice lente d’ingrandimento. Il suo SIN – “Emma” – aveva cominciato a riaffiorare e, nel farlo, stava lacerando la pelle.
Era un BCE.
Tutto quello che aveva potuto fare, era stato fargli un’iniezione per il dolore e rimandarlo a letto con una borsa del ghiaccio. Avrebbe imparato da solo cosa voleva dire essere un Ribbon, oppure già lo sapeva osservando i bambini più grandi di lui che ogni tanto entravano dalla porta principale per non uscirne più.
Lui non aveva potuto dire niente. Forse sarebbe stata la persona più appropriata, ma non ci era riuscito. Quando aveva cercato le parole per consolarlo, dentro di sé non aveva trovato niente, solo un vuoto desolante. Ciò che c’era gli era stato portato via.
E sapeva benissimo a chi dare la colpa.
 
Scosse il capo e si avvicinò alla finestra, aprendo il vetro e le persiane. L’aria fresca di fine inverno lo investì con una folata, ma nonostante i brividi lungo la schiena non la richiuse.
Estrasse dalla tasca del camice un pacchetto di sigarette, lesse la marca con una smorfia e, picchiettandolo contro il davanzale, ne estrasse una che si portò subito alle labbra. Una volta riposto il pacchetto, raggiunse l’accendino e aspirò avidamente la prima boccata.
Ormai era diventato un rituale. Non ne sentiva il bisogno durante il giorno, riusciva persino a dimenticarsi di possederle, ma la sera il pensiero tornava, e lui ne sentiva il bisogno.
Solo una. Il tempo necessario a fumarla era il anche il tempo che concedeva alla sua mente di vagare.
Di odiare. Di ricordarsi perché sarebbe stato meglio, per se stesso, non conoscere mai Sherlock Holmes. Morire con un lavoro miserabile, una vita miserabile, un disturbo da stress post-traumatico male diagnosticato e che lo rendeva uno storpio miserabile.
Tutto, fuorché affogare nell’ombra di un morto.
Tenendo stretta la sigaretta con le labbra si tolse l’anello e il cerotto. Ultimamente il dito non lo infastidiva più di tanto, anche se si infiammava regolarmente, ma sembrava che il dolore fosse calato.
Osservò il nome scritto sulla propria pelle, e subito sentì le lacrime pungergli gli occhi. Se li strinse con la mano, prendendo un respiro tremulo.
Si era stancato di amare Sherlock Holmes.
 
 
 
 
.o0o.
 
 
 
 
Uscì di casa all’una di notte, incamminandosi lungo la strada buia e deserta spazzata dal vento freddo della montagna. L’estate non aiutava, in Tibet, dove le notti erano comunque gelide e l’aria pungente.
Indossava abiti scuri per evitare qualsiasi occhiata indiscreto, anche se era improbabile che qualcuno fosse ancora sveglio in quella zona della città, e camminando velocemente si diresse alla prima cabina telefonica disponibile.
Staccò la cornetta ed inserì 2 yuan in monete. Quando il segnale diede libero, digitò un numero di telefono ed aspettò la risposta automatica del centralino; dopodiché inserì un codice numerico e, alla conferma della voce pre-registrata, digitò un secondo numero di telefono.
Finalmente, suo fratello rispose.
« Buon pomeriggio, fratellino. O forse dovrei dire buona notte, considerando il fuso orario »5 rispose con la sua solita voce calma.
Ma Sherlock non rispose alla battuta. Era preda di un’attesa febbrile e Mycroft dovette essersene subito accorto, dato che smise di mescolare il tè e il suono del cucchiaino d’argento contro la porcellana che faceva da sottofondo alla telefonata si interruppe bruscamente.
« Sherlock? » domandò dunque, la voce subito venata di preoccupazione. Era facile per il maggiore degli Holmes agitarsi, di questi tempi.
« L’ho trovato » sibilò Sherlock, premendosi la cornetta contro il mento. « Jonathan Wild. L’ho trovato, Mycroft... è qui. È a Lhasa ».
Dall’altra parte non ci fu risposta. Sherlock sapeva che Mycroft aveva ricevuto forte e chiaro e che aveva anche già tratto le sue conclusioni. Quel silenzio era di semplice attesa. Voleva sincerarsi di quali fossero le sue intenzioni.
« Lo vado a prendere ».
« No » fu l’immediata reazione di Mycroft: « è ancora troppo presto. La rete di Moriarty non è stata ancora del tutto eliminata e l’underground criminale non si è ancora fermata. Stanno continuando la caccia, Sherlock, e probabilmente Wild ha attirato l’attenzione di qualcuno spostandosi in Tibet. Sarà sicuramente seguito. Se scoprono che c’è qualcun altro che gli da la caccia– ».
« Non importa » lo interruppe Sherlock: « è un’occasione troppo ghiotta per non approfittarne ».
« Sherlock, cerca di ragionare! ».
« No, tu cerca di ragionare! » sputò a denti stretti, evitando in qualsiasi modo di alzare la voce. « Se è riuscito a sfuggire alla criminalità organizzata per più di un anno significa che è troppo furbo per farsi mettere in trappola. Devo agire ora che non se lo aspetta. Se si sposta di nuovo potrei perderne le tracce... non posso farmi sfuggire l’occasione! » esclamò, masticando fra i denti le parole come se fossero gomma dura.
Mycroft sospirò. Sherlock se lo immaginò, seduto nella sua poltrona, a massaggiarsi la tempia destra con le dita.
« Due giorni » disse infine Mycroft: « tienilo d’occhio per due giorni, il tempo necessario perché io ti faccia recapitare il necessario per la fuga. Pensi di poter aspettare almeno quarantotto ore? » domandò, il tono seccato dall’improvviso stravolgimento dei piani che lo volevano fermo in Tibet per almeno due anni.
Sherlock annuì in silenzio. « Due giorni » confermò poi.
Dall’altra parte, un sospiro. « Stai attento, Sherlock ».
« È stagione di caccia... » rispose solamente il detective, riagganciando.
 
 
 
 
Il tempo era troppo bello, quel giorno, per rimanere chiuso nello studio. Dalla finestra socchiusa poteva sentire i bambini giocare nel cortile sottostante e, considerando le risate, probabilmente quell’improvvisa ondata di bel tempo aveva fatto miracoli per l’umore grigio degli ultimi tempi.
Scendendo le scale dell’istituto con il camice addosso, John si lasciò sfuggire un sorrisetto. Dopo più di un anno di lavoro aveva imparato a conoscere i bambini per nome e, come ricompensa, molti di loro passavano a salutarlo ogni giorno all’infermeria. Il suo studio si era riempito di disegni stilizzati e colorati alla bene e meglio, e lui non esitava ad attaccare alla parete tutti quelli che riceveva. Tanto che aveva quasi terminato lo spazio disponibile.
Face un cenno di saluto con il capo a due suore sul portone, scostandosi per lasciarle passare. Una volta messo piede fuori, poi, si concesse un profondo respiro. Anche l’aria sembrava più buona, nei giorni di sole.
Rimase fermo sulla scalinata in pietra per qualche istante, considerando cosa fare. Il bambino stavano correndo nel parco  urlando a pieni polmoni, dunque era meglio evitare di passeggiare fra gli alberi. Guardandosi attorno optò per una panchina a pochi metri da lui, mezza storta e appoggiata al tronco di una quercia.
Per riposare un po’ sarebbe andata benissimo.
Scese velocemente i gradini, ma quando fu alla fine della scalinata, dall’angolo spuntò fuori una donna all’improvviso e lui, senza poter interrompere lo slancio, le finì contro. I fogli che lei portava fra le mani caddero e si sparsero al suolo con un fruscio.
« Oh, cielo! » esclamò lei.
« Mi dispiace! » si affrettò subito a dire John, appoggiandole d’istinto le mani sulle braccia per evitare che si sbilanciasse e cadesse: « mi dispiace, è che... stava scendendo le scale e non mi sono accorto di lei » si scusò di nuovo, assicurandosi che fosse bene in piedi.
Quando lei alzò gli occhi, John non poté fare a meno di sorriderle.
Aveva i capelli lunghi e mossi, biondi con riflessi castani, e un paio di occhi azzurro scuro su di un viso dolce. Indossava una gonna e un maglioncino con camicetta bianca, e un paio di occhiali da lettura dalla montatura leggera. Non indossava alcun anello, ma il nome sul dito dell’anulare sinistro era nero.
Vedova, dunque. Strano, sembrava molto giovane.
« Non di preoccupi, dottor Watson » disse quella, con voce sicura di sé: « a sua discolpa posso dire che ero disattenta anche io. Ho il vizio di leggere mentre cammino e non guardo mai dove vado » spiegò.
« Non è esattamente una buona abitudine » commentò John.
« Lo so! » rispose quella, ridacchiando.
John non poté esimersi dal ridere a sua volta.
Strano... si era quasi dimenticato come si faceva, a ridere.
Poi si ridestò, aggrottando le sopracciglia. « Come fa a sapere come mi chiamo? » domandò incuriosito, chinandosi sulle ginocchia per aiutare la donna a raccogliere i fogli caduti.
« Oh, beh, io sono l’insegnante di sostegno. Vengo ad aiutare i bambini con i compiti un paio di volte a settimana... per volontariato. Mi parlano spesso di lei... » disse, prima di abbassare la voce e aggiungere: « ...e la conosco di fama ».
John, rialzandosi e passandole i fogli che aveva raccolto, sorrise amaramente. « Già. Tendo a dimenticarmene... » rispose, scostando lo sguardo.
Calò un silenzio pesante quanto inatteso, fra loro, ma fu subito lei ad interromperlo.
« In ogni caso, è un vero piacere conoscerla! » esclamò, tenendo i fogli con un braccio contro il petto e porgendogli la mano libera: « Mary Morstan ».
« John Watson » rispose lui, stringendole la mano: « piacere mio ».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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1. Semi-citazione da “Inception”.
 
2. Nel canone Victor e Sherlock diventano amici perché il cane di Victor morde la caviglia a Sherlock. Ammetto di avere letto come nasce la loro amicizia solo dopo aver pubblicato il primo capitolo, altrimenti l’avrei usata. Ho cercato però di recuperarne qualche elemento in questo ;D
 
3. Sì, mi sto tenendo sul vago apposta XD non faccio supposizioni.
 
4. A parte Moran e Spencer, che vengono citati nel canone, gli altri nomi sono di persone realmente esistite e che, secondo gli studiosi del canone, avrebbero ispirato a Doyle il personaggio di Moriarty.
- Jonathan Wild (1683 – 1725) è stato il capo di una banda di ladri, banditi e ricattatori, venendo per questo considerato il maggiore criminale britannico del XVIII secolo.
- Simon Newcomb (1835 – 1909) fu un matematico e astronomo statunitense.
- Adam Worth (1844 – 1902) fu un criminale gentiluomo americano di origine tedesca. Fu soprannominato “il Napoleone del mondo criminale” dal detective di Scotland Yard Robert Anderson (così come Conan Doyle soprannominò il professor Moriarty “il Napoleone del crimine”).
 
5. Fra il Regno Unito e il Tibet ci sono +8 ore di differenza di fuso orario. Questo fa sì che, se Sherlock chiama all’una di notte, per Mycroft sono le 17.
   
 
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