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Autore: IdemConPatate    31/03/2013    1 recensioni
“I Can see how you are beautiful, can you feel my eyes on you,
I'm shy and turn my head away
Working late in diner Citylite, I see that you get home alright
Make sure that you can't see me, hoping you will see me”
(Shy, Sonata Arctica)
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Shy.




Mi domando se tu sia un'ossessione. Il fatto che io stia qui, ad osservarti, per ore ogni giorno credo possa fare di me uno stalker, una specie di maniaco, ma non ne sono sicuro.

In fondo siamo più o meno coetanei, so che hai solo un anno più di me perché sono riuscito a trovarti su facebook; abbiamo persino qualche amico in comune; però tu continui a vedermi senza guardarmi. Sicuramente è colpa mia, è che quando mi passi vicino e mi porti il caffè, il tuo profumo mi avvolge e il tuo sorriso mi fa balbettare ancora più del solito.

Ricordo che, una volta, sono venuto al bancone a ordinare: macchiato e brioches vuota come sempre. L’ho detto centinaia di volte, lo so dire, non incespico mai nel ripetere questa frase; ma quella volta, forse perché la tua collega mi incuteva soggezione, forse perché con la coda dell’occhio vedevo che mi stavi guardando, ci ho messo due minuti per pronunciare sei parole. La ragazza al bancone si è messa a ridere. Lo vedevo, lo sentivo: avevo le lacrime agli occhi e non osavo sollevare lo sguardo su di te, per paura che anche tu ti stessi prendendo gioco di me. Non saprò mai se quella volta hai riso o no, non saprò mai se mi compatisci o mi deridi.

Certe volte mi sorridi in modo diverso, come se mi conoscessi bene, ma poi voli al tavolo successivo, senza lasciarmi nemmeno il tempo di abbassare lo sguardo, intimidito, dinnanzi al tuo volto.

Sei leggera, parli velocemente, senza smettere di volteggiare per la sala, ridendo e chiacchierando: non vedi l’ora che finisca il tuo turno per andartene a casa. A volte piangi, lo vedo. Torni dai bagni del personale con gli occhi umidi e arrossati, tiri fuori il blocchetto, e prendi altre ordinazioni, senza smettere di riservare un sorriso ai clienti, quasi a volerli rassicurare, quasi a voler dire loro: “Sto bene, non ho bisogno di una pausa”.

Ma loro ti vedono senza guardarti.

Dici alla tua collega - la stessa che ride di me - che vai in vacanza nel week end, che te ne vai con il tuo ragazzo - sorridi molto con gli occhi umidi - lei ci crede: è felice per te, ti dice.
Ma entrambi sappiamo che questo week end non andrai da nessuna parte, proprio come me.

Una volta volevo parlarti e sono rimasto fino all’ora di chiusura per trovarti sola – le altre cameriere mi fanno paura -. Tu hai cominciato a pulire i tavoli; io tenevo lo sguardo basso, inchiodato sulle mie ginocchia - stringevo i pugni sulle gambe, cercando di farmi coraggio-.

Avevo provato la frase duemila volte a casa, prima di venire. La sapevo dire: “Piacere, io sono Giovanni”, per niente difficile, no?  Però, lì, tra i tavoli di legno, con te così vicina, non sarebbe mai uscita come avrei voluto.

Ero arrabbiato, tremavo, però, alla fine, mi sono fatto coraggio e ho provato a parlare. Tu non mi hai sentito, perché mentre io mi alzavo e cominciavo a balbettare quella semplicissima frase - ribellandomi alla mia stessa voce che non ne voleva sapere di uscire - tu avevi appena infilato le cuffie dell’ipod.
Me ne sono andato, lasciando i soldi sul tavolo, e non sono tornato per due settimane.

Ma tu te ne sarai accorta, vero?

Non entravo, ma stavo fuori, all’angolo, sempre nel solito punto: accanto alla vecchia cabina telefonica, per vederti uscire ed entrare con la spazzatura o  inforcare la bicicletta, pedalando verso casa per l’ora di pranzo. Ma tu non mi guardavi.

Ti ho seguita fino al tuo palazzo. Ti ho aspettata,  prima di vederti uscire di casa in lacrime. E poi ti ho seguita ancora, con lo sguardo basso sulle mie scarpe, non osavo fissare la tua schiena per più di pochi secondi alla volta. Mentre eravamo in un vicolo, ho pregato perché ti voltassi, lo volevo davvero, non pensavo che avresti sicuramente urlato. Ma tu non ti sei girata.

Improvvisamente mi sono sentito così stupido! Sembravo veramente un depravato, anche se quello che volevo fare era solo dirti “Piacere, io sono Giovanni”; così sono ritornato sui miei passi, senza voltarmi, quasi correndo, sperando che tu non mi avessi ancora visto.

Non sono mai più venuto al bar. Mai più.
Mi piace pensare che tu, il giorno dopo mi abbia cercato con lo sguardo, al tavolo e poi vicino alla vecchia cabina telefonica. Ma so che non l’hai fatto.

Io invece ti ho cercata.

Ti ho cercata tanto, ma nei posti sbagliati.

Ti ho cercata talmente tanto che credo di essermi perso, stupidamente inconsapevole del fatto che, per trovarti, sarebbe bastato varcare di nuovo quella soglia, e balbettare sorridendo: “Piacere, io sono Giovanni”.
E tu mi avresti guardato. Per ridere di me o per commiserarmi, non importa, mi avresti guardato.



  
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