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Autore: hikachu    31/03/2013    2 recensioni
I Gold Saint tra infanzia ed adolescenza, negli anni prima della Notte degli Inganni.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Difficile morire, ancor più difficile nascere (DeathMask)

 
 
 
Il fatto che uno come lui fosse stato battezzato col nome di Angelo era una contraddizione senza equivoci.
 
L’avevano capito bene, la levatrice e le donne venute ad aiutare, che donna Catena dal ventre aveva cacciato un diavoletto; l’avevano capito nel momento stesso in cui avevano lavato via la placenta e il sangue ed ogni traccia di lotta e di fatica, e quello, per quanto lo scuotessero o lo battessero sul sedere, si rifiutava di piangere e già respirava come se qualche spiritello nell’aria gliel’avesse insegnato in segreto. E poi, scrutava le facce di quelle estranee con occhi di coniglio con un’intensità tale che pareva le stesse studiando, soppesandole una per una per decidere quale principe infernale mandargli contro.
 
Non è così che vengono al mondo i cristiani, aveva detto poi la levatrice quel giorno stesso a sua figlia, che aveva vent’anni e allattava il suo secondo pupo sorreggendolo con la sinistra, mentre con la destra rimestava la cena. Non è così che vengono al mondo i cristiani, si era detto nell’intimità della piccola casa e presto il sussurro si era sparso tra bar e panetterie e le vie coi sampietrini divelti e il fiume dove ci si riuniva a lavare i panni, a sbatterli contro le rocce lisce come polpi ostinati a non morire.
 
La scelta del nome era stata guardata con un certo sospetto e con tanto sdegno, ché sembrava quasi di calpestare la croce a chiamare quella creatura col nome di un messaggero alato. Ma donna Catena, che ne era pur sempre la madre, sperava di porre con quelle tre sillabe un sigillo sulla creatura misteriosa che ad un certo punto doveva essersi infilata tra le sue gambe per prendersi una creatura che, certo, fino ad allora doveva essere stata innocente come ogni altra.
 
D’altronde, donna Addolorata che viveva accanto le aveva spiegato che il suo bambino era nato nel giorno di San Giovanni, e che le donne che s’intendevano di filtri e pomate si mettevano all’opera in maniera sfrenata già tre giorni prima della notte delle streghe, e che non sarebbe stato dunque da sciocchi pensare che qualcuna – una donnaccia invidiosa, senz’altro – si fosse rivolta a queste che ne capivano di stregheria. Donna Addolorata, insomma, credeva che quel figlio, a donna Catena, gliel’avessero maledetto, che avessero pescato qualche satanasso dallu ‘nfernu e glielo avessero scagliato in corpo prim’ancora che venisse al mondo.
 
E a donna Catena, che di femmine maritate e col ventre arido ne conosceva, parve di ricordare come questa o quella le avesse rivolto uno sguardo un po’ strano o un sorriso un po’ così il tal giorno che c’era il mercato del pesce o poco dopo che aveva annunciato di essere incinta.
 
Donna Addolorata di certo doveva aver ragione, perché lei aveva imparato da sua madre, che aveva imparato da sua nonna e così via, a disfarle, le fatture, e se anche questa era roba che non si poteva disfare, restava comunque una battaglia da combattere: e dunque che la creatura riceva il nome di Angelo, che si battezzi al più presto ma in una mattinata favorevole; che porti al collo un’effige della patrona vergine ogni giorno ad ogni ora e che lo si educhi alla virtù più degli altri bambini.
 
Ma Angelo coi suoi occhi da coniglio continuava a squadrare il mondo con supponenza e odiava star fermo a messa e non capiva le mortificazioni della carne e anziché porgere l’altra guancia restituiva lo schiaffo con gli interessi.
 
Rosicchiava limoni come fossero arance e sapeva catturare lucertole prima che potessero lasciargli la coda in mano. Aveva la pelle cotta dal sole che era come cuoio al punto che le cicatrici lasciavano strisce bianche come latte perché di stare a casa non ne poteva, e più sua madre cercava di afferrarlo e più scappellotti riceveva, e più lui si faceva indomabile ed indisponente e se ne stava fuori, pure con la calura che c’era dopo pranzo, quando tutti chiudevano le imposte e dormivano per qualche ora.
 
Peggio dei cani randagi sei, gli urlava dietro donna Catena, ogni speranza di salvezza perduta, ed Angelo scrollava le spalle e muoveva un altro passo avanti, mentre cercava di decidere se andare a caccia di conigli per farsi un portafortuna e vendere gli altri o se menare il figlio del proprietario del pastificio che, quando l’aveva visto l’altro giorno, aveva sputato a terra.
 
Non capiva l’ostilità che gli era stata propinata sin dal primo istante, né ormai gli interessava comprenderla perché non aveva alcuna intenzione di passar sopra o perdonare. Angelo guardava i cani randagi a cui lo paragonavano scannarsi quando uno credeva che l’altro gli avesse invaso il territorio e non si meravigliava: se ti attaccano, difenditi, fa’ sì che non ti attacchino di nuovo. Ogni altra soluzione gli sembrava uno scherzo. Persino il suo stesso nome.
 
Che garanzia ti aspetti da una vibrazione nell’aria, qualcosa che si storce e deforma passando di bocca in bocca e non resta mai identica a se stessa? Che magia c’è in un nome quando non sa nemmeno imporre il silenzio come i pugni? Quale verità si cela nell’idea di un amore divino, assoluto, incondizionato, quando quello di una madre è soltanto precetti per legarti e modellarti secondo un’immagine che non sei tu?
 
In nome di cosa, lasciarsi spingere ed accettare di non essere mai scelto da un gruppo o da un altro quando si gioca con un Super Santos quasi sdrucito? Quale gratificazione misteriosa dà il lasciarsi martirizzare, il sacrificio senza senso e senza scopo, e perché lasciare che questo tesoro sconosciuto governi le azioni di una vita intera.
 
Quale risposta, quale deterrente, quale legge senza parole, se non quella della fine, della morte che toglie tutto e promette dannazione agli agnelli che si rifiutano di farsi sgozzare.
 
È la paura, Angelo ragionava, che genera la debolezza e ti fa pensare che non ci sia nulla di sbagliato nel lasciarsi morire giorno dopo giorno. Ma anche, Angelo pensava, questa è una cosa che ha senso solo per un cristiano qualsiasi perché cos’ha da temere uno che il diavolo ce l’ha già in corpo?
 
E così rosicchiava limoni come fossero arance e mentre catturava lucertole si diceva che presto o tardi lui di lì se ne sarebbe andato, che il mondo era suo perché lui non aveva paura di niente.
 
“Non ho paura di niente!” sbraita oggi contro l’orientale che lo addestra nelle camere ardenti e segrete dell’Etna, ed è naturale che dica così, a questo punto.
 
“Niente di niente!” ripete ed è come un segnale per il maestro che è di nuovo ora di scagliarlo tra le anime desolate ed indifferenti, là dove la luce dell’Eliseo è tanto lontana da sembrare nulla più che una diceria e un’invenzione.
 
Ed Angelo trema mentre si rialza, ed ha paura, ma non lo dice, perché fintanto che la verità gli resta dentro si può far finta che sia diversa.
 
Lui non morirà perché è una stella fatta carne, un prescelto, e poi pensa al Santuario dove non ha trascorso nemmeno un anno prima di essere sbattuto di nuovo sulle coste della Sicilia, e ricorda una creaturina bianca, quasi trasparente, che sembrava doversi sciogliere sotto il sole di Grecia da un giorno all’altro e che invece si aggrappava alla vita con un’ostinazione che era anche peggio dei cani randagi.
 
Non si muore facilmente quando si deve lottare per far valere il proprio diritto di stare al mondo. Non è facile uccidere un uomo e neppure un bambino che la morte la conosca già tanto bene.
 
“Non ho paura!” urlerà, Angelo, un giorno che i morti saranno suoi sudditi e la testa del suo maestro cadrà ad un cenno del suo dito.
 
Tornerà in Grecia col cloth sulle spalle e una testa quasi mummificata nella destra e la certezza dell’invincibilità nel petto. L’acredine dei limoni non gli lascia mai la bocca, però.
 
Tornerà in Grecia e vi ritroverà quel fantasmino pallido e insieme se ne cadranno all’Inferno.
   
 
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