Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: tomlinson inside    31/03/2013    22 recensioni
Wendy era tutto ciò che avevo, che amavo. Senza di lei ora non sono niente e l'ho persa. Mi addosso la colpa perché devo. Sto diventando un fantasma, non mangio niente. I miei occhi sono contornati da cerchi viola. O sto per morire o mi uccido da solo.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Dedicata  a chiunque l'apprezzi.




If she changes her mind this is the first place she will go

I’m not broke I’m just a broken hearted man

 
 
  «Louis...» mi sussurra Wendy sfiorando le proprie labbra sulle mie. «Sei il mio angelo» appoggio le labbra sulle sue, un fugace bacio. Poi le bacio, molto lievemente, la punta del naso, la vedo arrossire mentre sorrido. Con il naso traccio delle linee invisibili sui suoi zigomi, sfiorandole piano le guance ora rosse. Le lascio piccoli e leggeri baci agli angoli degli occhi, le sue ciglia che, sfiorandomi il naso, mi provocano un leggero prurito. Mi fermo a guardarla negli occhi. È bellissima, gli occhi color nocciola che brillano di luce propria. 
 Ho un irrefrenabile bisogno di baciarla, così percorro il tragitto inverso, stavolta soffermandomi di più sulla guancia, dove lascio piccole carezze col naso mentre la sento sospirare. Prima di baciarla mi soffermo a guardarla negli occhi e a lanciare occhiate fugaci sulle sue labbra. Gli angoli della bocca le si arricciano all'insù e mentre ancora sorride avvicino le mie labbra sulle sue, lasciandole sospese a metà. Sento il suo respiro uscire dalla sua bocca a mandate irregolari e, non appena nota che sto trattenendo una risata, chiude subito la bocca. Senza pensarci altri due secondi lascio sfiorare i nostri nasi per poi appoggiare le mie labbra sulle sue. Sussulta. Oh, amo ogni volta in cui ci baciamo e fa un piccolo saltino. Le sue labbra sono ancora serrate, così con una leggera pressione cerco di dischiudergliele. Le sue mani che si muovono freneticamente sulle mie cosce alla ricerca di qualcosa. Poi la trovano, quindi afferra le mie mani, lasciando che le dita si intreccino. Finalmente dischiude la bocca e ci baciamo, sul serio. Ogni tanto stringe le mani con più forza, come per dirmi che le manca l'aria e non riesce a respirare, ma continua a baciarmi, come se il suo ossigeno fossi io. 
  «Tu, sei il mio angelo» le rispondo infine, staccando le labbra. 
 Poi la sua bocca forma una grande O, gli occhi le si ribaltano all'indietro, vitrei, sulla camicetta si forma una grossa chiazza di sangue, all'altezza del cuore. E faccio per gridare, ma non ho voce.
 
  Mi tiro su di scatto e per poco non sbatto la testa contro la mensola sopra il letto. Mi porto una mano sulla fronte, è bagnata di sudore, goccioline che ricadono agli angoli del viso. Sono fredde e per poco non rabbrividisco. La stanza è ancora buia ed è poca la luce entra dalle fessure delle persiane, ma riesco lo stesso a vedere i contorni degli armadi e della scrivania in fondo alla stanza, dove sopra ci sono rammucchiati vecchi fogli di appunti, libri e qualche penna. Ricordo vagamente di averci lasciato il cellulare la sera prima, così mi alzo.
  Appena poggio i piedi per terra il parquet mi ghiaccia la pianta e il brivido prima represso percorre a grandi linee la spina dorsale. Mi porto le mani alla testa e compio movimenti circolari sulle tempie, mentre tutto comincia a mettersi a fuoco e i miei occhi si abituano all'oscurità. 
  Wendy...
  La rivedo, mentre si gira e i suoi capelli le ricadono vorticosamente sulle spalle e sorride, un sorriso che sembra illuminare più della luce del sole che le trasforma i capelli in oro puro; il profumo di un fiore di cui non ricordo il nome mi penetra nelle narici, intanto che la sua risata rimbomba nel petto e nella testa. Era una bella giornata di primavera, era mezzogiorno, quindi il sole splendeva alto. 
  «Amo quando il sole splende così in alto» iniziò a dire tutto ad un tratto, mentre rivolgeva lo sguardo al cielo. «Rende i tuoi occhi color ghiaccio, così ghiaccio che sembrano poter gelare il sole». 
  Quegli occhi che ora piangono. Non me ne sono nemmeno reso conto. Quando tolgo le mani dal viso per poterle osservare noto che nelle pieghe c'è incastrata qualche lacrima salata.
  Alzo lentamente la testa e sobbalzo quando lo specchio al muro riflette la mia immagine, buia, mentre tengo le spalle curve e i capelli scomposti sulla fronte. Non mi prendo la briga di sistemarmeli, non c'è ragione per farlo. 
  Finalmente mi decido ad alzarmi e non appena distendo le ginocchia barcollo un po'. Appoggio la mano al muro per tenermi in piedi, mentre tutti i sintomi di una post sbornia si fanno sentire. Giro su me stesso in cerca di qualche bottiglia di alcolico: il letto, l'armadio, la scrivania, la porta in fondo alla stanza che conduce al bagno, il cestino pieno di fazzoletti e cartacce varie. No, quando ieri mi sono addormentato non ero ubriaco. 
  Quel sogno... 
  Non ce la faccio, le mie gambe vacillano mentre appoggio la schiena sul muro e ci scivolo contro, fino ad atterrare con il sedere a terra e le ginocchia strette al petto. Scoppio in un pianto incontrollato cercando di nascondere la faccia con le mani. Non voglio guardarmi allo specchio, non in queste condizioni. I singhiozzi rompono il silenzio come cristallo rotto. Sento le lacrime scendermi lungo il petto e finire non so dove. Cerco con il polso di deviare il loro tragitto o semplicemente di spezzarglielo, forse dovrei smetterla e basta. 
  «Louis! Forza muoviti!» Wendy cominciò a correre per il prato, intanto che, molto goffamente, tirava su il vestito lungo che le si inceppava sotto i piedi. Era giallo senape, con piccoli fiori color rosa salmone e foglie verdi; dietro le formava uno scollo a V, mentre davanti un elastico glielo stringeva poco sotto il seno. «Cosa aspetti?» E rideva. Ed era bellissima, così bella da far invidia ai campi di gran turco che si espandevano poco lontano. 
  Era il nostro piccolo angolo di paradiso, quel prato verde con qualche margherita qua e là e, sotto, i campi dei contadini che, alla luce del sole, sembravano risplendere di luce propria. Le sorrisi e le andai in contro. Dopo averla avvolta in un dolcissimo bacio, si distese a terra e io posai la testa sopra il suo ventre, che si abbassava e alzava a ritmo regolare, in contrasto con il cuore che le batteva in petto all'impazzata.
  La camera incomincia lentamente ad illuminarsi, apro gli occhi, e adesso posso vedere ogni minimo particolare della camera. La lavagna magnetica sopra la scrivania è coperta da foto, alcune in bianco e nero, altre sbiadite per colpa della luce del sole. Ritraggono me, tramonti, albe, città, vari posti... Wendy. La maggior parte delle foto ritrae me e Wendy, o la ragazza da sola. La gola mi si secca e gli occhi già lucidi si iniettano di sangue, così distolgo lo sguardo e lo poso sul letto. Le lenzuola bianche sono completamente sfatte e il copriletto è una piega in sé. Se Wendy l'avesse visto in queste condizioni si sarebbe messa a gridare e a rifarlo, senza lasciare nemmeno una misera balza. Reprimo l'impulso di sorridere. Tutti questi ricordi mi fanno solo male. 
  Mi rendo conto solo ora che sono ancora con il sedere a terra, le mani che tastano il parquet alla ricerca di un appiglio su cui arreggersi forte per non lasciarmi cadere più. Le sposto sulle ginocchia e mi do la spinta per alzarmi. Tutto ad un tratto, non appena sono di nuovo in piedi, mi sento piccolo, incredibilmente piccolo. Tutto sembra essersi ingigantito o forse sono io che mi sono rimpicciolito. Comincio velocemente a girare su me stesso, con gli occhi spalancati in preda al terrore, le braccia e i palmi aperti sperano di afferrare qualcosa. Comincio a sentire la nausea, quindi mi fermo. Mentre giravo mi devo essere mosso per la stanza, infatti mi ritrovo di fronte allo specchio. Deve essere alto un metro e ottanta, non inquadra le caviglie spoglie e riesco invece a intravedere gli alberi fra le persiane nella finestra dietro di me. La cornice sottile di ebano si abbina perfettamente alle pareti azzurre che, alla luce fioca che filtra, sembrano blu scure. Agli angoli ci sono appiccicati vari adesivi, di diverso colore e taglia. Poi l'occhio ricade sulla mia figura. Se non sapessi che sono io penserei che mi trovo davanti a un fantasma. Invece no, gli occhi grigi sembrano l'unica cosa accesa in tutta la stanza, lucidi. Sono contornati da occhiaie viola, così viola che sembra mi abbiano preso a pugni e siano soltanto lividi. I lividi, penso, farebbero meno male di tutto questo. Gli angoli della bocca sono piegati all'ingiù mentre sulle guance risplendono delle linee. Le cicatrici del pianto passato. La t-shirt grigia è aderente al petto, riprende le forme del petto e della pancetta. L'orlo sulle braccia mi stringe il bicipite, così con le mani me lo arrotolo fin sopra la spalla e noto delle lineette rosse sul braccio dove fino a poco prima stringeva la maglia. L'elastico dei pantaloni che pende stretto alla vita, in contrapposizione con i pantaloni blu scuro larghi alle cosce. Chi sono? 
  Sento la nausea accrescere, faccio in tempo a scattare verso la porta del bagno e ficcare la testa nel water che vomito. Non vomito cibo, visto che non mangio da giorni, solo succhi gastrici. Il sapore acre mi invade il palato stuzzicando le papille gustative. Potrei rivomitare se solo avessi qualcosa nello stomaco da rigettare. Alzo lo sguardo sul copriwater. 
  «Quella chi è?» chiesi a Stan. Il cuore cominciò a battermi forte nel petto, a ritmo coi passi dei pedoni che attraversavano in tutta fretta il Millennium Bridge. Il Tamigi quel giorno era calmissimo, anche se tirava una certa brezza primaverile, mentre i raggi del Sole si rispecchiavano sull'acqua dolce. Sembrava che un qualche miracolo, quel giorno, avesse deciso di spazzare via le solite abitudinali nuvole per lasciare spazio al Sole che solo pochi londinesi conoscevano. Era un giorno fortunato. 
  «Chi? Quella?» indicò la ragazza col pollice, che si girò e sorridendomi si avviò per raggiungerci. Non appena ci fu vicina Stan riprese «Louis, questa è Wendy. Wendy, questo è Louis.» Le porsi la mano con gli occhi che mi brillavano, lei la prese sorridendomi. Un sorriso così sincero, tutto in lei emanava purezza. Sì, era proprio un giorno fortunato. 
  Non che mi aspetto che la tazza risponda a mille mie domande, così mi alzo e con il dorso della mano mi pulisco la bocca. Sono indifferente a tutto, ma avere del succo gastrico sulla mano non è che mi alletta molto, quindi mi dirigo al lavandino e butto le mani sotto il getto di acqua gelata. Ne approfitto e, con le mani a coppa, raccolgo un po' d'acqua e mi sciacquo il viso. Alcune goccioline mi si appigliano alle ciglia, mi struscio gli occhi sull'asciugamano e disinteressato me ne esco dal bagno, dalla camera e da casa. 
  Mi guardo i piedi e sì, sono ancora scalzo. Lo zerbino mi punge la pianta come spilli, l'unico mio interesse è la smorfia che forma la mia bocca. 
  L'aria è fresca, talmente fresca che reprimo un brivido. Girare a maniche corte e scalzi alle... In realtà non so che ore sono, mi affretto a posare lo sguardo sull'orologio in fondo alla strada che, molto tristemente, segna le 6.45. Infatti in strada non c'è nessuno, solo fattorini che portano le consegne ai negozi di alimentari dall'altra parte della strada. 
  «Ehi Louis!» sento gridare. Mi giro di scatto e Matthew, il postino che gira con la bici elettrica nel mio isolato, mi saluta con un ampio gesto della mano, non perdendo l'equilibrio sull'aggeggio. Alzo semplicemente la mano a mo' di saluto, intanto il ragazzo lancia il giornale al mio vicino per poi fermarsi in fondo al vialetto di pietra che conduce alla mia porta d'ingresso. 
  «Già alzato a quest'ora?» mi sorride, il berretto da baseball blu che gli nasconde in gran parte gli occhi. Però, sotto, so che sono blu, blu ghiaccio; ne sono sempre stato geloso. 
  «Notte in bianco» affermo alzando una mano per grattarmi la nuca. Non credevo di avere ancora una voce, era da giorni che non aprivo bocca. 
  «Già, infatti non hai una bella cera amico!» detto questo rimonta in sella al suo cavallo e se ne ritorna a fare il suo lavoro, come se la nostra conversazione non ci fosse mai stata. 
  Ributto lo sguardo sull'orologio che segna, immobile, le 6.50. Mi guardo attorno, come alla ricerca di un segnale che mi dia il via, che mi dica di andare, invece resto immobile, indeciso sul da farsi, i piedi che tastano ancora lo zerbino. Welcome dude! esclama, come se davvero fossi il benvenuto. Lo amavo quando l'ebbi comprato, era tutto ciò che avevo sempre desiderato, mentre ora ci potrei sputare sopra, ora potrei sputare sopra a qualsiasi. Solo che non ho saliva e mi accorgo solo ora che la mia bocca è secca, le mie labbra sono pastose e incollate le une alle altre. Le lecco in maniera molto lenta, cercando di staccare tutte le croste, mentre guardo un punto impreciso sulla strada. 
  «Louis, sei bellissimo» si avvicinò al mio orecchio e sussurrò con dolci parole. «Sul serio, sei la cosa più bella che abbia mai visto.» 
  Eravamo distesi sul divano e lei teneva le gambe sopra le mie, le calze nere a tema floreale le facevano le gambe ancora più magre. Presi a disegnarle i contorni dei fiori, mentre intanto tenevo lo sguardo abbassato. Quando si staccò dal mio orecchio alzai lentamente lo sguardo per guardarla negli occhi. Lei era bellissima, volevo dirle, ma invece stetti zitto, quindi presi a mordicchiarle il labbro per poi baciarla, intanto che portavo le sue gambe più vicine al mio petto e lei che mi prendeva la faccia fra le mani, facendole poi scorrere lungo il collo per intrecciarle, infine, dietro alla testa, stringendo piccole ciocche di capelli. Senza che me ne resi conto le mie mani cominciarono a scorrere lungo le cosce di Wendy, sempre più in su e sempre più sotto la gonna. Lei si irrigidì ma non ci feci molto caso, ero troppo preso.
  «Louis...» si staccò dalle mie labbra tenendo la fronte premuta sulla mia. «No aspetta» disse infine non appena ripresi a baciarla. Il suo tono era stranamente dolce.  Avevo ancora le mani sulle sue cosce, sul limitare del sedere. Rimase dov'era e con occhi fermi prese delicatamente le mie mani e le portò sopra la mia pancia. Io rimasi allibito, ma non lo diedi a vedere, dileguai il mio sguardo con un battito di ciglia, poi le sorrisi. Le sue labbra gonfie e rosse mi eccitavano ancora di più. Non appena realizzò che non era arrabbiato né altro mi diede un leggero e dolce bacio, poi si sistemò sulle mie gambe e appoggiò delicatamente la testa nell'incavo del mio collo. Combaciavamo alla perfezione, mi diceva sempre. Si staccò un attimo e lasciò l'impronta delle sue labbra sul collo.
  Mi struscio la mano sul collo e sento il battito, il sangue che pulsa all'impazzata. 
  Ho paura. Sento le lacrime agli angoli degli occhi che nemmeno chiedono il permesso per uscire, ma che si gettano direttamente fino a ricadere lungo il collo. Vorrei tanto accasciarmi sugli scalini di pietra marroni, ma non ce la faccio a piegare le ginocchia, sono troppo stanco e, stranamente, mi dole tutto il corpo. Le lacrime continuano ancora a rigarmi le guance andandosi a incastrare fra l'accenno barba che non rado da qualche giorno.
  6.57.
  Mi metto le mani in tasca e scendo gli scalini. Il vialetto in pietra è bagnato di brina mattutina, la sento che si attacca alla pianta dei miei piedi, mentre il freddo mi stuzzica i nervi. Raggiunto il marciapiede guardo con aria indagatrice alla mia destra e alla mia sinistra, muovendo la testa quasi a rallentatore. Un uomo dall'altra parte delle strada mi sta fissando, squadrandomi da capo a piedi, soffermandosi su quest'ultimi che sono scalzi. Deve essere sulla cinquantina, capello brizzolato tendente al nero, alto e un po' grassoccio, tiene in braccio un cartone che sembra faticare a tenerlo, forse è tanto pesante. Reggo il suo sguardo fino a quando non ha analizzato ogni pelo del mio corpo e, stufato per non so quale ragione, si gira sbottando ed entra nel locale di fronte. Riprendo a camminare per la strada deserta a testa bassa. Le mani, che sono ancora dentro le tasche, mi tremano e, come se qualcuno potesse vederle, le chiudo a pugno premendo sulle cosce.
  Arrivato in fondo alla strada l'orologio segna finalmente le 7.01. Tiro un sospiro di sollievo, a Londra le strade cominciano ad affollarsi verso le 7.15 e, anche se voglio stare da solo per tutto il resto della mia vita, preferisco le strade affollate a quelle vuote. Questi mi mettono paura, mi ricordano che Wendy... Wendy. Ingoio il groppo che mi si forma in gola e svolto l'angolo. 
  Sinceramente sto camminando alla cieca. Il tragitto che sto compiendo non sembra interessarmi. 
  Ogni volta che passo davanti a qualche vetrina faccio di tutto pur di distogliere lo sguardo, fino a quando non mi tocca attraversare e mi vedo riflesso nei vetri dei taxi e delle macchine che mi sfrecciano davanti. Abito non troppo lontano dal Palazzo di Westminster, in quindici minuti a passo svelto ci arrivo. Svolto in Derby Gate, dove la gente sta già cominciando a camminare a passo svelto. Prendo per Canon Row, tutto dritto, fino a quando un uomo in smoking mi tira una spallata, manco ha il tempo di chiedermi scusa che il semaforo verde lo fa scattare dall'altra parte della strada. Decido finalmente di alzare lo sguardo, il Big Ben segna immobile le 7.30. Ho camminato così lentamente che ci ho messo il doppio del tempo ad arrivarci. Senza farci caso proseguo a testa alta lungo Westminster Bridge. Gente elegante, che già a quest'ora è di fretta, mi sfreccia dietro come macchine da corsa in confronto al mio passo lento e noncurante. Mi fermo a metà ponte, mi appoggio coi gomiti spogli sulla pietra, lasciando cadere il mento fra le mani. 
  «Ehi» mi salutò non staccando lo sguardo dalle pagine del libro. Avevo appena messo piede sulla soglia della porta ed ero scalzo, come diamine aveva fatto a sentirmi? Wendy era seduta sul divano marrone di pelle con le gambe al petto, il libro in equilibrio sulle ginocchia, mentre gli occhi si muovevano interessati fra le righe. Accennai un saluto con la testa, pur rendendomi conto che lei non lo avrebbe visto. Con fare pigro mi avvicinai lentamente allo stereo dietro al divano prendendo qualche CD fra le mani, mettendomi ad analizzarli con disinteresse. 
  «Che stai facendo?» chiese tutto ad un tratto con voce rigida, come se quello sfregarsi di plastica l'avesse infastidita. Mugugnai qualche strano verso con la bocca chiusa, mentre finalmente ebbi trovato quello che cercavo. 
  Non appena il disco prese a girare nello stereo subito una soave melodia irruppe nel salotto. Wendy sussultò, ma non sembrava realmente interessata poiché non staccò gli occhi dalla duecentocinquantanovesima pagina del libro. Intanto che Einaudi cresceva ad ogni battuta Wendy sembrava sempre meno interessata alla stessa pagina di quando ero entrato nella stanza. Appena mi misi seduto accanto a lei sembrò notarmi per la prima volta in quella sera. I suoi occhi si illuminarono, mentre il sorriso le si espandeva sulle guance. Mise giù le ginocchia e mostrò la scritta sulla t-shirt bianca "GIRLS DO IT BETTER" e sorrisi a quella constatazione di cui non era particolarmente d'accordo. Non portava i pantaloni, solo le mutandine nere che sbucavano dalla maglia già eccessivamente lunga, le gambe nude che terminavano in piedi coperti da calzini rosa. Non resistetti e scoppiai in una sonora risata, lei piegò la testa verso destra con aria interrogativa, quindi le indicai i calzini. Sbuffò e le sorrisi, come per incoraggiarla. 
 «Che fai? Sfotti i miei buon gusti?» si avvicinò al mio viso, i nostri nasi che quasi si sfioravano. Mi allontanai e le indicai la maglietta. 
 «In realtà non sono molto d'accordo con la frase sulla tua maglietta» le dissi tirando la maglia come un pizzicotto. Senza aggiungere altro mi tirò la camicia così che le nostre facce fossero di nuovo a contatto. Ogni volta che si avvicinava per baciarmi io mi scostavo un po' per darle noia.
 «Baciami, dannazione!» Sbottò divertita. Così, invece di baciarla, la adagiai lentamente sul divano, facendole scorrere le dita su per la schiena, come se fosse di cristallo. La musica si interruppe un secondo, per poi cambiare traccia e lasciar partire un'altra melodia. Wendy fu percorsa da un brivido e non capii se per l'attacco possente del piano o per il mio leggero tocco sulla sua schiena. Poi mi misi sopra di lei e mi abbassai lentamente sulla sue labbra. Sentivo il suo respiro uscire irregolarmente dalla bocca intanto che sfioravo le sue labbra con le mie, senza mai però arrivare a toccarle veramente. Come se fosse arrivata allo spasimo si avvicinò e finalmente premette le mie dannate labbra sulle sue. Non appena ci incominciammo a baciare con più ardore lei, in bilico sui gomiti, si tirò più su. Presi a baciarle il collo facendola, così, ridere. Sapevo benissimo quanto le faceva il solletico, ma amavo sentirla ridere. Poi, per suo piacere, la ripresi a baciare sulle labbra. Lei che mi prendeva ad avviare i capelli. Aprì le gambe così mi adagiai meglio sul suo corpo. Con la lingua percorsi la linea della sua guancia fino a raggiungere il lobo dell'orecchio destro cominciando a stuzzicarglielo. Wendy unì le gambe sulla mia schiena, premendo la mia erezione sulla sua intimità. Sospirò affannata, io mugugnai. Ero ancora fermo sul suo orecchio quindi, contemporaneamente, la bocca della ragazza era vicina al mio.
  «Louis...» Mi sussurrò lentamente. Mi staccai da lei e la guardai negli occhi. Avevo ovviamente capito cosa voleva dirmi. 
  «Wendy...» Dissi a mia volta, ma poi ripresi subito il discorso. «Non siamo qui per questo, se non vuoi...»
  «No, non ho mai detto questo!» si affrettò a dire interrompendomi, come se un suo rifiuto mi avrebbe fatto alzare e tornare a casa. 
 I miei occhi erano piantati sui suoi, in attesa di un accenno ad una risposta. Ebbero appena un lieve guizzo, poi si tirò su, lasciando che le nostre labbra si sfiorassero. Nostalgico feci per baciarla, ma stavolta fu lei ad allontanarsi. Il mio respiro si fece pesante, il mio petto che si abbassava e alzava contemporaneamente al battito del cuore di Wendy. 
  «Sì, Louis» ansimò, finalmente dandomi una risposta. Lasciai che le nostre labbra si toccassero per poi alzarmi, mettermi a sedere e guardarla che ripeteva i miei stessi movimenti. 
  «Senti Wendy... Ti devi sentire pronta.»
  «Lo sono, fidati.» Si avvicinò e mi baciò sulla guancia. «Non ho mai desiderato tanto in tutta la mia vita.»
  Mi alzai in piedi e le porsi la mano. Temevo che la accettasse indugiando, invece, con mia grande sorpresa, la prese decisa e la strinse forte, poi mi sorrise. 
  Varcata la porta della camera la sdraiai sul letto e presi a baciarla dolcemente portando le mani sotto la maglietta. Arrivate all'altezza del petto notai che non c'era nessun indumento a dividere le mie mani dal suo seno. Non appena per sbaglio glielo sfiorai si staccò dalle mie labbreae tirò un lungo sospiro. Sospirai un debole 'scusa', anche se non seppi perché. 
  Premette le sue mani sul mio petto per poi arrivare a sbottonare i bottoni della camicia bianca, che oramai sembrava tanto un indumento di troppo. Infilò una mano dentro, toccandomi all'altezza del cuore, che sembrò riscaldarsi fino a prendere fuoco. 
  «Batte per me...» sussurrò più a se stessa che ad altri. Sorrisi e lei posò il suo sguardo su di me. Annuii lentamente sempre sorridendo, le punte delle orecchie di Wendy si colorirono di rosso. Come se non fosse imbarazzata riprese a slacciarmi la camicia e una volta sbottonata tutta cominciò ad analizzarmi, scoprendo ogni singola parte di pelle tastando con le mani. Io intanto la guardavo. Sembrava stesse guardando un quadro, un quadro che si può toccare. «Sei un angelo?» chiese senza aspettarsi risposta. L'indice destro che passava per il petto, laddove la mano sinistra teneva alzata la camicia così che non ostacolasse la sua visuale. Poi prese a stuzzicarmi i capezzoli, ebbi un brivido e il mio corpo prese fuoco. Sembrò accorgersene, si tenne su con i gomiti e mi baciò. Intanto mi toglievo la camicia, lasciando che Wendy mi slacciasse il bottone dei pantaloni e tirasse giù la cerniera. Lo voleva davvero, pensai rallegrato. Le presi la mano e la fermai prima che potesse toccarmi anche là sotto. Schioccai la lingua e sembrò scocciata, poi si leccò le labbra. Addio ingenua Wendy. Mi abbassai sulle gambe sfiorando con un dito la sua intimità, sussultò portando il ventre verso l'alto. Notai che era già bagnata, il che mi fece eccitare ancora di più, ma feci finta di non farci caso intanto che mi dirigevo verso i piedi. Guardai i calzini rosa poi lei, che rise e li agitò in aria. Dolcemente glieli sfilai cercando di non farle il minimo solletico. Come se non ne potesse più di tutta quell'attesa si alzò a sedere e riprese a baciarmi, i calzini che si ammucchiavano per terra insieme alla mia camicia. Poi presi a sfilarle la maglietta, lasciando che la simpatica scritta si spiegazzasse. Con un colpo secco gliela sfilai e finì anch'essa nel mucchio. Presi a osservarle ogni minima curva, ammaliato. Il seno perfettamente sodo, la pancia con qualche chiletto in più le si addiceva alla perfezione. Sulla clavicola destra c'era il tatuaggio che amavo tanto. Tra due virgolette perfettamente allineate c'era la parola 'love'. Ci passai la mano sopra quasi sfiorandolo. Sentii Wendy reprimere un brivido. 
  «Sei bellissima.»
  Riprendemmo a baciarci. Anche i miei pantaloni volarono via. Eravamo in mutande. Ad ogni nostro contatto le nostre intimità si sfioravano, provocando brividi ad entrambi, sussulti e qualche gemito. Il suo ventre si alzava e abbassava ad ogni tocco. Mi faceva impazzire. 
  «Aspetta un attimo» le dissi alzandomi per cercare nel mucchio il portafoglio, quindi, trovato quello che cercavo, me ne tornai sopra di lei. «Questo è per dopo» le dissi porgendole il preservativo.
  Automaticamente le mani hanno preso a nascondermi il viso perché piango. Odio piangere. Sento il Sole sulla schiena che si sta cominciando a fare caldo, il ponte che comincia ad affollarsi. Mi ficco un pugno in bocca e mordo forte, cercando di non gridare, anche se dentro di me sento il mio corpo lacerarsi di grida e pianti. Appena sento il sangue in bocca mi risveglio dallo stato di shock, butto gli occhi sulla mano insanguinata, la struscio sui pantaloni lasciando sottili linee rosse. Sento i miei occhi iniettarsi di sangue e le labbra gonfiarsi per il pianto. Mi prendo i capelli, ma non ho il coraggio si strapparmeli.
 «Ehi giovanotto, tutto bene?» una signora sulla quarantina mi si avvicina, indugiando se posarmi o meno una mano sulla spalla. Mi giro per guardarla. Il gran cappello che indossa le nasconde gli occhi, lasciando invece intravedere ciocche bionde di capelli, le mani laccate di rosso lasciano intendere sia una donna di classe che si prende cura anche dei minimi dettagli. Sembra spaventata non appena i nostri sguardi si incontrano, i suoi occhi marroni sui miei di cui non ricordo nemmeno il colore, indietreggia, quasi inciampa all'indietro e, prima che possa chiedermi altro, mi scosto e me ne vado da dove è venuta. Ho ancora in testa la faccia piena di panico della donna di prima, ma con un impeto di rabbia la cancello dalla testa.
  Prendo per Upper Ground. Il viale alberato comincia ad affollarsi, qualche foglia proveniente dagli alberi che ricade ai miei piedi. Il Mulberry Bush tira su i battenti e abbassa la tendina da sole. Il proprietario si sofferma un attimo a guardarmi, poi scuotendo la testa rientra nel locale. Io ho ancora lo sguardo fisso sul punto in cui l'uomo giaceva fino a poco prima poi un uomo in bicicletta, che per poco non perde l'equilibrio e mi viene addosso, mi risveglia e mi obbliga a scostarmi verso sinistra. Riprendo a camminare. Donne con le cuffiette alle orecchie sono tutte indaffarate a fare jogging e, per fortuna, non notano la mia presenza. 
  Prima di svoltare per Rennie Street mi fermo davanti ad una vetrina di un locale abbandonato e mi scruto. L'unica cosa viva in me sembra essere la vena sul collo che pulsa globuli rossi, bianchi, sangue e rabbia. Sono talmente irato che non ho più nemmeno la forza di piangere. Riesco a notare le occhiaie viola e gli occhi gonfi come albicocche, anche se la vetrina non riflette perfettamente il mio riflesso.
  Non è che ami tanto Rennie Street, è un complesso di edifici di una modesta altezza, così, senza rendermene conto, mi ritrovo a camminare a passo svelto. La strada è talmente deserta che la cosa mi inquieta, motivo in più per accelerare il passo.
  Arrivato finalmente in Stamford Street mi fermo e mi appoggio alle ginocchia col fiatone come se avessi appena finito di correre. Respiro profondamente, a tratti irregolarmente. La gente che, noncurante di me, continua veloce la sua camminata. Sembra passata un'ora dall'ultima volta che ho guardato l'orologio, quindi faccio un giro su me stesso cercando qualcosa che mi sappia dire l'ora. 
  8.23 dice l'orologio all'incrocio fra Stamford Street e Blackfriars Road.
  Aaah odio le macchine che sfrecciano impettite sul ciglio della strada! Ora tutto è affollato, così tanto affollato che preferivo Rennie Street nel suo inquietante silenzio.
  Attraverso la strada per arrivare a Blackfriars Road, il tempo di aspettare qualche semaforo verde e finalmente arrivo a Hopton Street.
 Le strade strette sono ancora vuote, decido di riprende a camminare lentamente, lo sguardo abbassato sull'asfalto. 
  Senza che me ne rendo conto sono arrivato. St. Paul's Cathedral che svetta imponente dall'altra parte del fiume. La croce in cima alla cupola riflette i raggi del Sole e si illumina a sua volta di un oro così luminoso da sembrare il Sole stesso. Ci penso solo ora, ma oggi è una bella giornata di Sole. Wendy ne sarebbe stata contenta. Reprimo l'impulso di vomitare. Non devo pensare a lei, ai suoi capelli luminosi che sembravano seta soltanto sfiorandoli, alle sue labbra morbide e alle sue ciglia folti... Pianto i piedi a terra e serro le mani a pugno, conficcando le unghie nei palmi.
  «Ora te ne puoi anche andare Stan» gli sussurrai a denti stretti all'orecchio alludendo al fatto che volevo conoscere la ragazza a cui mi ero appena presentato e che lui era estremamente indaffarato e se ne doveva andare. Mi guardò con aria perplessa e non appena lo inchiodai con lo sguardo gli fu subito tutto chiaro.
  «Che ore sono? Uh, le nove! Be', ragazzi, io devo andare, ho davvero tante cose da fare e...» mi fece l'occhiolino e non terminò la frase. Come se Wendy avesse capito tutto scoppiò in un flebile risolino. Il cuore mi si scaldò e le sorrisi. 
  «Ti... Ti piace qui?» Le chiesi non appena Stan se ne fu andato. Che domanda sciocca! Mi feci forza per non nascondere la faccia fra le mani.
 «Intendi il ponte?» La sua voce sembrava una melodia. Sembrava una sirena dell'oceano Pacifico, mi perdevo nei suoi occhi marroni intanto che la sua voce mi cullava. Senza che potessi rispondere riprese indicando l'acqua. «Oggi è piuttosto calmo il Tamigi.»
  «E il Sole non è nascosto fra le nuvole! E' davvero un giorno fortunato.»
  «Non solo per il Sole» sussurrò sottovoce sperando che non avessi sentito. Feci finta di niente, però dentro scoppiai, cercando di non sorridere. Mi lanciava occhiatine fugaci e, se per sbaglio i nostri sguardi si incrociavano, lei buttava velocemente lo sguardo ai piedi intanto che la punta delle orecchie le si colorava di rosso. 
  «Sei davvero carina.» Non so come mi uscì, né con quale coraggio buttai fuori quella frase. Diventai rosso, misi le mani dentro le tasche dei pantaloni, mi feci coraggio e la guardai in faccia. Lei si stava stringendo nelle spalle, cercando di nascondere coi capelli mossi le orecchie che le andavano a fuoco, mentre stavolta anche le guance le si colorirono.
  «Oh, anche tu. Sei davvero bello.» Constatò guardandomi finalmente negli occhi.
  Ero sopra il Millennium Bridge finalmente. L'orologio nella torretta accanto alla cupola della cattedrale segnava le 8.57. 
  Il ponte era talmente moderno che alcune cartine non lo raffiguravano nemmeno. Ora sì che la città era affollata. Londra si è finalmente svegliata. 
  La passerella, in prossimità dell'argine, si divide in due bracci, io prendo per quello alla mia sinistra. Mi faccio largo fra la folla e prima la prima volta da quando sono uscito di casa le mie mani ricadono tremolanti lungo i fianchi, senza preoccuparmi di nasconderle dentro le tasche o di chiuderle a pugno. Ho sempre odiato la gente che, nei posti stretti, pur di passarti davanti ti spintonava senza neanche chiederti scusa, ma in questo momento non ci bado più di tanto, anzi, non ci bado per niente. Se mi spingono è anche meglio, così sono sicuro che non sto sognando. Sembra davvero un sogno, come nei film, quando sembra di camminare nella nebbia, tutto è sfocato e ai contorni della vista si forma una cornice scura. Ma il Sole splende e non c'è nebbia e non sto per diventare cieco, quindi se la gente mi ricorda che non sto sognando è meglio. 
  Non so nemmeno che ci sono venuto a fare, però voglio respirare, per davvero, per davvero da stamattina, così, arrivato all'incirca a metà ponte, dopo che i due bracci si sono uniti a formarne uno, mi fermo. Faccio scorrere le mani sul muretto di ferro che permette di non cadere di sotto, lo tasto, cercando di assaporarne ogni minima parte. E' freddo, sembra di toccare il ghiaccio, però non ritraggo la mano, sperando di poterlo scaldare col calore in corpo che forse non ho più.
  Senza nemmeno sapere come faccio mi ritrovo con le gambe penzoloni sul fiume, mi arreggo premendo le mani sul ferro. 
  «Ragazzo! Cosa stai facendo?!» sento gridarmi. «Scendi subito!»
  «Cosa ha intenzione di fare?» sento invece sussurrare alle mie spalle. 
 «Voglio solo respirare, ok?» rispondo mettendoci il tono più freddo che potessi fare. Continuo a non staccare gli occhi dal fiume. Mi sale la nausea guardando tutto quello smuoversi lento di acque. «Lasciatemi stare, andate via.» Non so se se ne vanno o meno, però si sono chetati e questo mi basta e avanza. 
  Noto che i piedi sono completamente neri, che schifo. Il Tamigi scorre lento, il Sole che ci risplende contro lo illumina di verde chiaro, quasi celeste. E' pulito, penso con aria sognante. 
  «Ah! Stavolta non mi batti Tomlinson» gridò quasi vicino alla strada, appena uscita da Soho Square. 
  «Wendy! Dove diamine corri? Aspettami!» gridai a mia volta col fiatone, sperando smettesse di correre una buona volta. Appena svoltai per non prendere un albero in piena faccia la vidi sul ciglio che mi aspettava. Eravamo a qualche metro di distanza. Io la fissavo a braccia incrociate mentre lei rideva, buttando la testa indietro, i capelli che le ricadevano copiosi sulla schiena. Fu l'ultima volta che la vidi ridere. 
  «Amore, ti devo dire una cosa» disse ad un tratto tutta seria. Ridussi la distanza che ci divideva, ora eravamo a mezzo metro di distanza. 
  «Che c'è?» le chiesi porgendole la mano. Lei non la prese, la liquidò con un ampio gesto del braccio e io la abbassai. La squadrai preoccupato. 
  Era estate, questa estate. Le infradito viola che lasciavano a vedere le unghie dei piedi laccate di blu. I pantaloncini color salmone si abbinavano perfettamente alla camicia di seta bianca che portava infilata dentro gli shorts. Gli occhiali da sole sulla testa tenevano alla larga dalla faccia le ciocche ribelli che tanto amavo. Gli occhi, che per me non nascondevano nessun segreto, in quel momento erano indecifrabili. 
  Mi avvicinai a lei e le sfiorai un braccio con la mano. Lei prese e mi baciò, prima dolcemente e poi con passione. Gli occhiali le caddero dalla testa per poi finire in terra. Quando ci staccammo non li raccolse, ma si avviò verso la strada in quel momento deserta. Mi abbassai tranquillamente per raccoglierli, ma quando rialzai lo sguardo Wendy stava già attraversando la strada senza badare minimamente alle macchine che avrebbero potuto sfrecciarle addosso da un momento all'altro. Feci per dirle di muoversi, di non sostare in mezzo alla strada, avrebbe potuto essere pericoloso, ma lei mi precedette, si fermò all'istante in mezzo alla carreggiata e si girò a guardarmi. «Louis lo sai che...» Ma non seppi mai cosa avrei dovuto sapere. Una macchina svoltò velocemente l'angolo e non fece in tempo a vedere Wendy che mi gridava contro, provò a frenare con scarsi risultati e Wendy fu spazzata via. Io ero ancora accucciato a terra, nell'atto di raccoglierle gli occhiali da sole. Nella foga di alzarmi caddero nuovamente per terra. Mi precipitai verso la strada e non appena vidi le condizioni di Wendy mi stoppai, mi premetti le mani sulla bocca e soffocai un grido. Poi mi rigirai verso Soho Square e in lacrime scappai via. 
  Non avrei dovuto lasciarla lì, abbandonata, le sarei dovuto stare vicino, aiutarla, magari ce l'avrebbe anche fatta con me accanto. Non appena raggiunsi l'altra parte del parco sentii le sirene di un'ambulanza stopparsi, mi fermai in preda al panico. Ebbi paura, tanta, mi sentivo in colpa, era colpa mia. Poco più tardi l'ospedale mi chiamò. Finalmente mi presi coraggio e mi fiondai a vederla. Ma era troppo tardi. Era morta, l'avrei dovuta salvare, mi sarei dovuto buttare in mezzo alla strada, tirarla per un braccio e sgridarla, dirle mi aveva fatto morire di paura. Ma qui quella morta era lei alla fine. Fui un codardo.
  Sento le lacrime scendere abbondanti per poi gettarsi nel fiume. Guardo St. Paul's Cathedral e l'orologio sulla torretta segna le nove meno un minuto. «Che ore sono? Uh, le nove! Be', ragazzi, io devo andare, ho davvero tante cose da fare e...».  
  Non so che fare, scappare, buttarmi, gridare. Voglio morire. Stacco le mani dal ferro e le distendo ai lati, come se potessi volare, perpendicolari al busto. Le lacrime continuano a scendere. La gente grida e schiamazza. Che si fotta, penso con sgomento. Poi chiudo gli occhi, sento che se mi butto muoio per il colpo secco, il mio cuore non reggerebbe più. Comincia a battere, così forte che temo possa scoppiare, anzi ho paura e al tempo stesso voglio che scoppi. Le braccia aperte che tremano come se dentro di me ci fosse un terremoto. Il busto che vibra. Non ho mai respirato l'aria così forte in vita mia. Eccomi. Chiudo gli occhi ed è tutto nero, e tutto nero rimane. 




YAY!
sono tornata con una nuova os, più pimpante che mai. 
allora all'inizio mi sembrava un'idea geniale, giuro, poi dopo che 
ho finito di rileggerla per correggere gli errori mi è sembrata una gran cagata,
infatti mi è venuta voglia di cancellarla e riscriverla da capo. 
che orrore, bleah! ma di già ci ho messo due settimane a scriverla (lol)
quindi... qualcuno qui mi avrebbe ucciso (non faccio nomi, vero elena, sam e chiara, e forse anche martina?)
ok, spero che vi piaccia almeno la metà di quanto io la schifo. 
lasciate una recensione così magari non entro in depressione perché è una oneshot pessima? thanks. 
giuro, ci ho messo l'anima in cuore per scriverla. AAH, fatemi sapere se pensate che louis alla fine muore o meno, che è un finale aperto e ognuno ha la sua (non vi dico la mia) ;) 
peace and love
marti. <3
  
Leggi le 22 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: tomlinson inside