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Autore: _Pulse_    31/03/2013    3 recensioni
«Helen! Helen, aspetta!».
Tom l’afferrò per un polso e Grace si voltò di scatto, fissando gli occhi nei suoi. Il chitarrista ebbe l’istinto di tirarsi indietro, perché oltre che arrabbiata sembrava davvero ferita, il verde che tanto gli piaceva lacerato da artigli che lui stesso aveva maneggiato.
«Come… come puoi pensare di usarmi dopo quello che c’è stato ieri notte?!», gli urlò in viso, furente.
Al ricordo di quello che avevano passato insieme sentì il suo stomaco contorcersi, ma presto quelle immagini furono sommerse da altre, forse ancora più scottanti nel suo cuore, che lo fecero imbestialire.
«Sbaglio o sei stata tu a dire che quello che è successo l’altra notte non doveva succedere e che non dovrà più ripetersi?! Se hai paura di mettere in gioco i tuoi sentimenti, allora non li metterò in gioco nemmeno io! Ma se metti in bella mostra tutta la tua mercanzia, in questo modo, permetti che io –».
Lo scoppio di uno sparo lo interruppe e senza nemmeno sapere come si trovò a terra, con il viso di Helen ad un centimetro dal suo.
Genere: Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Ebbene sì... siamo arrivati al capolinea. Almeno per quanto riguarda l'indagine condotta da Grace da quando suo padre è stato assassinato! Avrei voluto lasciarvi la più completa sorpresa, ma dovevo avvisarvi della quasi-fine di questa FF che ci ha accompagnati per tutti questi mesi con il suo mix di mistero, suspance, amore e lacrime: mancano infatti un paio di capitoli alla fine e ve lo dico con il cuore pesante come un macigno, perchè Grace mi mancherà, come mi mancheranno Dylan, Michael, Melanie, Lionel, Molly... e tutti i personaggi originali. Spero comunque che rimangano sempre nei vostri cuori come rimarranno nel mio :')
Ma torniamo a questo capitolo. E' inutile dire che è uno dei miei preferiti, forse è sul podio della Top 10, e spero che piaccia anche a voi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Mi piacerebbe a questo punto sapere cosa ne pensate tutti quanti, sarebbe un sogno che si avvera :')
Comunque sia vi ringrazio infinitamente e vi auguro una buona lettura. Alla prossima!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 28

“He's coming and she knows it, even though she knows why
Footsteps from the hallway, girl you haven't got time
You gotta get out, go far away”

(Witchcraft – Pendulum)

«È strano, Molly non era mai stata assente prima d’ora. Ieri ho anche provato a chiamarla, per sapere se fosse ammalata, ma non mi ha risposto».
«Dopo tutto quello che è successo, non mi sorprende che voglia stare un po’ a casa, senza sentire nessuno».
«Hai ragione, però…».
Sheila si voltò verso Ben, il quale aveva già dato prova di conoscere a fondo la biondina, manco fosse suo fratello gemello.
«Sentiamo, che cosa ti sta passando per la testa?».
Ben si infilò una mano tra i capelli per ravvivarsi il ciuffo, poi le prese la mano e la condusse fuori dalla palestra della scuola, dove si erano fermati per assistere ad una partita di volleyball.
«Secondo me è successo qualcos’altro».
«Tipo?», incalzò Sheila, roteando gli occhi al cielo mentre si lasciava trascinare.
Ben si fermò all’improvviso e si trovarono ad un centimetro l’uno dall’altra.
Non avevano ancora trovato il coraggio per parlare di quello che era successo due giorni prima e probabilmente non sarebbe successo presto, ancora intenti a sondare quel terreno inesplorato che trasformava la loro amicizia in qualcosa di più.
Imbarazzati, si allontanarono e si lasciarono pure la mano, guardando altrove.
Ben fu il primo ad aprire bocca, schiarendosi la voce per rispondere alla sua ultima domanda: «Non ne ho la più pallida idea».
«Che facciamo, allora?».
«Potremmo andare a casa sua con la scusa di portarle i compiti e…».
«Non sembra una cattiva idea».
Si sorrisero, anche se di sfuggita, e poi si diressero verso la pensilina degli autobus dall’altra parte della strada.


Per arrivare di fronte all’enorme cancello bianco di Villa Delafield avevano dovuto prendere non uno, ma ben due autobus, e poi avevano dovuto farsi un pezzo, in salita e sotto il sole cocente, a piedi.
Stanchi ed assetati, suonarono al citofono ed aspettarono che il maggiordomo gli rispondesse.
«Siamo Ben e Sheila, due compagni di scuola di Molly. Possiamo vederla?».
«Sono spiacente, ma la signorina è partita questa mattina».
«Partita?».
«Sì, è andata a Milano, in Italia. Vi resterà per un paio di giorni con sua madre, Mrs. Delafield».
Ben e Sheila si scambiarono un’occhiata stupita, quindi ringraziarono il domestico e se ne andarono.
Sulla strada del ritorno, anche se quella volta era tutta in discesa, la fatica di aver fatto quel viaggio a vuoto fece sbottare la ragazza.
«Che ci è andata a fare a Milano, dico io?! E perché non ci ha detto niente?».
Ben scrollò le spalle, mesto in viso e con le mani nelle tasche dei jeans.
Sheila lo raggiunse, anche se controvoglia, ed infilò un braccio sotto al suo per invogliarlo a camminare più rapidamente e al tempo stesso rassicurarlo: «Vedrai che tornerà più forte di prima, non temere».
«Ti va un gelato?».
La ragazza si voltò e vacillò di fronte ai suoi occhi castani, caldi e ora dolci come caramelle al mou.
Arrossendo, senza nemmeno avere la forza di aprire bocca, annuì con il capo. Allora Ben tornò a guidarla, intrecciando le dita delle loro mani. Sheila si lasciò scappare un sorriso e corse per camminare al suo fianco.

***

Dall’aeroporto di Los Angeles, il jet privato di suo padre era partito quel venerdì mattina alle sette in punto con direzione Milano, la città della moda e del design.
L’idea di recarvisi le era venuta quasi per caso, combinando una serie di fattori che le avevano fatto pensare che fosse la soluzione adatta ad ogni suo problema.
Il giorno prima aveva sentito sua madre mentre diceva a suo padre che prima o poi sarebbe dovuta andare a Milano per incontrare alcuni colleghi stilisti con i quali stava collaborando per la sua ultima linea di abbigliamento femminile e, guarda caso, si era ricordata che in quei giorni anche i Tokio Hotel si trovavano nella città italiana per promuovere il loro nuovo album.
Anticipare il viaggio di sua madre per vedere di nuovo i suoi idoli dopo tanto tempo sarebbe stata l’occasione perfetta anche per staccare un po’ la spina da tutto e riflettere sugli ultimi avvenimenti e sui suoi sentimenti.
Ciò che era successo a Nigel e la discussione con Aiden l’avevano sfibrata tanto da cedere alle insistenze di suo padre, il quale voleva che restasse per qualche giorno a casa da scuola. Successivamente, sfruttando la sua preoccupazione a proprio favore, era riuscita a persuaderlo a dare il proprio consenso a quel viaggio organizzato all’ultimo momento.
Non aveva avvisato nessuno della sua partenza, solo Grace, e a dire il vero si era sentita un po’ in colpa nei confronti di Ben e Sheila, ma sapeva benissimo che quel viaggio era la sua unica opportunità per fare un po’ di chiarezza dentro di sé: non aveva bisogno e non voleva dare spiegazioni o parlarne con qualcuno, nemmeno con i suoi migliori amici.
Dopo quasi tredici ore di volo, il suo orologio d’argento e Swarovski segnava le venti, ma il cielo fuori dall’oblò accanto al suo sedile in pelle era nero come la pece e sulla pista d’atterraggio c’erano poche luci a guidare i piloti del jet. Infatti, a causa delle nove ore di fuso orario, erano già le cinque del mattino di sabato.
Un’auto nera e dalle linee sinuose le prelevò non appena scesero le scalette del velivolo e le portò direttamente all’hotel Melià Milano, senza che ci fosse bisogno di perdere tempo ai controlli doganali. Quindi lasciarono al loro autista italiano il compito di trasportare nell’elegante hall i loro bagagli a mano, mentre loro domandavano la chiave della loro Suite Presidenziale Reale, la migliore dell’albergo.
Presero uno tra i vari ascensori per raggiungere il loro piano e sua madre sfruttò quel momento per rammaricarsi ancora una volta di non aver prenotato una suite nel primo hotel a sette stelle d’Europa, il Seven Stars, appunto, situato in Galleria Vittorio Emanuele, ad un passo dal Duomo di Milano.
«Per me sarebbe stato anche più semplice raggiungere il Quadrilatero della moda!».
«Lo so, mamma. La prossima volta dirò ai Tokio Hotel di pernottare in quelle stanze», rispose stizzita Molly, appoggiata ad una delle pareti a specchio, un paio di grandi occhiali da sole firmati Chanel calcati sul viso.
«Non volevo di certo dire questo, tesoro. Domani, cioè… più tardi, li vedrai?».
«Probabile».
La donna la fissò, stupita dal suo poco entusiasmo: sognava di vedere Milano da quando aveva cinque anni e al solo pensiero di rivedere i suoi idoli avrebbe dovuto fare i salti di gioia! Invece niente.
Ma si rassicurò presto, dicendosi che era solamente provata dal lungo viaggio e forse ancora scossa per quello che era successo al suo amico Nigel, e la seguì fuori dall’ascensore, già con il passepartout nella mano.

***

«Forse dovresti andare a dormire. Sembri stanca, dalla voce».
«Ma ti sei sentito tu? Sembra di parlare con un uomo delle caverne!».
Tom rise e si controllò il viso su una delle pareti riflettenti dell’ascensore, mentre suo fratello chiacchierava con Gustav e Georg.
«Io mi sono svegliato da poco, ho bisogno di carburare», le rispose alla fine, scoccando un sorriso alla sua stessa immagine.
«Io non riuscirei a chiudere occhio comunque».
«Perché?».
Grace, a Los Angeles, si morse la lingua, maledicendosi per avergli rivelato quell’insignificante quanto importante particolare.
Lui non sapeva che Lionel era vivo, in una casa sicura, inserito nel Programma Protezione Testimoni dell’FBI; non sapeva che era stato Bryant a sparargli, poiché aveva sempre collaborato con l’organizzazione criminale ed era stato lui ad introdursi in casa sua per rubare il suo cellulare, avvelenando tra l’altro i loro cani; non sapeva che lo stesso Bryant ora collaborava con l’FBI e non poteva di certo dirgli che era venuta a sapere che dalla sera di giovedì non aveva più comunicato la sua posizione agli agenti ed aveva iniziato a risultare irrintracciabile.
«A volte mi capita, un attacco di insonnia», mentì alla fine, modulando la voce per fargliela bere. E dal modo in cui le rispose dovette cascarci in pieno.
«Io avrei saputo come far passare il tempo».
Grace ridacchiò proprio nel momento in cui le porte dell’ascensore si aprivano dopo un din e i componenti dei Tokio Hotel si incamminavano verso la sala buffet dove avrebbero fatto colazione.
«Per il resto nulla di nuovo?», le chiese.
«No, nulla di particolare. Tu quali impegni hai oggi?».
«Abbiamo un paio di interviste qui in hotel e poi un’apparizione TV, in un programma italiano di cui ora mi sfugge il nome… aspetta, come si chiamava… Bill?! Bill, come si chiama il programma –? Oddio».
«Che è successo?», domandò Grace, allarmata.
Tom scosse il capo e sbatté le palpebre un paio di volte per verificare che non fosse una specie di allucinazione.
In coda al gruppo, impegnato nella conversazione con Grace, era arrivato per ultimo nella sala buffet e solo quando aveva cercato lo sguardo di Bill si era accorto della ragazzina bionda, seduta ad un tavolo vicino ad una delle due ampie vetrate, già accerchiata dai suoi amici, i quali le stavano chiedendo cosa ci facesse lì a Milano.
«Molly… Molly è qui!».
«Ah, sì, mi è sfuggito di dirtelo. Beh, meglio che tu vada da lei. Ci sentiamo dopo, ti amo».
Grace chiuse in fretta la chiamata, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere, ma lì per lì Tom non vi diede troppo peso e raggiunse i suoi compagni di band.
«Molly!», gridò sorpreso, facendosi spazio tra Georg e suo fratello. «Che ci fai qui?!».
La ragazzina gli rivolse un sorriso tirato che lo impensierì, come il velo di tristezza che le patinava gli occhi di solito così luminosi.
Grace, qualche giorno prima, lo aveva aggiornato sulla risoluzione del caso riguardante l’omicidio del padre di Aiden, il ragazzo per cui Molly si era presa una cotta, e sapeva che era stato un duro colpo per lei vedere in manette il padre di quel ragazzo, Nigel, che alla fine era diventato un suo amico. Si chiese se non fosse dovuta a questo, la sua fuga da Los Angeles, e si pentì persino del tono ben poco delicato che aveva usato.
«Come dicevo agli altri», disse, «ho accompagnato mia madre». Indicò la donna seduta di fronte a lei, con i capelli biondi e a caschetto, gli occhi azzurri e un sorriso incantevole sulle labbra, che rendeva luminoso e ancora più giovanile il suo viso. «Tom, lei è mia madre. Mamma, lui è Tom, il fidanzato di Grace».
Mrs. Delafield gli strinse calorosamente la mano, felice di conoscere finalmente questo famoso Tom, di cui sua figlia le aveva tanto parlato, e il chitarrista, ancora un po’ imbarazzato per essere stato definito “il fidanzato di Grace” – ciò che in fondo era – ricambiò la cortesia dicendole che l’aveva scambiata per sua sorella.
«Sapete, mamma deve incontrare dei suoi collaboratori ed era da tanto che io volevo vedere la città, così ho deciso di partire insieme a lei», spiegò ancora Molly.
Bill incrociò le mani di fronte al petto e sorrise smagliante. «Wow, è proprio una fortunata coincidenza! Prima di pranzo abbiamo giusto un paio di ore libere! Potremmo andare a fare un giro insieme, che te ne pare?».
«Io la trovo un’idea meravigliosa, tesoro», la incitò sua madre, accarezzandole una mano.
Molly annuì, anche se subito dopo abbassò gli occhi sulla tazza vuota di fronte a sé, giocando col cucchiaino e i rimasugli di caffè rimasti sul fondo.
Improvvisamente Tom si sentì stringere il cuore, captando la tristezza che cercava di soffocare dentro di sé e di celare a loro, e ricordò una delle loro ultime chiacchierate al telefono.

«Sai qual è l’unica cosa che mi farebbe felice, adesso?».
«Cosa?».
«Abbracciarti. Mi farebbe stare molto meglio».

Quella volta era solo confusa sui sentimenti che provava per Nigel e per Aiden, ma aveva sentito comunque nella sua voce una nota di malinconia e aveva promesso a lei, e a se stesso soprattutto, che l’avrebbe abbracciata non appena si sarebbero visti di nuovo. Ora era seduta davanti a lui, con una voragine al posto del petto perché gli eventi si erano evoluti in maniera imprevedibile, provocandole vero e proprio dolore per quel sentimento tanto irrazionale chiamato amore, e lui non trovava il coraggio per fare ciò che aveva promesso.
«Beh, sarà meglio che facciamo colazione anche noi, prima di cominciare la giornata in ritardo», esclamò Bill ad un certo punto, interrompendo il silenzio.
«Noi abbiamo finito, potete mettervi qui, è il tavolo migliore», disse Molly, alzandosi poco prima di sua madre. Poi, con un minuscolo sorriso, si rivolse a Bill: «Allora ci vediamo più tardi».
Fece per raggiungere sua madre, la quale si era già avviata verso gli ascensori, ma Tom le prese una mano all’improvviso. Molly si voltò verso di lui e il chitarrista strinse le labbra, amareggiato, leggendo nei suoi occhi lucidi come specchi tutta la stanchezza e la delusione che provava per ciò che era successo alle persone intorno a lei e che, come un’onda, l’aveva travolta, trascinandola lontano.
Tom aprì finalmente le braccia per invitarla a trovare un appiglio contro il suo petto, ma la ragazzina chinò il capo e lasciò che la sua mano piccola scivolasse via da quella grande e callosa del chitarrista. Quindi si allontanò senza mai guardarsi indietro ed uscì dalla sala buffet.

***

Terminata la chiamata con Tom, Grace sospirò appoggiandosi contro la parete alle sue spalle e si passò le mani sul viso stanco e sciupato.
Mentire a Tom era l’unica soluzione possibile, lo sapeva, ne valeva anche della sua incolumità oltre che quella di Lionel, ma si sentiva così in colpa… Come se non bastasse aveva un pessimo presentimento, che l’aveva resa inquieta e con i nervi a fior di pelle per tutto il giorno, seduta sul divanetto accanto a Dylan, il quale ogni tanto aveva avuto la sfacciataggine di appisolarsi, rannicchiato come un bambino, mentre l’agente Crawford faceva avanti e indietro dal suo ufficio alla base operativa al piano sottostante, tornando sempre con la solita risposta scritta in fronte: «Nessuna novità».
Bryant era sparito nel nulla da più di ventiquattr’ore ormai e non sapevano più dove sbattere la testa, visto che alcune squadre dell’FBI avevano già controllato tutti i covi dell’organizzazione criminale che Bryant era riuscito a rivelargli, facendo un completo buco nell’acqua ogni volta.
Quindi aspettavano. Aspettavano che Bryant facesse quella maledetta chiamata di routine, spiegando il motivo del suo ritardo. Aspettavano, anche se Grace era più che convinta che ogni minuto che trascorrevano con le mani in mano poteva essere l’ultimo per la vita di Bryant.
«Dobbiamo intervenire», decretò per l’ennesima volta, entrando nell’ufficio e trovando Michael seduto con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani tra i capelli, accanto a Dylan, il bell’addormentato.
«Lo so, Grace, lo so. Ma che cosa possiamo fare? Mettere dei rilevatori di posizione su Bryant era troppo rischioso, per non parlare di alcuni uomini… Ci affidavamo alle sue chiamate da cellulari usa e getta, e adesso siamo nella merda, senza avere la minima idea di dove andare a cercarlo».
«Ma non possiamo nemmeno starcene chiusi qui dentro e aspettare che qualcosa si smuovi!».
Michael si alzò di scatto e la fronteggiò, con espressione bellicosa. «Hai qualche idea migliore?!».
Dylan si alzò lentamente, a causa delle gambe intorpidite, e si mise tra loro, posando le mani sulle loro spalle.
«Ragazzi, nemmeno litigando risolveremo qualcosa».
Grace sbuffò dal naso, ridotta ad un fascio di nervi tesi, e stringendo i pugni lungo i fianchi gli voltò le spalle, decisa a fare qualsiasi cosa, qualsiasi, anche girovagare per le strade di Los Angeles per ore, piuttosto che restare ancora un minuto in quella stanza.
Uscì dalla sede dell’FBI e raggiunse il suo fuoristrada in tutta fretta, desiderosa di sfogare il suo nervosismo guidando.
Vide un volantino bianco incastrato tra i tergicristalli e sbuffando fece per strapparlo via, ma un colpo di vento improvviso lo voltò e lei si irrigidì sul posto. Non era un volantino, bensì una fotografia: lei e sua madre, sorridenti e col mare alle spalle, avevano lo sguardo puntato verso l’alto per ammirare il loro aquilone che finalmente si librava nel cielo azzurro. Era la foto dietro la quale aveva trovato la polaroid che l’aveva portata fino a Berlino e che le aveva permesso di trovare la preziosissima agenda di suo padre. Che ci faceva lì? E soprattutto, chi si era introdotto in casa di sua madre per recuperarla?

Mamma!
Terrorizzata al solo pensiero che qualcuno potesse averle fatto ancora del male saltò sul fuoristrada e pestò il piede sull’acceleratore, sgommando sull’asfalto.

Aprì la porta di casa con il suo doppione delle chiavi e portò istintivamente una mano dietro la schiena, sul calcio della pistola, mentre percorreva il corridoio fiancheggiando la parete.
«Mamma?», la chiamò sottovoce, senza nascondere l’ansia intrisa nella sua voce.
«Shhh. Non vorrai mica svegliarla, vero?».
Nella più totale oscurità, Grace puntò la pistola verso la poltrona in salotto, da dove proveniva quella voce. Le sue braccia però si piegarono di scatto, come colpite dal taglio di una mano, quando i suoi occhi si posarono sull’uomo il cui volto veniva illuminato dalla luce della luna, che le permetteva di scorgere il suo sguardo vispo ed intelligente e le sue labbra tirate in un sorriso beffardo.
Il portiere del palazzo dove si trovava il suo ufficio. L’uomo che aveva affittato l’hangar per l’organizzazione criminale, che era presente durante la sparatoria all’Halo e forse l’aveva anche causata. L’uomo che aveva parlato con Doc Mahkah, dicendo quelle cose su di lei. L’uomo che le aveva salvato la vita a Berlino, uccidendo il suo ex-complice.
In un nome e cognome, quelli veri, John Carter.


«Lo so che hai un sacco di domande da farmi e ti prometto che un giorno…».
«Non ci pensare nemmeno», lo interruppe rabbiosamente la detective. «Ho bisogno di risposte e tu sei l’unico in grado di darmele. Può anche darsi che questa sia l’unica volta che ci vediamo».
Carter sospirò stancamente e sprofondò di nuovo sulla poltrona, le mani intrecciate sullo sterno.
«Sappi solo che ogni minuto che perdiamo potrebbe essere…».
«Tu collaboravi con mio padre?», fu la sua prima domanda, dura come uno schiocco di frusta.
Carter chiuse gli occhi come se fosse stato davvero colpito alle spalle, ora curve in avanti sotto un peso invisibile, ed annuì con un cenno del capo. «Sin da quando mi è venuto a cercare per chiedermi informazioni sull’attentato sventato a Baghdad. Era tutta una farsa studiata da alcuni ufficiali di marina lautamente ricompensati perché armi americane finissero nelle mani di una cellula terroristica irachena. L’ho capito solo quando tuo padre mi ha messo la pulce nell’orecchio buono», indicò quello sinistro con due dita, un sorriso effimero sulle labbra.
«Quindi voi due collaboravate e per incastrare i killer assoldati dagli ufficiali tu sei diventato uno di loro. È così?».
Carter mosse la testa in un cenno d’assenso, già consapevole e pronto a sostenere lo strazio della prossima domanda.
«Perché hai lasciato che lo uccidessero? Perché hai permesso che me lo portassero via in quel modo?».
Non ebbe la forza di sollevare gli occhi nei suoi e rispose con voce pacata, intrisa di dolore: «Ero appena entrato nell’organizzazione, non avevo ancora la loro fiducia e col tempo ho scoperto che era la loro prassi: si dice solo ciò che è indispensabile che i collaboratori sappiano. Mitch però… l’aveva intuito, non so come, ma… Lui è sempre stato più bravo, sempre un passo avanti a me, e se solo l’avessi capito anche io… avrei fatto di tutto per salvarlo, credimi».
Grace lo fissò in maniera inquisitoria, ancora sulla difensiva. Poi chiese con la stessa durezza nella voce: «Sei un bravo cecchino?».
«Se quello che vuoi sapere è se ho ucciso io quello spacciatore, la risposta è sì».
Carter vide il suo volto disgregarsi lentamente: dall’imperturbabilità passò ad uno stato di desolazione e di stordita incredulità.
«Tu hai ucciso Doc Mahkah?».
«Sì. So che era un tuo amico ma, fidati, non avrebbe esitato ad usarti come scudo se tu gliene avessi dato il tempo. Quella è stata solo una delle tante… prove di lealtà a cui l’organizzazione mi ha sottoposto. E per fortuna non sono stato sfortunato come Bryant… Non sarei mai riuscito a fare del male a persone a cui tenevo, piuttosto mi sarei ammazzato».
Quelle parole parvero far breccia nel muro che Grace aveva eretto intorno a sé per difendersi da quell’uomo che era sempre stato irraggiungibile, una macchia invisibile nella sua vita. Infatti, con un gesto della mano gli diede il via libera per spiegarle che cosa ci facesse in casa di sua madre, dove l’aveva attirata con l’espediente della fotografia sul suo parabrezza.
«Dobbiamo intervenire subito, so dove si trova Bryant». La sua voce era tornata forte, rinvigorita dalla determinazione di salvare quello che un tempo era stato uno dei suoi migliori amici.
Grace incrociò le braccia al petto ed aggrottò le sopracciglia, nell’ultimo tentativo di resistenza contro l’istintiva fiducia che provava nei suoi confronti.
«Perché mi dovrei fidare?».
Carter si alzò dalla poltrona, lasciandosi scappare un risolino quasi isterico che venne inghiottito dalla serietà dei suoi occhi castani.
Si era tolto le lenti a contatto che li avevano resi azzurri e aveva cercato di levare via il più possibile la tinta che fino a qualche settimana prima lo aveva fatto passare per biondo. Si era lasciato crescere un po’ di barba, o più semplicemente non aveva avuto tempo di radersi, e persino il suo viso sembrava diverso, più pallido, come se l’abbronzatura sulla sua pelle fosse svanita all’improvviso. Trucco? Se davvero aveva usato fondotinta e terra, doveva ammettere che non se n’era mai accorta.
«Se non ti fidi di me, non so di chi altro ti potresti fidare in questo momento».
«Di Dylan e di Michael».
L’uomo quella volta sorrise dolcemente, anche se Grace ebbe la sensazione che la stessa giudicando un’ingenua.
«Loro non sanno quello che so io. Loro non ti hanno protetta in tutti questi anni, cambiando continuamente identità. Ho fatto persino l’inserviente alla tua università. Sì, pulivo i cessi pur di tenerti d’occhio».
Grace rivide il suo volto fuori dalle aule di lezione, anche se parecchio diverso grazie alla sua abilità di agire sotto copertura, e ne fu quasi sconvolta.
Carter si fece ancora più vicino e le tolse di mano la pistola, posandola sul mobiletto accanto all’ingresso.
«Loro, in particolare Dylan, non ti hanno salvato la vita a Berlino», continuò in tono pacato, accarezzandole la mano con il pollice. «Loro non conoscevano Mitch come lo conoscevo io».
Grace si scostò chiudendo gli occhi ed indietreggiò fino a trovare la protezione dello schienale del divano, che fece da barriera tra loro. Quindi lo fissò intensamente, stringendo gli occhi verdi come quelli di suo padre.
«Dimmi dove si trova Bryant».
Carter sorrise e tirò fuori una mappa di Los Angeles, la stese sul tavolino basso, in modo che fosse anch’essa illuminata dalla luce lunare, e si inginocchiò sul tappeto. Grace fu costretta ad andargli accanto.
Quelli segnati con dei cerchi rossi erano tutti i covi ancora attivi dell’organizzazione criminale, mentre quelli sbarrati con le X nere erano quelli già sgomberati. Carter ne indicò uno che era stato cerchiato di rosso più degli altri, tanto forte da rischiare di bucare il foglio, e scambiò uno sguardo con Grace, con un misto di determinazione e di paura sul viso.
«Credo sia arrivata l’ora della resa dei conti».

***

Erano passate appena due ore, quando lei, Dylan e Crawford scesero da uno dei furgoni blindati dell’FBI, con i loro giubbotti anti-proiettile addosso e armi alle mani.
Il punto indicatole da Carter si trovava a ridosso delle Hollywood Hills, in una zona molto isolata e boschiva, tanto che Grace si era chiesta se potesse essere mai possibile: perché avevano scelto quella villa iniziata e mai conclusa come ultimo covo? Come avrebbero fatto a scappare, così circondati dagli agenti delle squadre speciali dell’FBI e costantemente sorvegliati dagli elicotteri? Magari era tutta un’enorme trappola e Carter li aveva mandati a morire. Oppure era stato tutto un diversivo creato apposta per fargli perdere tempo a trovare ed organizzare quelle risorse mentre loro si dirigevano verso sud.
Grace si guardò intorno ancora una volta, inquieta, cercando di memorizzare i punti d’accesso e d’uscita della villa incompleta. Quindi si avvicinò a Crawford, il quale, con Dylan e un altro paio di agenti, stava ricontrollando con l’uso di una torcia elettrica la piantina della casa.
Quando il poliziotto incrociò il suo sguardo, l’avvicinò e la guardò dritta negli occhi prima di abbracciarla, stringendola forte a sé.
«Dovremmo avvisare Bill e Tom», le sussurrò all’orecchio, preoccupato quanto lei di non uscire più da quella villa.
Aveva ragione, avrebbero dovuto farlo e ogni secondo che passava si sentiva sempre più pesante per i sensi di colpa, ma… no, non avrebbe mai potuto farlo. Sentire la voce di Tom, ricordare la promessa che gli aveva fatto quando era stata aggredita a Berlino, le avrebbe impedito di entrare in quella casa per paura di non sentirlo né vederlo mai più. Non poteva rischiare di essere travolta dall’amore per Tom, dalla prospettiva di vivere pacificamente con lui per il resto dei suoi giorni. Non ora.
Grace si scostò dolcemente, gli occhi ardenti, e con tono da non ammettere repliche rispose: «Non se ne parla».
Dylan abbassò il viso. «Ho un brutto presentimento».
Non gli disse che ce l’aveva anche lei, come non gli disse che aveva paura. Semplicemente gli batté la mano sulla spalla e tirò fuori la sua fidata Glock per togliere la sicura.
Si guardò intorno nuovamente, quella volta per scorgere l’ombra di Carter dietro qualche albero nelle vicinanze, invano.
«Sarò sempre ad un passo da te», le aveva detto prima che lo lasciasse nel salotto della casa di sua madre.
Avrebbe dovuto sentirsi rassicurata, o perlomeno rincuorata che qualcun altro le guardasse le spalle, eppure la sua risposta era stata secca e tracciata da un velo di malinconia: «Non potrai proteggermi per sempre».
Scrollò il capo per mandare via il suo viso, i suoi occhi ora più familiari che mai, le sue parole pronunciate con tono quasi paterno.
Allontanandosi da Dylan si era avvicinata ad uno dei capi delle squadre speciali ed attirando la sua attenzione gli domandò: «Siamo pronti?».
Purtroppo non fece in tempo a sentire la sua risposta, perché un urlo agghiacciante si levò dall’interno della villa, mobilitando e mettendo in allerta tutti quanti. Muovendosi in fretta e silenziosamente e comunicando a gesti, si posizionarono rasenti il muro della facciata. Quindi, ai segnali dei capi squadra, sfondarono le poche porte installate ed entrarono.

Che la festa abbia inizio.


Se all’esterno quella villa risultava semplicemente incompleta, senza nemmeno una mano di vernice sulle pareti grigiastre, all’interno era un vero e proprio scheletro, con ancora le impalcature e metri e metri di cellophane tra le varie stanze e sui pavimenti scabri.
Gli agenti si separarono per controllare in ogni anfratto, comunicando con gli auricolari o a gesti quando era «libero».
Grace, Dylan e Crawford si ritrovarono insieme per ispezionare il piano superiore e furono costretti a dividersi quando sentirono i primi spari, diretti proprio contro di loro.
Nascosti dietro due angoli adiacenti del corridoio, Grace e Dylan si scambiarono un’occhiata e al «tre» si sporsero e spararono contro il loro nemico, un’agile ombra che si dileguò tra il fruscio dei teli di plastica.
Crawford, il primo a muoversi quando poterono uscire allo scoperto, partì alla sua rincorsa, ma si fermò di fronte ad una porta spalancata, con gli occhi sbarrati dall’orrore: Bryant aveva le mani legate con una corda che lo teneva appeso al soffitto, era seminudo ed era stato torturato per ore intere, con tagli e bruciature in ogni punto visibile della sua pelle, tanto che la vasca da bagno sopra la quale si trovava era spaventosamente piena di sangue, che continuava a gocciolargli dai piedi.
«Mio Dio», esclamò senza fiato, quando Dylan lo raggiunse.
Sentendo la sua voce, l’ex-marine sollevò faticosamente la testa, fino ad allora abbandonata sullo sterno, e li guardò con occhi imploranti ma rassegnati, intrisi di sofferenza.
«Dovete andarvene da qui», biascicò, sputando sangue ad ogni parola: aveva perso quasi tutti i denti, forse estratti senza anestesia per invogliarlo a parlare.
Dylan si avvicinò a lui e si arrampicò sul bordo della vasca per poterlo tirare giù, ma Crawford lo prese per il giubbotto anti-proiettile e gli indicò lo strano rigonfiamento intorno alla vita di Bryant, coperto da una specie di foulard nero messo lì come a volergli coprire le nudità, facendolo sembrare un martire come Cristo in croce.
«Ci sono esplosivi ovunque», rantolò ancora l’ex-marine. «Lei ha… ha il telecomando».
«Dobbiamo chiamare gli artificieri, non possiamo…», sussurrò Dylan, in preda al panico.
«Non c’è tempo. Dovete andarvene o morirete qui dentro!». Ce l’aveva messa tutta per alzare la voce e rendere il suo suggerimento simile ad un ordine, ma le forze lo abbandonarono e gli fecero abbassare di nuovo il capo contro il petto, senza che emettesse nemmeno un rantolo.
Michael, lentamente e con cautela, tirò giù Dylan dal bordo della vasca. Quindi si sporse in corridoio alla ricerca di qualche agente in carne ed ossa, mentre continuava a sentire, direttamente nel timpano destro, i bisbigli degli uomini in perlustrazione. Fu allora che si accorse dell’assenza di Grace, rimasta con loro fino ad allora.
Si voltò verso il poliziotto, pallido come lui, e non ci fu nemmeno bisogno di parlare.


Con il sudore che le imperlava la fronte e le palpitazioni a tremila, si acquattò dietro ad un vano senza porta e dopo un respiro profondo rotolò dall’altro lato, evitando di un pelo un paio di pallottole e sparando a sua volta e un po’ alla cieca all’interno della stanza. Dal gemito soffocato che riuscì a sentire, però, capì di averla colpita.
Aveva scorto il suo viso dai lineamenti orientali quando si era guardata le spalle prima di fiondarsi in quella stanza e per un attimo i loro sguardi si erano incrociati.
Lei era l’ultima rimasta della sua organizzazione criminale, perché il suo unico vero complice era morto, ucciso da Carter quando l’aveva salvata.
Lei era il capo, lei aveva dato l’ordine di uccidere tutte quelle persone innocenti o meno, tra cui anche suo padre.
Appena aveva visto i suoi occhi neri, tanto da non scorgervi nemmeno le pupille, aveva avuto addirittura la sensazione che fosse stata lei ad uccidere suo padre, con un freddo colpo alla nuca. Di certo non poteva essere stato il suo complice, molto più portato per la furia animalesca, quella che aveva avuto modo di provare sulla sua pelle e che probabilmente era stata quella che aveva travolto sua madre.
Ed ora era ad un passo dal rendere giustizia a tutti, suo padre in primis.
Si sporse all’interno per monitorare la situazione e vide la sua ombra longilinea spiccare un salto oltre il parapetto della terrazza illuminata dai raggi della luna. Grace allora si alzò, rischiando di scivolare di nuovo sulla superficie ricoperta di cellophane, e corse fuori, accolta da una brezza leggera e profumata.
Guardò giù, dov’era saltata la sua preda, e la vide correre di nuovo all’interno della casa, scavalcando il foro creato per una finestra. Era saltata giù come un gatto, atterrando su un mucchio terra ora cotta dal sole e più simile a sabbia.
Dopo un rapido esame dei pro e dei contro dovuti a quella caduta, Grace uscì di corsa dalla stanza e si fiondò giù dalle scale, seguendo poi i boati degli spari per orientarsi.
«Lei è mia!», avrebbe voluto gridare a chiunque tentasse di colpirla e di fermarla, ma non ce ne fu bisogno, perché lei riuscì di nuovo a scamparla, ferendo anche un paio d’agenti. Grace si lanciò al suo inseguimento un’altra volta e finì in un corridoio buio e con diverse stanze da entrambi i lati. Si appiattì contro il muro e con la Glock sollevata accanto al viso provò a controllare i battiti del suo cuore impazzito che non facevano altro che rintronarle nelle orecchie. Stava per entrare nella prima stanza alla sua destra, quando la donna sbucò da quella più avanti e le sparò addosso dopo aver dato un ultimo colpo al caricatore appena inserito.
Grace ebbe la prontezza di riflessi di buttarsi dentro la stanza al suo fianco, anche se un proiettile la colpì di striscio alla gamba. Provò a ricambiare la cortesia, gettandosi fuori all’improvviso, ma l’asiatica si era già infilata dentro alla stanza in fondo al corridoio, da cui proveniva un buio profondo: una cantina?
Grace accese la torcia e si strappò l’auricolare dall’orecchio, infastidita dai fischi e dalle interferenze che aveva iniziato a fare dopo lo scivolone che aveva fatto durante l’inseguimento. Quindi si avvicinò alla porta buia e si ritrasse, trasalendo, quando vide i bagliori di alcuni spari all’interno. Per un attimo aveva rischiato di essere invasa dalla paura, ma l’adrenalina fece il suo effetto e rasentando il muro scese in fretta, pregando che i suoi occhi si abituassero in fretta al buio che quella piccola torcia non poteva rischiarare in ogni angolo.
«Salterete tutti in aria», disse la donna quando per un attimo il fascio di luce della torcia di Grace le colpì il viso, mostrandole un sorriso compiaciuto e un piccolo telecomando.
La detective non ci pensò due volte prima di sparare e lo fece, ignorando il fischio che aveva sentito e che le aveva provocato un brivido alla schiena.
«Grace, alle tue spalle!».
La voce di Carter. Realizzò solo che lui era lì con lei, in quella cantina buia e umida, prima di voltarsi, terrorizzata da un ringhio feroce. La sua torcia ebbe solo il tempo di illuminare il muso del rottweiler i cui denti aguzzi spiccarono come stelle nel cielo quando aprì le fauci per azzannarla, prima di cadere a terra con lei.
Gli spari che aveva sentito prima di scendere le scale… erano serviti a liberare il cane, addestrato e lasciato a digiuno per giorni, dalla pesante catena che lo aveva tenuto attaccato al muro fino ad allora.
Alle sue spalle sentì le imprecazioni in cinese della donna, mentre si azzuffava a colpi di karate con l’ex-marine, impacciato ma abbastanza pronto di riflessi per parare i suoi colpi, almeno fino a quando non fu distratto dalle urla di Grace.
Allora l’asiatica lo colpì con un calcio in pieno petto, facendolo cadere a terra, e si gettò sul pavimento alla ricerca di qualcosa, a tentoni a causa del buio pesto. Carter ebbe così il tempo di alzarsi e di balzarle addosso, non potendo usare la sua pistola perché era stato disarmato poco prima nel combattimento corpo a corpo.
Grace, nonostante sentisse i denti del rottweiler premere sempre più forte nel suo braccio destro e strattonarlo come se fosse un pupazzetto di gomma, facendole vedere le stelle, riuscì a dimenarsi e scalciando gli fece mollare la presa.

Dio mio, non sento più il braccio, pensò atterrita, prima di scorgere il cane che tornava all’attacco con un balzo, quella volta puntando alla sua gola. In fretta afferrò la pistola con la mano sinistra e sparò, sperando almeno di ferirlo. Con un guaito il cane cadde a terra e solo allora Grace poté tornare a respirare più o meno regolarmente, anche se i pericoli che doveva affrontare non erano ancora terminati.
Si portò una mano sul braccio morsicato e sentì che il sangue scorreva a fiotti, caldo e viscido. Represse un conato di vomito e si girò, recuperò la torcia sul pavimento, anche se andava ad intermittenza, ed illuminò il punto sul pavimento dove l’asiatica e Carter stavano lottando, tirandosi pugni in faccia e scalciando. Anche se lei la sua pistola ce l’aveva ancora, non poteva rischiare di usarla: avrebbe potuto colpire Carter. Così fece l’unica cosa che le venne in mente: si buttò nella mischia.
Cercò di afferrare il detonatore che l’asiatica teneva stretto nella mano, ma a quel punto la donna trovò la pistola di Carter sul pavimento e sparò contro di lui, per levarselo di dosso. Grace non capì dove l’avesse colpito, seppe solo che lui rotolò via gemendo e lei provò a fare la stessa cosa, sparare contro l’asiatica, mancandola e dandole l’opportunità di avvicinarsi alla sua via di fuga: una botola sul pavimento.
«
Aufwiedersehen!», gridò in un tedesco stentato e il suo eco ebbe qualcosa di tetro, prima che iniziassero le prime esplosioni nel lato nord della villa, che diedero il via ad una disastrosa catena quasi senza fine.
Grace, rimasta paralizzata con le mani sulle orecchie per il frastuono, sentì due mani posarsi sulle sue spalle e riconobbe quelle grandi e paterne di Carter, nonostante l’avesse toccata soltanto quel pomeriggio.
«Hai ragione, non potrò proteggerti per sempre», le sussurrò all’orecchio e miracolosamente riuscì a sentirlo.
Avrebbe voluto chiedergli scusa, guardarlo negli occhi prima di morire avvolta dalle fiamme oppure intossicata dal fumo, ma non poté fare né l’una né l’altra cosa, perché venne spinta nella stessa botola in cui era scomparsa l’asiatica.


Nello stesso istante, al piano superiore, Michael e Dylan si gettarono fuori dalla finestra, spinti anche dalla potenza dell’esplosione che aveva distrutto quel salotto di cellophane e mattoni a vista.
Si coprirono la nuca con le mani, mentre con loro volavano calcinacci e brandelli di plastica bruciata, e quando tutto parve finito si voltarono e videro a pochi metri da loro le lingue di fuoco che annerivano i contorni della loro via di fuga e tentavano di uscire per mangiare più ossigeno.
«No, non un’altra volta», mormorò l’agente dell’FBI con gli occhi sbarrati e il viso pallido e sporco.
Si tirò su in piedi con fatica – aveva preso un colpo al ginocchio atterrando in giardino – e fece un giro della villa per sincerarsi delle condizioni degli agenti e nel caso contare le perdite. Di Grace, come pensava cupamente, nessuna traccia.
«Grace!», gridò Dylan, disperato e con le mani strette a pugni tra i capelli, inginocchiandosi di fronte alla cornice della porta principale. «Grace, rispondimi, ti prego!».
Si trascinò avanti a gattoni, verso le fiamme, fino a quando lo stesso Crawford e un paio di altri agenti non lo trascinarono via, stendendolo supino sulla terra dura e fredda, lasciando che si sfogasse piangendo tutte le sue lacrime.

***

Quella mattina aveva deciso di rimanere nella suite, ad attendere l’ora concordata con Bill, con sua madre attaccata al telefono per concordare l'orario e i temi della riunione che avrebbe tenuto con i suoi collaboratori.
Le ore erano passate lentamente e i suoi pensieri erano stati quasi tutti per Aiden. Forse avrebbe dovuto semplicemente levarselo dalla testa, dato che lui pensava di non meritare il suo amore. Prima o poi sarebbe arrivato qualcun altro a farle battere il cuore e questo magari non avrebbe rinnegato i suoi stessi sentimenti.
Era una ragazzina, non capiva per quale motivo doveva stare tanto male per un coetaneo che forse era solo spaventato, ma poi le tornavano alla mente i momenti passati insieme, a ridere sotto la pioggia che bagnava i loro appunti, a litigare, in silenzio; le tornava alla mente il loro primo ed unico bacio, una specie di premio di consolazione che Aiden le aveva offerto prima di ferirla di nuovo, brutalmente, tanto da farle desiderare di sparire nel nulla, in una città dove non conosceva nessuno e nessuno aveva idea di quanti soldi avesse o dell’importanza di suo padre.
Verso le dieci si era cambiata per uscire e aveva persino preparato la macchina fotografica digitale, con tutte le buone intenzioni di portarsi a casa qualche scatto di quella Milano baciata dal sole, più bella di come se la fosse mai immaginata.
Quando Bill bussò alla sua porta, lei era in bagno che stava finendo di legarsi i capelli sulla nuca, così fu sua madre ad aprirgli e con sua grande sorpresa scoprì che non era solo: Tom aveva deciso di unirsi a loro.
Molly uscì dal bagno cercando di stamparsi il suo sorriso migliore sul viso, anche se non avrebbe voluto vedere il chitarrista ed aveva paura che tirasse fuori tutto il dolore che teneva rinchiuso dentro di sé, come se fosse il suo tesoro più prezioso, di cui essere gelosa. La verità era che quel dolore era l’unica cosa che aveva ottenuto dal suo amore per Aiden e non poteva lasciarlo andare, sarebbe stato come andare alla deriva senza quella zavorra che la teneva attaccata alla mera illusione che qualcosa, prima o poi, sarebbe girato a suo favore.
«Sei sicuro di quello che stai per fare? Sai a che cosa vai incontro, con noi due maniaci dello shopping», lo avvertì con una punta di ironia nella voce, posandosi gli occhiali da sole sul naso.
«Sono preparato a tutto», rispose Tom con una scrollatina di spalle, sorridendo come se gli avesse appena lanciato una sfida.
Molly ricambiò per un attimo, prima di afferrare la borsa firmata e di prendere Bill a braccetto, salutando sua madre.
Salirono tutti e tre sull’auto nera noleggiata dalla famiglia Delafield per l’intera durata di quel soggiorno milanese e l’autista italiano li scarrozzò per le vie della moda – da Via Alessandro Manzoni a Via Monte Napoleone, da Via della Spiga a Corso Venezia fino a raggiungere Piazza S. Babila – dove ogni pretesto era buono per entrare nei negozi e provare mille capi, facendo impazzire le commesse quando decidevano alla fine di non comprare niente.
Durante la loro caccia non avevano parlato molto di ciò che era successo a Los Angeles mentre Bill e Tom erano lontani, forse proprio perché Molly rispondeva a monosillabi e la maggior parte delle volte cambiava proprio argomento, indicando vestiti, borse od occhiali da sole – cose che avrebbero potuto distrarre Bill, ma non di certo Tom, il quale non l’aveva mai persa d’occhio, anche a costo di risultare intrusivo e parecchio fastidioso. Ma era più forte di lui: voleva che Molly si sfogasse, almeno con loro; che si liberasse di tutti i pensieri negativi che la rendevano irraggiungibile e diversa, e non capiva perché invece lei si ostinasse a fare finta di nulla, a fare finta che stesse bene e che quello fosse un semplice week-end che i milionari come lei ogni tanto di concedevano.
Ad un certo punto decisero di fare una pausa in Piazza Duomo, che Molly trovò bellissima nonostante i piccioni e gli immancabili lavori di ristrutturazione alla Madonnina della cattedrale neogotica.
«È un vero peccato che Grace non sia venuta», esclamò all’improvviso, mentre scattava una foto alla facciata del Duomo, inondata di luce.
Tom, rimasto per un attimo incantato a guardare una coppia di bambini che correvano per la piazza facendo involare pigramente alcuni di quei fastidiosi volatili grigi, si voltò di scatto nell’udire quelle parole.
«Come hai detto?».
«Ho detto che è un vero peccato che Grace non sia venuta», ripeté la ragazzina, rimanendo confusa di fronte al suo atteggiamento vagamente inquisitorio.
Tom, infatti, aveva avuto una specie di illuminazione e il suo cervello aveva iniziato a surriscaldarsi, in cerca di una possibile spiegazione.
Grace sapeva che Molly sarebbe venuta a Milano – durante la loro ultima telefonata gli aveva detto che si era dimenticata di dirglielo, – così come sapeva benissimo che anche loro sarebbero rimasti lì ancora per qualche giorno. Allora perché non era partita con lei, visto che non aveva altri impegni?
«Tom, che ti prende?», gli domandò Bill, fissando il suo volto serio e concentrato, le labbra strette tra di loro.
Il chitarrista però non gli rispose e tornò a fissare gli occhi in quelli di Molly, ora più guardinghi che mai, come se temesse una sua improvvisa scenata in pubblico – oro per i paparazzi che in più di un’occasione quel giorno li avevano pizzicati per le vie di Milano.
«C’è qualcosa che non so?», chiese, stentoreo.
Molly sgranò gli occhi e si strinse nelle spalle, senza sapere bene quale fosse la risposta da dargli.
«Beh, Grace stava per venire ieri, voleva farti una sorpresa, ma giusto prima di imbarcarsi ha ricevuto una telefonata da parte di quell’agente dell’FBI…».
«Michael Crawford?», intervenne in aiuto Bill, nonostante anche lui iniziasse ad essere un po’ preoccupato.
«Sì, mi pare di sì. Non mi ha detto nulla in proposito, solo che non poteva partire».
«E che cosa aspettavi a dirmelo?». La sua voce era pacata, ma nei suoi occhi fiammeggiava la rabbia.
Molly, spaventata, portò le mani avanti. «Pensavo te l’avesse detto, ora che la sorpresa era saltata!».
Tom ricordò le parole che Grace gli aveva rivolto quella mattina al telefono e notò tutti i particolari che si era lasciato sfuggire allora: il tono evasivo con cui gli aveva detto che a volte aveva attacchi di insonnia e che non c’erano novità, il modo in cui lo aveva liquidato in fretta quando aveva esclamato che Molly si trovava a Milano e nel loro stesso hotel… Gli aveva persino detto «Ti amo»! Lo faceva così raramente, come lui d’altronde, e in occasioni così speciali che, ora che ci ripensava, col cuore stretto in una morsa, stonava terribilmente e non era per nulla rassicurante che gliel’avesse detto prima di terminare in quel modo la chiamata.
Che si fosse immischiata in qualche guaio e l’avesse tenuto all’oscuro? Che ci fossero state delle novità, delle rilevanti novità, nell’indagine, al contrario di ciò che gli aveva assicurato?

Oh, Grace, non puoi farmi questo tutte le volte… pensò, distrutto, preoccupato ed arrabbiato allo stesso tempo, tanto che ebbe la magnifica idea di sfogarsi sulla prima persona che gli capitò a tiro: Molly.
«No, non l’ha fatto! E tu avresti dovuto avvertirmi subito, invece di commentare tutto il tempo i tuoi stupidi vestiti e le tue dannate borse con Bill!».
«Ma cosa…?».
Il frontman si parò di fronte a Molly e posò le mani sulle spalle del gemello, cercando di calmare lui e di difendere l’amica.
«Piantala, Tom, lei non c’entra niente».
Molly si liberò della protezione di Bill e spinse Tom con entrambe le mani sul suo petto, facendolo indietreggiare di un passo per la sorpresa, mentre alcuni turisti vicini a loro si erano voltati per capire cosa stava succedendo. Stavano attirando non poca attenzione e questo non era mai un bene.
La ragazzina gli rivolse uno sguardo truce, colmo di lacrime che sapevano di rabbia e di sofferenza, e ruggì: «Mi dispiace di non averti avvisato che la tua ragazza non è venuta insieme a me. Mi dispiace di non potermi accollare anche i tuoi problemi. Mi dispiace di essere venuta qui per stare un po’ con degli amici che appena possono mi usano come sacco da boxe».
«Molly, io…», provò a scusarsi Tom, sconvolto e mortificato, ma non ne ebbe il tempo materiale, perché lei lo spintonò ancora una volta, con tutta la forza che poté. Quindi si allontanò in fretta, diretta verso l’autista che li aspettava nello Spizzico sotto una galleria.
Bill la guardò sparire all’interno del fast-food italiano, poi posò lo sguardo sul gemello, senza sapere se essere più confuso o deluso dal suo comportamento irrazionale. Non volle nemmeno sapere che cosa gli fosse passato per la testa: si voltò e raggiunse in fretta lo Spizzico, lasciandolo solo tra i piccioni, i turisti e una compagnia di ragazzi italiani che ridevano mentre si lanciavano delle patatine di McDonald’s.

***

C'era voluto un po’, un’ora buona, prima che l’incendio venisse completamente domato dai vigili del fuoco, ma appena era stato possibile Dylan e Michael avevano partecipato al controllo all’interno della villa: avevano trovato i corpi carbonizzati di due agenti dell’FBI rimasti intrappolati all’interno, tramortiti dagli esplosivi; quello di Bryant, ancora più raccapricciante di quando l’avevano visto prima che morisse, e poi avevano scoperto una cantina, sotto le macerie. Un’altra mezz’ora dopo, erano riusciti a crearsi un varco e lì avevano trovato la carcassa di un grosso rottweiler su cui, ad un attento esame nei laboratori della scientifica, non solo si sarebbero trovate tracce del sangue e della pelle di Grace sui suoi denti, ma anche un proiettile proveniente dalla sua Glock calibro 9mm, che l’aveva ucciso prima dell’arrivo delle fiamme.
Questo fu tutto quello che riuscirono a trovare riguardo a Grace e se da un lato era terrificante non aver trovato di più, era motivo di speranza non aver trovato il suo cadavere.
Lentamente quella speranza si era fatta ancora più solida, tanto da credere che la detective fosse riuscita a scamparla, quando trovarono una botola il cui passaggio sotterraneo era stato quasi del tutto intasato dalle macerie e dalla terra quando era esploso l’ordigno piazzato nelle tubature del salotto.
Dopo essere stati medicati alla bell’e meglio a bordo di un paio di ambulanze accorse sul posto, Michael e Dylan si erano rintanati in uno dei furgoni blindati e super attrezzati dell’FBI e con un tecnico avevano studiato ancora e ancora la pianta in 3D della villa, sperando di trovarvi il passaggio sotterraneo che collegava la cantina al posto in cui, molto probabilmente, si trovavano la detective e la donna asiatica. Ma questo non era segnato da nessuna parte, probabilmente era stato costruito dall’organizzazione criminale come via di fuga di emergenza.
I due non si diedero per vinti ed ordinarono che si continuasse a cercare qualcosa in quel campo, qualcosa che facesse intendere ad un passaggio nel sottosuolo; comunicarono a tutte le centrali di polizia la scomparsa di Grace, ordinando che venissero contattati nel caso in cui avessero anche solo una debole pista da seguire per ritrovarla. Tutto questo mentre continuavano a tempestare il suo cellulare di chiamate sempre inconcludenti, perché sempre irraggiungibile.
I loro sforzi vennero ripagati quando Oswin in persona, costretto al solo lavoro d’ufficio, chiamò Dylan e gli comunicò un’importante novità.
«Ho fatto pressione anche tra gli agenti della stradale e dei colleghi mi hanno passato una denuncia per furto d’auto».
«Vai avanti», lo supplicò il poliziotto, sulle spine.
«L’uomo che ha sporto denuncia ha dichiarato che una ragazza la cui descrizione corrisponde a Grace gli ha detto di essere della polizia e lo ha costretto a scendere, puntandogli la pistola contro. Ha detto anche che è spuntata dal nulla».
«Lo sapevo, lo sapevo che non poteva averci lasciato!», urlò entusiasta, stringendo la spalla di Crawford per trasmettergli un po’ di quella gioia che gli stava facendo esplodere il petto. Ma non era ancora giunto il momento dei festeggiamenti, dovevano prima trovarla.
«Dobbiamo rintracciare quell’auto», disse ancora e Oswin gli diede modello e numero di targa, in modo tale che Crawford potesse diramare un altro avviso ai colleghi di tutta Los Angeles.
Poi Oswin aggiunse: «È stata rubata nel garage sotterraneo di un centro commerciale, i colleghi sono già andati a recuperare i filmati delle telecamere di sicurezza. Li avrete tra poco».
Come aveva promesso, i filmati arrivarono poco dopo tempo e Dylan e Michael li guardarono fino a quando non scorsero Grace uscire da un tombino, correre verso la prima auto che le compariva di fronte, rischiando tra l’altro di investirla, e ordinare all’uomo alla guida di scendere, per poi premere l’acceleratore e scomparire dall’inquadratura.
«Un attimo, torna indietro».
Il tecnico premette il tasto rewind e fermò l’immagine nel momento in cui Grace gettava uno sguardo consapevole verso la telecamera ed annuiva, il viso sporco di fuliggine e di terra e i vestiti umidi. La cosa che interessava a Michael, comunque, era il suo braccio destro, rosso di sangue e quasi immobile lungo il fianco.
«Dobbiamo trovarla subito», decretò con tono ferale e Dylan annuì, il cellulare ancora stretto nella mano dopo aver rifiutato la prima delle tante chiamate che d’ora in avanti avrebbe ricevuto da Bill.

***

Magari non è successo nulla di grave. Magari ha solo dimenticato di mettere il cellulare in carica. Sì, dev’essere proprio così.
Si portò le dita agli angoli interni degli occhi e sospirò stancamente, mettendo via il cellulare ed entrando in ascensore accanto a Bill.
C’era della tensione tra loro, dopo quello che era successo con Molly e non solo, ma preferì rimandare i chiarimenti, almeno con lui.
Dopo il loro giro nel centro di Milano, erano tornati tutti e tre in albergo e poco tempo dopo Bill e Tom erano dovuti salire su un’altra auto che li aveva portati allo studio televisivo dove avevano registrato la puntata di un programma di musica italiano.
Era stato inquieto e con la testa altrove per tutto il tempo: un po’ con Grace, a Los Angeles, che continuava a non rispondergli al telefono, e un po’ con Molly, nella stessa città, che non gli aveva più rivolto uno sguardo dopo la loro bisticciata in pubblico.
Prima di cena aveva bisogno di parlare con lei, per levarsi almeno un peso dallo stomaco, e per questo rimase da solo sull’ascensore per raggiungere il piano dove si trovava la suite di Molly e sua madre.
Fu proprio quest’ultima ad aprirgli la porta, dicendogli che l’avrebbe trovata nella sua camera da letto, da cui non era più voluta uscire da quando era ritornata quel pomeriggio.
Tom, col cuore pesante come un macigno, la raggiunse attraversando il salottino e bussò piano alla porta. Non ottenne alcuna risposta, però non si fece problemi e gettò un’occhiata all’interno della stanza, scorgendo Molly rannicchiata sulla poltrona vicina alle portefinestre che davano su un piccolo terrazzo.
«Molly…».
La ragazzina si voltò di scatto e Tom, incrociando i suoi occhi gonfi e lucidi di pianto, serrò le labbra mentre il suo volto si accartocciava in un’espressione dispiaciuta.
Si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò con cautela, per poi posarle una mano sul capo ed inginocchiarsi di fronte a lei.
«Mi dispiace, ho sbagliato», mormorò, accarezzandole ora i capelli, ora il viso. «Ero e sono preoccupato per Grace, ma questo non mi giustifica, perché me la sono presa con te ingiustamente. Puoi perdonarmi?».
Molly mosse il capo su e giù in segno d’assenso ed inspirò profondamente. Tom poté sentire l’aria che le scendeva in gola con un rantolo, prima che Molly si portasse le mani sul viso e ricominciasse a singhiozzare violentemente.
«Piccola, ti prego, non fare così…».
Il chitarrista capì che il motivo delle sue lacrime non era di certo lui e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu di avvolgerle le braccia intorno alla schiena squassata dai singhiozzi, lasciando che nascondesse il viso umido nell’incavo della sua spalla.
Nello stesso istante, dall’altra parte del mondo, Grace apriva gli occhi in una stanza d’ospedale e si guardava atterrita la mano destra, immobile nonostante provasse e riprovasse a stringere le cinque dita intorno al lenzuolo candido.

***

Pochi istanti prima di svegliarsi, ancora intontita dagli antidolorifici che le avevano somministrato mentre era sotto i ferri, Grace aveva rivissuto quelle ore che mai, mai, le avrebbero fatto la grazia di sbiadire nella sua memoria.


La caduta inaspettata e il frastuono proveniente dall’alto la lasciarono per qualche secondo stordita a terra, con le orecchie che ronzavano fastidiosamente. Quando ebbe la forza di rialzarsi, sostenendosi solo sul braccio sinistro, quello buono, si rese conto di essere in un tunnel buio e lungo diversi metri, con le pareti rocciose e scabre, come quelli delle vecchie miniere d’oro.
Possibile che quei criminali avessero avuto il tempo di fare una cosa del genere? E dove conduceva?
Non potendosi dare una risposta alla prima domanda, decise di trovarne una almeno per la seconda.
Senza mai staccare la mano dalla parete alla sua sinistra e con la torcia mal funzionante sotto l’ascella destra, procedette a testa china per qualche metro, fino a quando un tremendo boato alle sue spalle non fece tremare le pareti che addirittura crollarono là dove c’era la botola.
Ora era definitivamente in trappola in quel tunnel e non poteva che andare avanti, sperando che la sua nemica non fosse già troppo lontana.
Camminò per una cinquantina di metri e poi, finalmente, sentì un odore diverso nell’aria, o per meglio dire una puzza diversa. Svoltando l’angolo, vide che il tunnel era finito e portava direttamente nei condotti fognari sotto le strade trafficate di Los Angeles.
Non potendosi aggrappare a nulla, fu costretta a tuffarsi nell’acqua sporca e, nonostante le arrivasse appena alle cosce, si bagnò tutta a causa della corrente che, più forte di quello che credeva, l’aveva spinta in avanti.
Alla sua imprecazione se ne susseguì un’altra, in cinese, che le fece drizzare la testa e dimenticare le ferite e l’acqua che le infradiciava i vestiti. Seguì il tunnel con le spalle contro la parete di mattoni coperti d’umidità, la pistola nella mano sinistra, e poco prima di svoltare due proiettili colpirono l’angolo del muro dietro il quale era nascosta. Dopodiché il rumore dei passi veloci dell’asiatica le fecero intuire che stava scappando. Non glielo avrebbe mai permesso, non ora che le era così vicina.
La inseguì in quella città sotterranea e puzzolente e il suo pensiero corse per la prima volta a Dylan e Michael: sicuramente erano in pena per lei, lei che li aveva lasciati senza dire niente per inseguire la donna autrice di tutte le morti e le sofferenze che aveva patito in quegli anni. Pensò anche a Carter, rimasto nella cantina, preferendo non chiedersi se si fosse salvato, e poi anche a Tom. Quella volta si sarebbe arrabbiato sul serio, già lo sentiva urlarle improperi tra le lacrime. Ma prima doveva portare a termine la sua missione e sopravvivere.
Dovette appiattirsi di nuovo contro il muro per evitare un paio di pallottole e quando si sporse oltre l’angolo vide l’asiatica salire una scaletta ed aprire il tombino sopra la sua testa. Era la sua occasione: sparò con un occhio chiuso per prendere meglio la mira, ma sfortunatamente la mancò – non era mai stata brava a sparare con la sinistra – e lei non fu tanto stupida da perdere altro tempo.
Una volta sparita alla sua vista, Grace corse alla scaletta e con sforzo immane, sentendo il morso sul braccio pulsare mentre tornava a sanguinare copiosamente, tenne sollevato il tombino per perlustrare l’esterno. Vide alcune auto parcheggiate di fronte a sé e ad istinto decise che il posto in cui erano sbucate doveva essere un garage sotterraneo.
Senza darsi troppa pena nel cercarla, vide l’asiatica sfrecciare di fronte a lei in sella ad una moto da corsa verde acido, con un casco nero e dalla visiera lucida infilato sul capo.
La vide uscire dal garage e allora si affrettò a risalire in superficie, gettandosi di fronte ad un auto diretta verso l’uscita, che inchiodò appena in tempo per non falciarle le gambe.
«Cristo, è per caso impazzita?!», gridò l’uomo ancora nella sua divisa da fast-food, sporgendosi fuori dal finestrino.
Grace corse alla portiera e l’aprì, constatando con enorme sollievo che era solo nell’abitacolo.
«La prego di scendere, sono un’agente di polizia e sto per perdere le tracce della criminale che sto inseguendo».
«Che cosa?! Lei non sembra un’agente di polizia!», ribatté, lanciandole un’occhiata sommaria.
«Come crede, ma mi serve la sua auto. Subito».
L’uomo ancora seduto al posto di guida fece per aprire la bocca e ribattere ancora una volta, ma Grace, visto che le buone maniere non erano servite e ogni secondo era prezioso, gli puntò contro la pistola. L’uomo impallidì e in un attimo fu giù dall’auto, con le mani sollevate.
Grace si gettò uno sguardo intorno, individuò una telecamera attiva e sperando che Dylan e Michael potessero rintracciarla annuì guardando dritto nell’obbiettivo. Quindi si mise al volante e senza nemmeno assicurarsi che la portiera fosse chiusa a dovere pestò il piede sull’acceleratore, partendo con una sgommata sul cemento verniciato di rosso.
Uscì dal garage sotterraneo e ringraziò che fosse notte fonda, perché non avrebbe sopportato la luce dopo aver frequentato solo posti bui.
Fece in tempo a vedere la moto verde acido in fondo alla strada, prima che svoltasse, e si regolò di conseguenza, andando a tavoletta e sterzando bruscamente se necessario, sommersa da una cascata di clacson.
In poco tempo recuperò terreno e nonostante la moto potesse zigzagare tra le auto la raggiunse e per poco riuscì anche a sfiorarne la ruota posteriore col paraurti.
L’asiatica accelerò e come Grace temeva si voltò per spararle in corsa, cosa che lei non avrebbe mai fatto perché nelle sue condizioni non poteva essere certa della sua mira e non voleva che innocenti ci andassero di mezzo.
Il parabrezza si incrinò in due punti, ma Grace, sprofondata nel sedile, riusciva a vedere abbastanza da non restare mai indietro, in quell’inseguimento che sarebbe potuto tranquillamente passare come la scena clou di un film d’azione.
Presa com’era nel non perdere d’occhio l’asiatica e nell’evitare scontri con auto e pedoni, non si era accorta che il paesaggio era cambiato da qualche tempo: i grattacieli e le palme erano lontani ormai, di fronte a loro solo distese di terra bruciata e l’asfalto dell’autostrada che portava dritta dritta al confine con il Messico. Stava tentando di espatriare, ma se questo poteva essere un problema per i federali e la polizia in generale, non lo era di certo per Grace.
Con un’accelerata che fece andare su di giri il motore della Mazda che aveva trovato sul suo cammino, si avvicinò a lei ancora di più e dato che non avevano auto né davanti né dietro, le restituì i colpi che le avevano e le stavano tutt’ora incrinando il parabrezza. Allungò il braccio sinistro fuori dal finestrino e sparò: la ruota posteriore esplose, facendo sbandare violentemente la moto contro il guard-rail; il secondo colpo, invece, colpì l’asiatica alla schiena e Grace la vide chiaramente gettare la testa all’indietro, in un muto grido di dolore lanciato contro il cielo, prima di cadere e rotolare a terra per qualche metro, mentre la moto si sdraiava su un fianco e roteava con mille scintille fino al guard-rail.
Grace fermò l’auto e scese, sentendo il braccio destro sempre più pesante, inerte lungo il fianco. Si fermò accanto al corpo dell’asiatica e la disarmò dando un calcio all’arma che teneva in mano. Quindi si inginocchiò e fissò gli occhi nei suoi, che ancora si muovevano con una scintilla di vita al loro interno.
«Sei stata tu ad uccidere mio padre. Sei stata tu!», gridò e l’afferrò per i capelli, desiderando una conferma, ma la donna si stampò un sorriso quasi inebetito sul viso, guardando il cielo oltre la spalla di Grace.
Grace puntò la canna della pistola contro la sua fronte e chiuse gli occhi. In un attimo la sua mente si affollò di ricordi, da quelli più dolorosi – il ritrovamento di suo padre morto assassinato nel suo ufficio, il viso pesto di sua madre dopo che era stata aggredita, Lionel in ospedale, sopravvissuto per miracolo ad una morte per dissanguamento in un motel di Tijuana – a quelli più felici – i momenti trascorsi con Dylan, con Bill, con Molly… con Tom.
Rammentò un pezzo di una conversazione intrattenuta con lui una sera:

«A volte mi chiedo che cosa farei io se mi trovassi di fronte alla persona che ha ucciso a sangue freddo mio padre e… non lo so, non lo so se la ripagherei con la stessa moneta oppure lascerei la giustizia alla legge… non ne ho idea».
«Sono certo che faresti la cosa giusta».

E poi, improvvisamente, rivide in maniera nitida, tanto da toglierle il fiato, il bambino che aveva avuto come apparizione quando era stata ad un passo dalla morte in quel vicolo a Berlino. Il bambino di Tom, il loro bambino.
Era ancora china sul corpo dell’asiatica, sempre meno cosciente a causa del proiettile che aveva nella schiena e da cui perdeva moltissimo sangue, con la canna della Glock contro la sua fronte, ma non sapeva più cosa fare, quale fosse la cosa giusta.
Vendicare la morte di suo padre con le sue stesse mani, oppure lasciare quel compito alla legge? Macchiarsi del sangue dell’assassina di suo padre, come lei si era macchiata del suo?
Il rumore assordante delle pale di un elicottero che volava sopra la sua testa la fece tornare alla realtà. Alzò il capo verso il cielo, poi si guardò attorno e vide un paio di auto ferme vicine alla Mazda che aveva preso in prestito. Due uomini erano scesi dai veicoli e chissà da quanto osservavano la scena impietriti, uno con il cellulare con il quale aveva chiamato il 911 ancora stretto in mano. Grace fece viaggiare il suo sguardo fino a quando non scorse all’interno di una delle auto, seduto sul sedile posteriore, il viso di un bambino di cinque o sei anni, nel quale erano incastonati due occhi verdi spalancati. Somigliava a suo padre da piccolo.
A quel pensiero Grace stese un sorriso stanco e dolente, ma anche con una punta di ironia agli angoli delle labbra, e scoppiò in lacrime, lasciandosi cadere accanto al corpo dell’asiatica, sull’asfalto ormai freddo, illuminata dal cono di luce proveniente dall’elicottero.


Quando aveva aperto gli occhi, aveva subito capito di essere in ospedale e aveva cercato di capire che ora fosse, ma la sua più totale attenzione era stata catturata dal braccio fasciato che aveva provato ad alzare per aggrapparsi alla sbarra del suo letto. Il braccio destro, quello che era stato morso dal rottweiler in quella cantina.
L’aveva sentito pesante, come se le avessero colato del cemento nelle giunture, ma c’era qualcos’altro ora, qualcosa di ben peggiore: non riusciva a muoverlo dal gomito in avanti, compresa la mano che, per quanto si sforzasse, rimaneva inerte, le cinque dita abbandonate sul lenzuolo bianco.
Le lacrime le punsero gli occhi, ma in quel momento la porta della sua camera venne spalancata e Dylan la guardò con gli occhi sbarrati, manco si fosse materializzata lì dal nulla, e un sorriso entusiasta sulle labbra.
Era sporco dalla testa ai piedi, i capelli e i vestiti erano ancora impregnati dell’odore del fumo dell’incendio e aveva delle terribili ombre violacee intorno agli occhi, ma tutto sommato era okay, come se lo ricordava, e questo la rincuorò almeno un po’.
«Ehi, sei sveglia. Come stai?».
Grace, senza distogliere lo sguardo dal suo, felice e luminoso come quello di un bambino a Natale, provò di nuovo a stringere il lenzuolo tra le dita. Invano.
«Bene», mentì con la voce arrochita, cercando di sorridere. «Tu? Michael?».
«Stiamo tutti e due bene, anche se ci hai fatto passare dei brutti quarti d’ora. Non farlo mai più, ti supplico».
Grace gli rivolse un altro tenue sorriso velato di compassione, più per se stessa che per lui.
«Ho parlato con Tom», esclamò il poliziotto dopo un attimo di silenzio, questa volta con tono amorevole ed avanzando di un passo. «Gli ho raccontato tutto quello che è successo, o almeno quello che sapevo. Credo che in questo momento stia discutendo con il manager della band. Fosse stato per lui avrebbe preso il primo volo disponibile».
«Certo, sai com’è fatto», rispose, ma il solo pensiero di non poterlo più accarezzare con entrambe le mani, perché una paralizzata, la sconvolse tanto da farla tremare impercettibilmente. Così, per distrarsi, gli chiese: «E Carter? Era ferito, lui come…?».
«Carter?», domandò cautamente Dylan, quando lei si interruppe di fronte alla sua espressione sconcertata.
«Sì, lui… lui era con me, nella cantina, mi ha salvata ancora… Dylan, lui…».
«Aspetta un momento, me lo spiegherai dopo. Adesso ti chiamo un dottore».
Grace lo lasciò fare. Lo guardò mentre usciva dalla porta, ancora con quell’espressione confusa e scettica sul viso, che aveva spazzato via la sua gioia di vederla viva e vegeta. Poi si concentrò di nuovo sul suo braccio e sulla sua mano, ancora immobili.


   
 
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