Ebbene
sì... siamo arrivati al capolinea. Almeno per quanto
riguarda l'indagine condotta da Grace da quando suo padre è
stato assassinato! Avrei voluto lasciarvi la più completa
sorpresa, ma dovevo avvisarvi della quasi-fine di questa FF che ci ha
accompagnati per tutti questi mesi con il suo mix di mistero, suspance,
amore e lacrime: mancano infatti un paio di capitoli alla fine e ve lo
dico con il cuore pesante come un macigno, perchè Grace mi
mancherà, come mi mancheranno Dylan, Michael, Melanie,
Lionel, Molly... e tutti i personaggi originali. Spero comunque che
rimangano sempre nei vostri cuori come rimarranno nel mio :')
Ma torniamo a questo capitolo. E' inutile dire che è uno dei
miei preferiti, forse è sul podio della Top 10, e spero che
piaccia anche a voi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e
chi ha inserito questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Mi
piacerebbe a questo punto sapere cosa ne pensate tutti quanti, sarebbe
un sogno che si avvera :')
Comunque sia vi ringrazio infinitamente e vi auguro una buona lettura.
Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 28
“He's
coming and she knows it, even though she
knows why
Footsteps from the hallway, girl you haven't got time
You gotta get out, go far away”
(Witchcraft
– Pendulum)
«È
strano, Molly non era mai stata assente prima d’ora. Ieri ho
anche provato a chiamarla, per sapere se fosse ammalata, ma non mi ha
risposto».
«Dopo tutto quello che è successo, non mi
sorprende che voglia stare un po’ a casa, senza sentire
nessuno».
«Hai ragione, però…».
Sheila si voltò verso Ben, il quale aveva già
dato prova di conoscere a fondo la biondina, manco fosse suo fratello
gemello.
«Sentiamo, che cosa ti sta passando per la testa?».
Ben si infilò una mano tra i capelli per ravvivarsi il
ciuffo, poi le prese la mano e la condusse fuori dalla palestra della
scuola, dove si erano fermati per assistere ad una partita di
volleyball.
«Secondo me è successo
qualcos’altro».
«Tipo?», incalzò Sheila, roteando gli
occhi al cielo mentre si lasciava trascinare.
Ben si fermò all’improvviso e si trovarono ad un
centimetro l’uno dall’altra.
Non avevano ancora trovato il coraggio per parlare di quello che era
successo due giorni prima e probabilmente non sarebbe successo presto,
ancora intenti a sondare quel terreno inesplorato che trasformava la
loro amicizia in qualcosa di più.
Imbarazzati, si allontanarono e si lasciarono pure la mano, guardando
altrove.
Ben fu il primo ad aprire bocca, schiarendosi la voce per rispondere
alla sua ultima domanda: «Non ne ho la più pallida
idea».
«Che facciamo, allora?».
«Potremmo andare a casa sua con la scusa di portarle i
compiti e…».
«Non sembra una cattiva idea».
Si sorrisero, anche se di sfuggita, e poi si diressero verso la
pensilina degli autobus dall’altra parte della strada.
Per arrivare di fronte all’enorme cancello bianco di Villa
Delafield avevano dovuto prendere non uno, ma ben due autobus, e poi
avevano dovuto farsi un pezzo, in salita e sotto il sole cocente, a
piedi.
Stanchi ed assetati, suonarono al citofono ed aspettarono che il
maggiordomo gli rispondesse.
«Siamo Ben e Sheila, due compagni di scuola di Molly.
Possiamo vederla?».
«Sono spiacente, ma la signorina è partita questa
mattina».
«Partita?».
«Sì, è andata a Milano, in Italia. Vi
resterà per un paio di giorni con sua madre, Mrs.
Delafield».
Ben e Sheila si scambiarono un’occhiata stupita, quindi
ringraziarono il domestico e se ne andarono.
Sulla strada del ritorno, anche se quella volta era tutta in discesa,
la fatica di aver fatto quel viaggio a vuoto fece sbottare la ragazza.
«Che ci è andata a fare a Milano, dico io?! E
perché non ci ha detto niente?».
Ben scrollò le spalle, mesto in viso e con le mani nelle
tasche dei jeans.
Sheila lo raggiunse, anche se controvoglia, ed infilò un
braccio sotto al suo per invogliarlo a camminare più
rapidamente e al tempo stesso rassicurarlo: «Vedrai che
tornerà più forte di prima, non temere».
«Ti va un gelato?».
La ragazza si voltò e vacillò di fronte ai suoi
occhi castani, caldi e ora dolci come caramelle al mou.
Arrossendo, senza nemmeno avere la forza di aprire bocca,
annuì con il capo. Allora Ben tornò a guidarla,
intrecciando le dita delle loro mani. Sheila si lasciò
scappare un sorriso e corse per camminare al suo fianco.
***
Dall’aeroporto di
Los Angeles, il jet privato di suo padre era partito quel
venerdì mattina alle sette in punto con direzione Milano, la
città della moda e del design.
L’idea di recarvisi le era venuta quasi per caso, combinando
una serie di fattori che le avevano fatto pensare che fosse la
soluzione adatta ad ogni suo problema.
Il giorno prima aveva sentito sua madre mentre diceva a suo padre che
prima o poi sarebbe dovuta andare a Milano per incontrare alcuni
colleghi stilisti con i quali stava collaborando per la sua ultima
linea di abbigliamento femminile e, guarda caso, si era ricordata che
in quei giorni anche i Tokio Hotel si trovavano nella città
italiana per promuovere il loro nuovo album.
Anticipare il viaggio di sua madre per vedere di nuovo i suoi idoli
dopo tanto tempo sarebbe stata l’occasione perfetta anche per
staccare un po’ la spina da tutto e riflettere sugli ultimi
avvenimenti e sui suoi sentimenti.
Ciò che era successo a Nigel e la discussione con Aiden
l’avevano sfibrata tanto da cedere alle insistenze di suo
padre, il quale voleva che restasse per qualche giorno a casa da
scuola. Successivamente, sfruttando la sua preoccupazione a proprio
favore, era riuscita a persuaderlo a dare il proprio consenso a quel
viaggio organizzato all’ultimo momento.
Non aveva avvisato nessuno della sua partenza, solo Grace, e a dire il
vero si era sentita un po’ in colpa nei confronti di Ben e
Sheila, ma sapeva benissimo che quel viaggio era la sua unica
opportunità per fare un po’ di chiarezza dentro di
sé: non aveva bisogno e non voleva dare spiegazioni o
parlarne con qualcuno, nemmeno con i suoi migliori amici.
Dopo quasi tredici ore di volo, il suo orologio d’argento e
Swarovski segnava le venti, ma il cielo fuori
dall’oblò accanto al suo sedile in pelle era nero
come la pece e sulla pista d’atterraggio c’erano
poche luci a guidare i piloti del jet. Infatti, a causa delle nove ore
di fuso orario, erano già le cinque del mattino di sabato.
Un’auto nera e dalle linee sinuose le prelevò non
appena scesero le scalette del velivolo e le portò
direttamente all’hotel Melià Milano, senza che ci
fosse bisogno di perdere tempo ai controlli doganali. Quindi lasciarono
al loro autista italiano il compito di trasportare
nell’elegante hall i loro bagagli a mano, mentre loro
domandavano la chiave della loro Suite Presidenziale Reale, la migliore
dell’albergo.
Presero uno tra i vari ascensori per raggiungere il loro piano e sua
madre sfruttò quel momento per rammaricarsi ancora una volta
di non aver prenotato una suite nel primo hotel a sette stelle
d’Europa, il Seven Stars, appunto, situato in Galleria
Vittorio Emanuele, ad un passo dal Duomo di Milano.
«Per me sarebbe stato anche più semplice
raggiungere il Quadrilatero della moda!».
«Lo so, mamma. La prossima volta dirò ai Tokio
Hotel di pernottare in quelle stanze», rispose stizzita
Molly, appoggiata ad una delle pareti a specchio, un paio di grandi
occhiali da sole firmati Chanel calcati sul viso.
«Non volevo di certo dire questo, tesoro. Domani,
cioè… più tardi, li vedrai?».
«Probabile».
La donna la fissò, stupita dal suo poco entusiasmo: sognava
di vedere Milano da quando aveva cinque anni e al solo pensiero di
rivedere i suoi idoli avrebbe dovuto fare i salti di gioia! Invece
niente.
Ma si rassicurò presto, dicendosi che era solamente provata
dal lungo viaggio e forse ancora scossa per quello che era successo al
suo amico Nigel, e la seguì fuori dall’ascensore,
già con il passepartout nella mano.
***
«Forse dovresti
andare a dormire. Sembri stanca, dalla voce».
«Ma ti sei sentito tu? Sembra di parlare con un uomo delle
caverne!».
Tom rise e si controllò il viso su una delle pareti
riflettenti dell’ascensore, mentre suo fratello chiacchierava
con Gustav e Georg.
«Io mi sono svegliato da poco, ho bisogno di
carburare», le rispose alla fine, scoccando un sorriso alla
sua stessa immagine.
«Io non riuscirei a chiudere occhio comunque».
«Perché?».
Grace, a Los Angeles, si morse la lingua, maledicendosi per avergli
rivelato quell’insignificante quanto importante particolare.
Lui non sapeva che Lionel era vivo, in una casa sicura, inserito nel
Programma Protezione Testimoni dell’FBI; non sapeva che era
stato Bryant a sparargli, poiché aveva sempre collaborato
con l’organizzazione criminale ed era stato lui ad introdursi
in casa sua per rubare il suo cellulare, avvelenando tra
l’altro i loro cani; non sapeva che lo stesso Bryant ora
collaborava con l’FBI e non poteva di certo dirgli che era
venuta a sapere che dalla sera di giovedì non aveva
più comunicato la sua posizione agli agenti ed aveva
iniziato a risultare irrintracciabile.
«A volte mi capita, un attacco di insonnia»,
mentì alla fine, modulando la voce per fargliela bere. E dal
modo in cui le rispose dovette cascarci in pieno.
«Io avrei saputo come far passare il tempo».
Grace ridacchiò proprio nel momento in cui le porte
dell’ascensore si aprivano dopo un din e
i componenti dei Tokio Hotel si incamminavano verso la sala buffet dove
avrebbero fatto colazione.
«Per il resto nulla di nuovo?», le chiese.
«No, nulla di particolare. Tu quali impegni hai
oggi?».
«Abbiamo un paio di interviste qui in hotel e poi
un’apparizione TV, in un programma italiano di cui ora mi
sfugge il nome… aspetta, come si chiamava… Bill?!
Bill, come si chiama il programma –? Oddio».
«Che è successo?», domandò
Grace, allarmata.
Tom scosse il capo e sbatté le palpebre un paio di volte per
verificare che non fosse una specie di allucinazione.
In coda al gruppo, impegnato nella conversazione con Grace, era
arrivato per ultimo nella sala buffet e solo quando aveva cercato lo
sguardo di Bill si era accorto della ragazzina bionda, seduta ad un
tavolo vicino ad una delle due ampie vetrate, già
accerchiata dai suoi amici, i quali le stavano chiedendo cosa ci
facesse lì a Milano.
«Molly… Molly è qui!».
«Ah, sì, mi è sfuggito di dirtelo. Beh,
meglio che tu vada da lei. Ci sentiamo dopo, ti amo».
Grace chiuse in fretta la chiamata, senza nemmeno dargli il tempo di
rispondere, ma lì per lì Tom non vi diede troppo
peso e raggiunse i suoi compagni di band.
«Molly!», gridò sorpreso, facendosi
spazio tra Georg e suo fratello. «Che ci fai qui?!».
La ragazzina gli rivolse un sorriso tirato che lo
impensierì, come il velo di tristezza che le patinava gli
occhi di solito così luminosi.
Grace, qualche giorno prima, lo aveva aggiornato sulla risoluzione del
caso riguardante l’omicidio del padre di Aiden, il ragazzo
per cui Molly si era presa una cotta, e sapeva che era stato un duro
colpo per lei vedere in manette il padre di quel ragazzo, Nigel, che
alla fine era diventato un suo amico. Si chiese se non fosse dovuta a
questo, la sua fuga da Los Angeles, e si pentì persino del
tono ben poco delicato che aveva usato.
«Come dicevo agli altri», disse, «ho
accompagnato mia madre». Indicò la donna seduta di
fronte a lei, con i capelli biondi e a caschetto, gli occhi azzurri e
un sorriso incantevole sulle labbra, che rendeva luminoso e ancora
più giovanile il suo viso. «Tom,
lei è mia madre. Mamma, lui è Tom, il fidanzato
di Grace».
Mrs. Delafield gli strinse calorosamente la mano, felice di conoscere
finalmente questo famoso Tom, di cui sua figlia le aveva tanto parlato,
e il chitarrista, ancora un po’ imbarazzato per essere stato
definito “il fidanzato di Grace” –
ciò che in fondo era – ricambiò la
cortesia dicendole che l’aveva scambiata per sua sorella.
«Sapete, mamma deve incontrare dei suoi collaboratori ed era
da tanto che io volevo vedere la città, così ho
deciso di partire insieme a lei», spiegò ancora
Molly.
Bill incrociò le mani di fronte al petto e sorrise
smagliante. «Wow, è proprio una fortunata
coincidenza! Prima di pranzo abbiamo giusto un paio di ore libere!
Potremmo andare a fare un giro insieme, che te ne pare?».
«Io la trovo un’idea meravigliosa,
tesoro», la incitò sua madre, accarezzandole una
mano.
Molly annuì, anche se subito dopo abbassò gli
occhi sulla tazza vuota di fronte a sé, giocando col
cucchiaino e i rimasugli di caffè rimasti sul fondo.
Improvvisamente Tom si sentì stringere il cuore, captando la
tristezza che cercava di soffocare dentro di sé e di celare
a loro, e ricordò una delle loro ultime chiacchierate al
telefono.
«Sai
qual è l’unica cosa che mi farebbe felice,
adesso?».
«Cosa?».
«Abbracciarti. Mi farebbe stare molto meglio».
Quella volta era solo
confusa sui sentimenti che provava per Nigel e per Aiden, ma aveva
sentito comunque nella sua voce una nota di malinconia e aveva promesso
a lei, e a se stesso soprattutto, che l’avrebbe abbracciata
non appena si sarebbero visti di nuovo. Ora era seduta davanti a lui,
con una voragine al posto del petto perché gli eventi si
erano evoluti in maniera imprevedibile, provocandole vero e proprio
dolore per quel sentimento tanto irrazionale chiamato amore, e lui non
trovava il coraggio per fare ciò che aveva promesso.
«Beh, sarà meglio che facciamo colazione anche
noi, prima di cominciare la giornata in ritardo»,
esclamò Bill ad un certo punto, interrompendo il silenzio.
«Noi abbiamo finito, potete mettervi qui, è il
tavolo migliore», disse Molly, alzandosi poco prima di sua
madre. Poi, con un minuscolo sorriso, si rivolse a Bill:
«Allora ci vediamo più tardi».
Fece per raggiungere sua madre, la quale si era già avviata
verso gli ascensori, ma Tom le prese una mano all’improvviso.
Molly si voltò verso di lui e il chitarrista strinse le
labbra, amareggiato, leggendo nei suoi occhi lucidi come specchi tutta
la stanchezza e la delusione che provava per ciò che era
successo alle persone intorno a lei e che, come un’onda,
l’aveva travolta, trascinandola lontano.
Tom aprì finalmente le braccia per invitarla a trovare un
appiglio contro il suo petto, ma la ragazzina chinò il capo
e lasciò che la sua mano piccola scivolasse via da quella
grande e callosa del chitarrista. Quindi si allontanò senza
mai guardarsi indietro ed uscì dalla sala buffet.
***
Terminata la chiamata con Tom,
Grace sospirò appoggiandosi contro la parete alle sue spalle
e si passò le mani sul viso stanco e sciupato.
Mentire a Tom era l’unica soluzione possibile, lo sapeva, ne
valeva anche della sua incolumità oltre che quella di
Lionel, ma si sentiva così in colpa… Come se non
bastasse aveva un pessimo presentimento, che l’aveva resa
inquieta e con i nervi a fior di pelle per tutto il giorno, seduta sul
divanetto accanto a Dylan, il quale ogni tanto aveva avuto la
sfacciataggine di appisolarsi, rannicchiato come un bambino, mentre
l’agente Crawford faceva avanti e indietro dal suo ufficio
alla base operativa al piano sottostante, tornando sempre con la solita
risposta scritta in fronte: «Nessuna
novità».
Bryant era sparito nel nulla da più di
ventiquattr’ore ormai e non sapevano più dove
sbattere la testa, visto che alcune squadre dell’FBI avevano
già controllato tutti i covi dell’organizzazione
criminale che Bryant era riuscito a rivelargli, facendo un completo
buco nell’acqua ogni volta.
Quindi aspettavano. Aspettavano che Bryant facesse quella maledetta
chiamata di routine, spiegando il motivo del suo ritardo. Aspettavano,
anche se Grace era più che convinta che ogni minuto che
trascorrevano con le mani in mano poteva essere l’ultimo per
la vita di Bryant.
«Dobbiamo intervenire», decretò per
l’ennesima volta, entrando nell’ufficio e trovando
Michael seduto con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani tra i
capelli, accanto a Dylan, il bell’addormentato.
«Lo so, Grace, lo so. Ma che cosa possiamo fare? Mettere dei
rilevatori di posizione su Bryant era troppo rischioso, per non parlare
di alcuni uomini… Ci affidavamo alle sue chiamate da
cellulari usa e getta, e adesso siamo nella merda, senza avere la
minima idea di dove andare a cercarlo».
«Ma non possiamo nemmeno starcene chiusi qui dentro e
aspettare che qualcosa si smuovi!».
Michael si alzò di scatto e la fronteggiò, con
espressione bellicosa. «Hai qualche idea
migliore?!».
Dylan si alzò lentamente, a causa delle gambe intorpidite, e
si mise tra loro, posando le mani sulle loro spalle.
«Ragazzi, nemmeno litigando risolveremo qualcosa».
Grace sbuffò dal naso, ridotta ad un fascio di nervi tesi, e
stringendo i pugni lungo i fianchi gli voltò le spalle,
decisa a fare qualsiasi cosa, qualsiasi, anche girovagare per le strade
di Los Angeles per ore, piuttosto che restare ancora un minuto in
quella stanza.
Uscì dalla sede dell’FBI e raggiunse il suo
fuoristrada in tutta fretta, desiderosa di sfogare il suo nervosismo
guidando.
Vide un volantino bianco incastrato tra i tergicristalli e sbuffando
fece per strapparlo via, ma un colpo di vento improvviso lo
voltò e lei si irrigidì sul posto. Non era un
volantino, bensì una fotografia: lei e sua madre, sorridenti
e col mare alle spalle, avevano lo sguardo puntato verso
l’alto per ammirare il loro aquilone che finalmente si
librava nel cielo azzurro. Era la foto dietro la quale aveva trovato la
polaroid che l’aveva portata fino a Berlino e che le aveva
permesso di trovare la preziosissima agenda di suo padre. Che ci faceva
lì? E soprattutto, chi si era introdotto in casa di sua
madre per recuperarla?
Mamma!
Terrorizzata al solo
pensiero che qualcuno potesse averle fatto ancora del male
saltò sul fuoristrada e pestò il piede
sull’acceleratore, sgommando sull’asfalto.
Aprì la porta di
casa con il suo doppione delle chiavi e portò istintivamente
una mano dietro la schiena, sul calcio della pistola, mentre percorreva
il corridoio fiancheggiando la parete.
«Mamma?», la chiamò sottovoce, senza
nascondere l’ansia intrisa nella sua voce.
«Shhh. Non vorrai mica svegliarla, vero?».
Nella più totale oscurità, Grace puntò
la pistola verso la poltrona in salotto, da dove proveniva quella voce.
Le sue braccia però si piegarono di scatto, come colpite dal
taglio di una mano, quando i suoi occhi si posarono sull’uomo
il cui volto veniva illuminato dalla luce della luna, che le permetteva
di scorgere il suo sguardo vispo ed intelligente e le sue labbra tirate
in un sorriso beffardo.
Il portiere del palazzo dove si trovava il suo ufficio.
L’uomo che aveva affittato l’hangar per
l’organizzazione criminale, che era presente durante la
sparatoria all’Halo e forse
l’aveva anche causata. L’uomo che aveva parlato con
Doc Mahkah, dicendo quelle cose su di lei. L’uomo che le
aveva salvato la vita a Berlino, uccidendo il suo ex-complice.
In un nome e cognome, quelli veri, John Carter.
«Lo so che hai un sacco di domande da farmi e ti prometto che
un giorno…».
«Non ci pensare nemmeno», lo interruppe
rabbiosamente la detective. «Ho bisogno
di risposte e tu sei l’unico in grado di darmele.
Può anche darsi che questa sia l’unica volta che
ci vediamo».
Carter sospirò stancamente e sprofondò di nuovo
sulla poltrona, le mani intrecciate sullo sterno.
«Sappi solo che ogni minuto che perdiamo potrebbe
essere…».
«Tu collaboravi con mio padre?», fu la sua prima
domanda, dura come uno schiocco di frusta.
Carter chiuse gli occhi come se fosse stato davvero colpito alle
spalle, ora curve in avanti sotto un peso invisibile, ed
annuì con un cenno del capo. «Sin da quando mi
è venuto a cercare per chiedermi informazioni
sull’attentato sventato a Baghdad. Era tutta una farsa
studiata da alcuni ufficiali di marina lautamente ricompensati
perché armi americane finissero nelle mani di una cellula
terroristica irachena. L’ho capito solo quando tuo padre mi
ha messo la pulce nell’orecchio buono»,
indicò quello sinistro con due dita, un sorriso effimero
sulle labbra.
«Quindi voi due collaboravate e per incastrare i killer
assoldati dagli ufficiali tu sei diventato uno di loro. È
così?».
Carter mosse la testa in un cenno d’assenso, già
consapevole e pronto a sostenere lo strazio della prossima domanda.
«Perché hai lasciato che lo uccidessero?
Perché hai permesso che me lo portassero via in quel
modo?».
Non ebbe la forza di sollevare gli occhi nei suoi e rispose con voce
pacata, intrisa di dolore: «Ero appena entrato
nell’organizzazione, non avevo ancora la loro fiducia e col
tempo ho scoperto che era la loro prassi: si dice solo ciò
che è indispensabile che i collaboratori sappiano. Mitch
però… l’aveva intuito, non so come,
ma… Lui è sempre stato più bravo,
sempre un passo avanti a me, e se solo l’avessi capito anche
io… avrei fatto di tutto per salvarlo, credimi».
Grace lo fissò in maniera inquisitoria, ancora sulla
difensiva. Poi chiese con la stessa durezza nella voce: «Sei
un bravo cecchino?».
«Se quello che vuoi sapere è se ho ucciso io
quello spacciatore, la risposta è sì».
Carter vide il suo volto disgregarsi lentamente:
dall’imperturbabilità passò ad uno
stato di desolazione e di stordita incredulità.
«Tu hai ucciso Doc Mahkah?».
«Sì. So che era un tuo amico ma, fidati, non
avrebbe esitato ad usarti come scudo se tu gliene avessi dato il tempo.
Quella è stata solo una delle tante… prove di
lealtà a cui l’organizzazione mi ha sottoposto. E
per fortuna non sono stato sfortunato come Bryant… Non sarei
mai riuscito a fare del male a persone a cui tenevo, piuttosto mi sarei
ammazzato».
Quelle parole parvero far breccia nel muro che Grace aveva eretto
intorno a sé per difendersi da quell’uomo che era
sempre stato irraggiungibile, una macchia invisibile nella sua vita.
Infatti, con un gesto della mano gli diede il via libera per spiegarle
che cosa ci facesse in casa di sua madre, dove l’aveva
attirata con l’espediente della fotografia sul suo parabrezza.
«Dobbiamo intervenire subito, so dove si trova
Bryant». La sua voce era tornata forte, rinvigorita dalla
determinazione di salvare quello che un tempo era stato uno dei suoi
migliori amici.
Grace incrociò le braccia al petto ed aggrottò le
sopracciglia, nell’ultimo tentativo di resistenza contro
l’istintiva fiducia che provava nei suoi confronti.
«Perché mi dovrei fidare?».
Carter si alzò dalla poltrona, lasciandosi scappare un
risolino quasi isterico che venne inghiottito dalla serietà
dei suoi occhi castani.
Si era tolto le lenti a contatto che li avevano resi azzurri e aveva
cercato di levare via il più possibile la tinta che fino a
qualche settimana prima lo aveva fatto passare per biondo. Si era
lasciato crescere un po’ di barba, o più
semplicemente non aveva avuto tempo di radersi, e persino il suo viso
sembrava diverso, più pallido, come se
l’abbronzatura sulla sua pelle fosse svanita
all’improvviso. Trucco? Se davvero aveva usato fondotinta e
terra, doveva ammettere che non se n’era mai accorta.
«Se non ti fidi di me, non so di chi altro ti potresti fidare
in questo momento».
«Di Dylan e di Michael».
L’uomo quella volta sorrise dolcemente, anche se Grace ebbe
la sensazione che la stessa giudicando un’ingenua.
«Loro non sanno quello che so io. Loro non ti hanno protetta
in tutti questi anni, cambiando continuamente identità. Ho
fatto persino l’inserviente alla tua università.
Sì, pulivo i cessi pur di tenerti
d’occhio».
Grace rivide il suo volto fuori dalle aule di lezione, anche se
parecchio diverso grazie alla sua abilità di agire sotto
copertura, e ne fu quasi sconvolta.
Carter si fece ancora più vicino e le tolse di mano la
pistola, posandola sul mobiletto accanto all’ingresso.
«Loro, in particolare Dylan, non ti hanno salvato la vita a
Berlino», continuò in tono pacato, accarezzandole
la mano con il pollice. «Loro non conoscevano Mitch come lo
conoscevo io».
Grace si scostò chiudendo gli occhi ed
indietreggiò fino a trovare la protezione dello schienale
del divano, che fece da barriera tra loro. Quindi lo fissò
intensamente, stringendo gli occhi verdi come quelli di suo padre.
«Dimmi dove si trova Bryant».
Carter sorrise e tirò fuori una mappa di Los Angeles, la
stese sul tavolino basso, in modo che fosse anch’essa
illuminata dalla luce lunare, e si inginocchiò sul tappeto.
Grace fu costretta ad andargli accanto.
Quelli segnati con dei cerchi rossi erano tutti i covi ancora attivi
dell’organizzazione criminale, mentre quelli sbarrati con le
X nere erano quelli già sgomberati. Carter ne
indicò uno che era stato cerchiato di rosso più
degli altri, tanto forte da rischiare di bucare il foglio, e
scambiò uno sguardo con Grace, con un misto di
determinazione e di paura sul viso.
«Credo sia arrivata l’ora della resa dei
conti».
***
Erano passate appena due ore,
quando lei, Dylan e Crawford scesero da uno dei furgoni blindati
dell’FBI, con i loro giubbotti anti-proiettile addosso e armi
alle mani.
Il punto indicatole da Carter si trovava a ridosso delle Hollywood
Hills, in una zona molto isolata e boschiva, tanto che Grace si era
chiesta se potesse essere mai possibile: perché avevano
scelto quella villa iniziata e mai conclusa come ultimo covo? Come
avrebbero fatto a scappare, così circondati dagli agenti
delle squadre speciali dell’FBI e costantemente sorvegliati
dagli elicotteri? Magari era tutta un’enorme trappola e
Carter li aveva mandati a morire. Oppure era stato tutto un diversivo
creato apposta per fargli perdere tempo a trovare ed organizzare quelle
risorse mentre loro si dirigevano verso sud.
Grace si guardò intorno ancora una volta, inquieta, cercando
di memorizzare i punti d’accesso e d’uscita della
villa incompleta. Quindi si avvicinò a Crawford, il quale,
con Dylan e un altro paio di agenti, stava ricontrollando con
l’uso di una torcia elettrica la piantina della casa.
Quando il poliziotto incrociò il suo sguardo,
l’avvicinò e la guardò dritta negli
occhi prima di abbracciarla, stringendola forte a sé.
«Dovremmo avvisare Bill e Tom», le
sussurrò all’orecchio, preoccupato quanto lei di
non uscire più da quella villa.
Aveva ragione, avrebbero dovuto farlo e ogni secondo che passava si
sentiva sempre più pesante per i sensi di colpa,
ma… no, non avrebbe mai potuto farlo. Sentire la voce di
Tom, ricordare la promessa che gli aveva fatto quando era stata
aggredita a Berlino, le avrebbe impedito di entrare in quella casa per
paura di non sentirlo né vederlo mai più. Non
poteva rischiare di essere travolta dall’amore per Tom, dalla
prospettiva di vivere pacificamente con lui per il resto dei suoi
giorni. Non ora.
Grace si scostò dolcemente, gli occhi ardenti, e con tono da
non ammettere repliche rispose: «Non se ne parla».
Dylan abbassò il viso. «Ho un brutto
presentimento».
Non gli disse che ce l’aveva anche lei, come non gli disse
che aveva paura. Semplicemente gli batté la mano sulla
spalla e tirò fuori la sua fidata Glock per togliere la
sicura.
Si guardò intorno nuovamente, quella volta per scorgere
l’ombra di Carter dietro qualche albero nelle vicinanze,
invano.
«Sarò sempre ad un passo da te», le
aveva detto prima che lo lasciasse nel salotto della casa di sua madre.
Avrebbe dovuto sentirsi rassicurata, o perlomeno rincuorata che qualcun
altro le guardasse le spalle, eppure la sua risposta era stata secca e
tracciata da un velo di malinconia: «Non potrai proteggermi
per sempre».
Scrollò il capo per mandare via il suo viso, i suoi occhi
ora più familiari che mai, le sue parole pronunciate con
tono quasi paterno.
Allontanandosi da Dylan si era avvicinata ad uno dei capi delle squadre
speciali ed attirando la sua attenzione gli domandò:
«Siamo pronti?».
Purtroppo non fece in tempo a sentire la sua risposta,
perché un urlo agghiacciante si levò
dall’interno della villa, mobilitando e mettendo in allerta
tutti quanti. Muovendosi in fretta e silenziosamente e comunicando a
gesti, si posizionarono rasenti il muro della facciata. Quindi, ai
segnali dei capi squadra, sfondarono le poche porte installate ed
entrarono.
Che la festa
abbia inizio.
Se all’esterno quella villa risultava semplicemente
incompleta, senza nemmeno una mano di vernice sulle pareti grigiastre,
all’interno era un vero e proprio scheletro, con ancora le
impalcature e metri e metri di cellophane tra le varie stanze e sui
pavimenti scabri.
Gli agenti si separarono per controllare in ogni anfratto, comunicando
con gli auricolari o a gesti quando era «libero».
Grace, Dylan e Crawford si ritrovarono insieme per ispezionare il piano
superiore e furono costretti a dividersi quando sentirono i primi
spari, diretti proprio contro di loro.
Nascosti dietro due angoli adiacenti del corridoio, Grace e Dylan si
scambiarono un’occhiata e al «tre» si
sporsero e spararono contro il loro nemico, un’agile ombra
che si dileguò tra il fruscio dei teli di plastica.
Crawford, il primo a muoversi quando poterono uscire allo scoperto,
partì alla sua rincorsa, ma si fermò di fronte ad
una porta spalancata, con gli occhi sbarrati dall’orrore:
Bryant aveva le mani legate con una corda che lo teneva appeso al
soffitto, era seminudo ed era stato torturato per ore intere, con tagli
e bruciature in ogni punto visibile della sua pelle, tanto che la vasca
da bagno sopra la quale si trovava era spaventosamente piena di sangue,
che continuava a gocciolargli dai piedi.
«Mio Dio», esclamò senza fiato, quando
Dylan lo raggiunse.
Sentendo la sua voce, l’ex-marine sollevò
faticosamente la testa, fino ad allora abbandonata sullo sterno, e li
guardò con occhi imploranti ma rassegnati, intrisi di
sofferenza.
«Dovete andarvene da qui», biascicò,
sputando sangue ad ogni parola: aveva perso quasi tutti i denti, forse
estratti senza anestesia per invogliarlo a parlare.
Dylan si avvicinò a lui e si arrampicò sul bordo
della vasca per poterlo tirare giù, ma Crawford lo prese per
il giubbotto anti-proiettile e gli indicò lo strano
rigonfiamento intorno alla vita di Bryant, coperto da una specie di
foulard nero messo lì come a volergli coprire le
nudità, facendolo sembrare un martire come Cristo in croce.
«Ci sono esplosivi ovunque», rantolò
ancora l’ex-marine. «Lei ha… ha il
telecomando».
«Dobbiamo chiamare gli artificieri, non
possiamo…», sussurrò Dylan, in preda al
panico.
«Non c’è tempo. Dovete andarvene o
morirete qui dentro!». Ce l’aveva messa tutta per
alzare la voce e rendere il suo suggerimento simile ad un ordine, ma le
forze lo abbandonarono e gli fecero abbassare di nuovo il capo contro
il petto, senza che emettesse nemmeno un rantolo.
Michael, lentamente e con cautela, tirò giù Dylan
dal bordo della vasca. Quindi si sporse in corridoio alla ricerca di
qualche agente in carne ed ossa, mentre continuava a sentire,
direttamente nel timpano destro, i bisbigli degli uomini in
perlustrazione. Fu allora che si accorse dell’assenza di
Grace, rimasta con loro fino ad allora.
Si voltò verso il poliziotto, pallido come lui, e non ci fu
nemmeno bisogno di parlare.
Con il sudore che le imperlava la fronte e le palpitazioni a tremila,
si acquattò dietro ad un vano senza porta e dopo un respiro
profondo rotolò dall’altro lato, evitando di un
pelo un paio di pallottole e sparando a sua volta e un po’
alla cieca all’interno della stanza. Dal gemito soffocato che
riuscì a sentire, però, capì di averla
colpita.
Aveva scorto il suo viso dai lineamenti orientali quando si era
guardata le spalle prima di fiondarsi in quella stanza e per un attimo
i loro sguardi si erano incrociati.
Lei era l’ultima rimasta della sua organizzazione criminale,
perché il suo unico vero complice era morto, ucciso da
Carter quando l’aveva salvata.
Lei era il capo, lei aveva dato l’ordine di uccidere tutte
quelle persone innocenti o meno, tra cui anche suo padre.
Appena aveva visto i suoi occhi neri, tanto da non scorgervi nemmeno le
pupille, aveva avuto addirittura la sensazione che fosse stata lei ad
uccidere suo padre, con un freddo colpo alla nuca. Di certo non poteva
essere stato il suo complice, molto più portato per la furia
animalesca, quella che aveva avuto modo di provare sulla sua pelle e
che probabilmente era stata quella che aveva travolto sua madre.
Ed ora era ad un passo dal rendere giustizia a tutti, suo padre in
primis.
Si sporse all’interno per monitorare la situazione e vide la
sua ombra longilinea spiccare un salto oltre il parapetto della
terrazza illuminata dai raggi della luna. Grace allora si
alzò, rischiando di scivolare di nuovo sulla superficie
ricoperta di cellophane, e corse fuori, accolta da una brezza leggera e
profumata.
Guardò giù, dov’era saltata la sua
preda, e la vide correre di nuovo all’interno della casa,
scavalcando il foro creato per una finestra. Era saltata giù
come un gatto, atterrando su un mucchio terra ora cotta dal sole e
più simile a sabbia.
Dopo un rapido esame dei pro e dei contro dovuti a quella caduta, Grace
uscì di corsa dalla stanza e si fiondò
giù dalle scale, seguendo poi i boati degli spari per
orientarsi.
«Lei è mia!», avrebbe voluto gridare a
chiunque tentasse di colpirla e di fermarla, ma non ce ne fu bisogno,
perché lei riuscì di nuovo a scamparla, ferendo
anche un paio d’agenti. Grace si lanciò al suo
inseguimento un’altra volta e finì in un corridoio
buio e con diverse stanze da entrambi i lati. Si appiattì
contro il muro e con la Glock sollevata accanto al viso
provò a controllare i battiti del suo cuore impazzito che
non facevano altro che rintronarle nelle orecchie. Stava per entrare
nella prima stanza alla sua destra, quando la donna sbucò da
quella più avanti e le sparò addosso dopo aver
dato un ultimo colpo al caricatore appena inserito.
Grace ebbe la prontezza di riflessi di buttarsi dentro la stanza al suo
fianco, anche se un proiettile la colpì di striscio alla
gamba. Provò a ricambiare la cortesia, gettandosi fuori
all’improvviso, ma l’asiatica si era già
infilata dentro alla stanza in fondo al corridoio, da cui proveniva un
buio profondo: una cantina?
Grace accese la torcia e si strappò l’auricolare
dall’orecchio, infastidita dai fischi e dalle interferenze
che aveva iniziato a fare dopo lo scivolone che aveva fatto durante
l’inseguimento. Quindi si avvicinò alla porta buia
e si ritrasse, trasalendo, quando vide i bagliori di alcuni spari
all’interno. Per un attimo aveva rischiato di essere invasa
dalla paura, ma l’adrenalina fece il suo effetto e rasentando
il muro scese in fretta, pregando che i suoi occhi si abituassero in
fretta al buio che quella piccola torcia non poteva rischiarare in ogni
angolo.
«Salterete tutti in aria», disse la donna quando
per un attimo il fascio di luce della torcia di Grace le
colpì il viso, mostrandole un sorriso compiaciuto e un
piccolo telecomando.
La detective non ci pensò due volte prima di sparare e lo
fece, ignorando il fischio che aveva sentito e che le aveva provocato
un brivido alla schiena.
«Grace, alle tue spalle!».
La voce di Carter. Realizzò solo che lui era lì
con lei, in quella cantina buia e umida, prima di voltarsi,
terrorizzata da un ringhio feroce. La sua torcia ebbe solo il tempo di
illuminare il muso del rottweiler i cui denti aguzzi spiccarono come
stelle nel cielo quando aprì le fauci per azzannarla, prima
di cadere a terra con lei.
Gli spari che aveva sentito prima di scendere le scale…
erano serviti a liberare il cane, addestrato e lasciato a digiuno per
giorni, dalla pesante catena che lo aveva tenuto attaccato al muro fino
ad allora.
Alle sue spalle sentì le imprecazioni in cinese della donna,
mentre si azzuffava a colpi di karate con l’ex-marine,
impacciato ma abbastanza pronto di riflessi per parare i suoi colpi,
almeno fino a quando non fu distratto dalle urla di Grace.
Allora l’asiatica lo colpì con un calcio in pieno
petto, facendolo cadere a terra, e si gettò sul pavimento
alla ricerca di qualcosa, a tentoni a causa del buio pesto. Carter ebbe
così il tempo di alzarsi e di balzarle addosso, non potendo
usare la sua pistola perché era stato disarmato poco prima
nel combattimento corpo a corpo.
Grace, nonostante sentisse i denti del rottweiler premere sempre
più forte nel suo braccio destro e strattonarlo come se
fosse un pupazzetto di gomma, facendole vedere le stelle,
riuscì a dimenarsi e scalciando gli fece mollare la presa.
Dio mio, non
sento più il braccio, pensò atterrita,
prima di scorgere il cane che tornava all’attacco con un
balzo, quella volta puntando alla sua gola. In fretta
afferrò la pistola con la mano sinistra e sparò,
sperando almeno di ferirlo. Con un guaito il cane cadde a terra e solo
allora Grace poté tornare a respirare più o meno
regolarmente, anche se i pericoli che doveva affrontare non erano
ancora terminati.
Si portò una mano sul braccio morsicato e sentì
che il sangue scorreva a fiotti, caldo e viscido. Represse un conato di
vomito e si girò, recuperò la torcia sul
pavimento, anche se andava ad intermittenza, ed illuminò il
punto sul pavimento dove l’asiatica e Carter stavano
lottando, tirandosi pugni in faccia e scalciando. Anche se lei la sua
pistola ce l’aveva ancora, non poteva rischiare di usarla:
avrebbe potuto colpire Carter. Così fece l’unica
cosa che le venne in mente: si buttò nella mischia.
Cercò di afferrare il detonatore che l’asiatica
teneva stretto nella mano, ma a quel punto la donna trovò la
pistola di Carter sul pavimento e sparò contro di lui, per
levarselo di dosso. Grace non capì dove l’avesse
colpito, seppe solo che lui rotolò via gemendo e lei
provò a fare la stessa cosa, sparare contro
l’asiatica, mancandola e dandole
l’opportunità di avvicinarsi alla sua via di fuga:
una botola sul pavimento.
«Aufwiedersehen!», gridò
in un tedesco stentato e il suo eco ebbe qualcosa di tetro, prima che
iniziassero le prime esplosioni nel lato nord della villa, che diedero
il via ad una disastrosa catena quasi senza fine.
Grace, rimasta paralizzata con le mani sulle orecchie per il frastuono,
sentì due mani posarsi sulle sue spalle e riconobbe quelle
grandi e paterne di Carter, nonostante l’avesse toccata
soltanto quel pomeriggio.
«Hai ragione, non potrò proteggerti per
sempre», le sussurrò all’orecchio e
miracolosamente riuscì a sentirlo.
Avrebbe voluto chiedergli scusa, guardarlo negli occhi prima di morire
avvolta dalle fiamme oppure intossicata dal fumo, ma non
poté fare né l’una né
l’altra cosa, perché venne spinta nella stessa
botola in cui era scomparsa l’asiatica.
Nello stesso istante, al piano superiore, Michael e Dylan si gettarono
fuori dalla finestra, spinti anche dalla potenza
dell’esplosione che aveva distrutto quel salotto di
cellophane e mattoni a vista.
Si coprirono la nuca con le mani, mentre con loro volavano calcinacci e
brandelli di plastica bruciata, e quando tutto parve finito si
voltarono e videro a pochi metri da loro le lingue di fuoco che
annerivano i contorni della loro via di fuga e tentavano di uscire per
mangiare più ossigeno.
«No, non un’altra volta»,
mormorò l’agente dell’FBI con gli occhi
sbarrati e il viso pallido e sporco.
Si tirò su in piedi con fatica – aveva preso un
colpo al ginocchio atterrando in giardino – e fece un giro
della villa per sincerarsi delle condizioni degli agenti e nel caso
contare le perdite. Di Grace, come pensava cupamente, nessuna traccia.
«Grace!», gridò Dylan, disperato e con
le mani strette a pugni tra i capelli, inginocchiandosi di fronte alla
cornice della porta principale. «Grace, rispondimi, ti
prego!».
Si trascinò avanti a gattoni, verso le fiamme, fino a quando
lo stesso Crawford e un paio di altri agenti non lo trascinarono via,
stendendolo supino sulla terra dura e fredda, lasciando che si sfogasse
piangendo tutte le sue lacrime.
***
Quella mattina aveva deciso di
rimanere nella suite, ad attendere l’ora concordata con Bill,
con sua madre attaccata al telefono per concordare l'orario e i temi
della riunione che avrebbe tenuto con i suoi collaboratori.
Le ore erano passate lentamente e i suoi pensieri erano stati quasi
tutti per Aiden. Forse avrebbe dovuto semplicemente levarselo dalla
testa, dato che lui pensava di non meritare il suo amore. Prima o poi
sarebbe arrivato qualcun altro a farle battere il cuore e questo magari
non avrebbe rinnegato i suoi stessi sentimenti.
Era una ragazzina, non capiva per quale motivo doveva stare tanto male
per un coetaneo che forse era solo spaventato, ma poi le tornavano alla
mente i momenti passati insieme, a ridere sotto la pioggia che bagnava
i loro appunti, a litigare, in silenzio; le tornava alla mente il loro
primo ed unico bacio, una specie di premio di consolazione che Aiden le
aveva offerto prima di ferirla di nuovo, brutalmente, tanto da farle
desiderare di sparire nel nulla, in una città dove non
conosceva nessuno e nessuno aveva idea di quanti soldi avesse o
dell’importanza di suo padre.
Verso le dieci si era cambiata per uscire e aveva persino preparato la
macchina fotografica digitale, con tutte le buone intenzioni di
portarsi a casa qualche scatto di quella Milano baciata dal sole,
più bella di come se la fosse mai immaginata.
Quando Bill bussò alla sua porta, lei era in bagno che stava
finendo di legarsi i capelli sulla nuca, così fu sua madre
ad aprirgli e con sua grande sorpresa scoprì che non era
solo: Tom aveva deciso di unirsi a loro.
Molly uscì dal bagno cercando di stamparsi il suo sorriso
migliore sul viso, anche se non avrebbe voluto vedere il chitarrista ed
aveva paura che tirasse fuori tutto il dolore che teneva rinchiuso
dentro di sé, come se fosse il suo tesoro più
prezioso, di cui essere gelosa. La verità era che quel
dolore era l’unica cosa che aveva ottenuto dal suo amore per
Aiden e non poteva lasciarlo andare, sarebbe stato come andare alla
deriva senza quella zavorra che la teneva attaccata alla mera illusione
che qualcosa, prima o poi, sarebbe girato a suo favore.
«Sei sicuro di quello che stai per fare? Sai a che cosa vai
incontro, con noi due maniaci dello shopping», lo
avvertì con una punta di ironia nella voce, posandosi gli
occhiali da sole sul naso.
«Sono preparato a tutto», rispose Tom con una
scrollatina di spalle, sorridendo come se gli avesse appena lanciato
una sfida.
Molly ricambiò per un attimo, prima di afferrare la borsa
firmata e di prendere Bill a braccetto, salutando sua madre.
Salirono tutti e tre sull’auto nera noleggiata dalla famiglia
Delafield per l’intera durata di quel soggiorno milanese e
l’autista italiano li scarrozzò per le vie della
moda – da Via Alessandro Manzoni a Via Monte Napoleone, da
Via della Spiga a Corso Venezia fino a raggiungere Piazza S. Babila
– dove ogni pretesto era buono per entrare nei negozi e
provare mille capi, facendo impazzire le commesse quando decidevano
alla fine di non comprare niente.
Durante la loro caccia non avevano parlato molto di ciò che
era successo a Los Angeles mentre Bill e Tom erano lontani, forse
proprio perché Molly rispondeva a monosillabi e la maggior
parte delle volte cambiava proprio argomento, indicando vestiti, borse
od occhiali da sole – cose che avrebbero potuto distrarre
Bill, ma non di certo Tom, il quale non l’aveva mai persa
d’occhio, anche a costo di risultare intrusivo e parecchio
fastidioso. Ma era più forte di lui: voleva che Molly si
sfogasse, almeno con loro; che si liberasse di tutti i pensieri
negativi che la rendevano irraggiungibile e diversa, e non capiva
perché invece lei si ostinasse a fare finta di nulla, a fare
finta che stesse bene e che quello fosse un semplice week-end che i
milionari come lei ogni tanto di concedevano.
Ad un certo punto decisero di fare una pausa in Piazza Duomo, che Molly
trovò bellissima nonostante i piccioni e gli immancabili
lavori di ristrutturazione alla Madonnina della cattedrale neogotica.
«È un vero peccato che Grace non sia
venuta», esclamò all’improvviso, mentre
scattava una foto alla facciata del Duomo, inondata di luce.
Tom, rimasto per un attimo incantato a guardare una coppia di bambini
che correvano per la piazza facendo involare pigramente alcuni di quei
fastidiosi volatili grigi, si voltò di scatto
nell’udire quelle parole.
«Come hai detto?».
«Ho detto che è un vero peccato che Grace non sia
venuta», ripeté la ragazzina, rimanendo confusa di
fronte al suo atteggiamento vagamente inquisitorio.
Tom, infatti, aveva avuto una specie di illuminazione e il suo cervello
aveva iniziato a surriscaldarsi, in cerca di una possibile spiegazione.
Grace sapeva che Molly sarebbe venuta a Milano – durante la
loro ultima telefonata gli aveva detto che si era dimenticata di
dirglielo, – così come sapeva benissimo che anche
loro sarebbero rimasti lì ancora per qualche giorno. Allora
perché non era partita con lei, visto che non aveva altri
impegni?
«Tom, che ti prende?», gli domandò Bill,
fissando il suo volto serio e concentrato, le labbra strette tra di
loro.
Il chitarrista però non gli rispose e tornò a
fissare gli occhi in quelli di Molly, ora più guardinghi che
mai, come se temesse una sua improvvisa scenata in pubblico –
oro per i paparazzi che in più di un’occasione
quel giorno li avevano pizzicati per le vie di Milano.
«C’è qualcosa che non so?»,
chiese, stentoreo.
Molly sgranò gli occhi e si strinse nelle spalle, senza
sapere bene quale fosse la risposta da dargli.
«Beh, Grace stava per venire ieri, voleva farti una sorpresa,
ma giusto prima di imbarcarsi ha ricevuto una telefonata da parte di
quell’agente dell’FBI…».
«Michael Crawford?», intervenne in aiuto Bill,
nonostante anche lui iniziasse ad essere un po’ preoccupato.
«Sì, mi pare di sì. Non mi ha detto
nulla in proposito, solo che non poteva partire».
«E che cosa aspettavi a dirmelo?». La sua voce era
pacata, ma nei suoi occhi fiammeggiava la rabbia.
Molly, spaventata, portò le mani avanti. «Pensavo
te l’avesse detto, ora che la sorpresa era
saltata!».
Tom ricordò le parole che Grace gli aveva rivolto quella
mattina al telefono e notò tutti i particolari che si era
lasciato sfuggire allora: il tono evasivo con cui gli aveva detto che a
volte aveva attacchi di insonnia e che non c’erano
novità, il modo in cui lo aveva liquidato in fretta quando
aveva esclamato che Molly si trovava a Milano e nel loro stesso
hotel… Gli aveva persino detto «Ti amo»!
Lo faceva così raramente, come lui d’altronde, e
in occasioni così speciali che, ora che ci ripensava, col
cuore stretto in una morsa, stonava terribilmente e non era per nulla
rassicurante che gliel’avesse detto prima di terminare in
quel modo la chiamata.
Che si fosse immischiata in qualche guaio e l’avesse tenuto
all’oscuro? Che ci fossero state delle novità,
delle rilevanti novità,
nell’indagine, al contrario di ciò che gli aveva
assicurato?
Oh, Grace,
non puoi farmi questo tutte le volte… pensò, distrutto,
preoccupato ed arrabbiato allo stesso tempo, tanto che ebbe la
magnifica idea di sfogarsi sulla prima persona che gli
capitò a tiro: Molly.
«No, non l’ha fatto! E tu avresti dovuto avvertirmi
subito, invece di commentare tutto il tempo i tuoi stupidi vestiti e le
tue dannate borse con Bill!».
«Ma cosa…?».
Il frontman si parò di fronte a Molly e posò le
mani sulle spalle del gemello, cercando di calmare lui e di difendere
l’amica.
«Piantala, Tom, lei non c’entra niente».
Molly si liberò della protezione di Bill e spinse Tom con
entrambe le mani sul suo petto, facendolo indietreggiare di un passo
per la sorpresa, mentre alcuni turisti vicini a loro si erano voltati
per capire cosa stava succedendo. Stavano attirando non poca attenzione
e questo non era mai un bene.
La ragazzina gli rivolse uno sguardo truce, colmo di lacrime che
sapevano di rabbia e di sofferenza, e ruggì: «Mi
dispiace di non averti avvisato che la tua ragazza
non è venuta insieme a me. Mi dispiace di non potermi
accollare anche i tuoi problemi. Mi dispiace di essere venuta qui per
stare un po’ con degli amici che appena possono mi usano come
sacco da boxe».
«Molly, io…», provò a
scusarsi Tom, sconvolto e mortificato, ma non ne ebbe il tempo
materiale, perché lei lo spintonò ancora una
volta, con tutta la forza che poté. Quindi si
allontanò in fretta, diretta verso l’autista che
li aspettava nello Spizzico sotto una galleria.
Bill la guardò sparire all’interno del fast-food
italiano, poi posò lo sguardo sul gemello, senza sapere se
essere più confuso o deluso dal suo comportamento
irrazionale. Non volle nemmeno sapere che cosa gli fosse passato per la
testa: si voltò e raggiunse in fretta lo Spizzico,
lasciandolo solo tra i piccioni, i turisti e una compagnia di ragazzi
italiani che ridevano mentre si lanciavano delle patatine di
McDonald’s.
***
C'era voluto un po’,
un’ora buona, prima che l’incendio venisse
completamente domato dai vigili del fuoco, ma appena era stato
possibile Dylan e Michael avevano partecipato al controllo
all’interno della villa: avevano trovato i corpi carbonizzati
di due agenti dell’FBI rimasti intrappolati
all’interno, tramortiti dagli esplosivi; quello di Bryant,
ancora più raccapricciante di quando l’avevano
visto prima che morisse, e poi avevano scoperto una cantina, sotto le
macerie. Un’altra mezz’ora dopo, erano riusciti a
crearsi un varco e lì avevano trovato la carcassa di un
grosso rottweiler su cui, ad un attento esame nei laboratori della
scientifica, non solo si sarebbero trovate tracce del sangue e della
pelle di Grace sui suoi denti, ma anche un proiettile proveniente dalla
sua Glock calibro 9mm, che l’aveva ucciso prima
dell’arrivo delle fiamme.
Questo fu tutto quello che riuscirono a trovare riguardo a Grace e se
da un lato era terrificante non aver trovato di più, era
motivo di speranza non aver trovato il suo cadavere.
Lentamente quella speranza si era fatta ancora più solida,
tanto da credere che la detective fosse riuscita a scamparla, quando
trovarono una botola il cui passaggio sotterraneo era stato quasi del
tutto intasato dalle macerie e dalla terra quando era esploso
l’ordigno piazzato nelle tubature del salotto.
Dopo essere stati medicati alla bell’e meglio a bordo di un
paio di ambulanze accorse sul posto, Michael e Dylan si erano rintanati
in uno dei furgoni blindati e super attrezzati dell’FBI e con
un tecnico avevano studiato ancora e ancora la pianta in 3D della
villa, sperando di trovarvi il passaggio sotterraneo che collegava la
cantina al posto in cui, molto probabilmente, si trovavano la detective
e la donna asiatica. Ma questo non era segnato da nessuna parte,
probabilmente era stato costruito dall’organizzazione
criminale come via di fuga di emergenza.
I due non si diedero per vinti ed ordinarono che si continuasse a
cercare qualcosa in quel campo, qualcosa che facesse intendere ad un
passaggio nel sottosuolo; comunicarono a tutte le centrali di polizia
la scomparsa di Grace, ordinando che venissero contattati nel caso in
cui avessero anche solo una debole pista da seguire per ritrovarla.
Tutto questo mentre continuavano a tempestare il suo cellulare di
chiamate sempre inconcludenti, perché sempre
irraggiungibile.
I loro sforzi vennero ripagati quando Oswin in persona, costretto al
solo lavoro d’ufficio, chiamò Dylan e gli
comunicò un’importante novità.
«Ho fatto pressione anche tra gli agenti della stradale e dei
colleghi mi hanno passato una denuncia per furto
d’auto».
«Vai avanti», lo supplicò il poliziotto,
sulle spine.
«L’uomo che ha sporto denuncia ha dichiarato che
una ragazza la cui descrizione corrisponde a Grace gli ha detto di
essere della polizia e lo ha costretto a scendere, puntandogli la
pistola contro. Ha detto anche che è spuntata dal
nulla».
«Lo sapevo, lo sapevo che non poteva averci
lasciato!», urlò entusiasta, stringendo la spalla
di Crawford per trasmettergli un po’ di quella gioia che gli
stava facendo esplodere il petto. Ma non era ancora giunto il momento
dei festeggiamenti, dovevano prima trovarla.
«Dobbiamo rintracciare quell’auto», disse
ancora e Oswin gli diede modello e numero di targa, in modo tale che
Crawford potesse diramare un altro avviso ai colleghi di tutta Los
Angeles.
Poi Oswin aggiunse: «È stata rubata nel garage
sotterraneo di un centro commerciale, i colleghi sono già
andati a recuperare i filmati delle telecamere di sicurezza. Li avrete
tra poco».
Come aveva promesso, i filmati arrivarono poco dopo tempo e Dylan e
Michael li guardarono fino a quando non scorsero Grace uscire da un
tombino, correre verso la prima auto che le compariva di fronte,
rischiando tra l’altro di investirla, e ordinare
all’uomo alla guida di scendere, per poi premere
l’acceleratore e scomparire dall’inquadratura.
«Un attimo, torna indietro».
Il tecnico premette il tasto rewind e fermò
l’immagine nel momento in cui Grace gettava uno sguardo
consapevole verso la telecamera ed annuiva, il viso sporco di fuliggine
e di terra e i vestiti umidi. La cosa che interessava a Michael,
comunque, era il suo braccio destro, rosso di sangue e quasi immobile
lungo il fianco.
«Dobbiamo trovarla subito», decretò con
tono ferale e Dylan annuì, il cellulare ancora stretto nella
mano dopo aver rifiutato la prima delle tante chiamate che
d’ora in avanti avrebbe ricevuto da Bill.
***
Magari non è
successo nulla di grave. Magari ha solo dimenticato di mettere il
cellulare in carica. Sì, dev’essere proprio
così.
Si portò le
dita agli angoli interni degli occhi e sospirò stancamente,
mettendo via il cellulare ed entrando in ascensore accanto a Bill.
C’era della tensione tra loro, dopo quello che era successo
con Molly e non solo, ma preferì rimandare i chiarimenti,
almeno con lui.
Dopo il loro giro nel centro di Milano, erano tornati tutti e tre in
albergo e poco tempo dopo Bill e Tom erano dovuti salire su
un’altra auto che li aveva portati allo studio televisivo
dove avevano registrato la puntata di un programma di musica italiano.
Era stato inquieto e con la testa altrove per tutto il tempo: un
po’ con Grace, a Los Angeles, che continuava a non
rispondergli al telefono, e un po’ con Molly, nella stessa
città, che non gli aveva più rivolto uno sguardo
dopo la loro bisticciata in pubblico.
Prima di cena aveva bisogno di parlare con lei, per levarsi almeno un
peso dallo stomaco, e per questo rimase da solo
sull’ascensore per raggiungere il piano dove si trovava la
suite di Molly e sua madre.
Fu proprio quest’ultima ad aprirgli la porta, dicendogli che
l’avrebbe trovata nella sua camera da letto, da cui non era
più voluta uscire da quando era ritornata quel pomeriggio.
Tom, col cuore pesante come un macigno, la raggiunse attraversando il
salottino e bussò piano alla porta. Non ottenne alcuna
risposta, però non si fece problemi e gettò
un’occhiata all’interno della stanza, scorgendo
Molly rannicchiata sulla poltrona vicina alle portefinestre che davano
su un piccolo terrazzo.
«Molly…».
La ragazzina si voltò di scatto e Tom, incrociando i suoi
occhi gonfi e lucidi di pianto, serrò le labbra mentre il
suo volto si accartocciava in un’espressione dispiaciuta.
Si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò con cautela,
per poi posarle una mano sul capo ed inginocchiarsi di fronte a lei.
«Mi dispiace, ho sbagliato», mormorò,
accarezzandole ora i capelli, ora il viso. «Ero e sono
preoccupato per Grace, ma questo non mi giustifica, perché
me la sono presa con te ingiustamente. Puoi perdonarmi?».
Molly mosse il capo su e giù in segno d’assenso ed
inspirò profondamente. Tom poté sentire
l’aria che le scendeva in gola con un rantolo, prima che
Molly si portasse le mani sul viso e ricominciasse a singhiozzare
violentemente.
«Piccola, ti prego, non fare
così…».
Il chitarrista capì che il motivo delle sue lacrime non era
di certo lui e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu
di avvolgerle le braccia intorno alla schiena squassata dai singhiozzi,
lasciando che nascondesse il viso umido nell’incavo della sua
spalla.
Nello stesso istante, dall’altra parte del mondo, Grace
apriva gli occhi in una stanza d’ospedale e si guardava
atterrita la mano destra, immobile nonostante provasse e riprovasse a
stringere le cinque dita intorno al lenzuolo candido.
***
Pochi istanti prima di
svegliarsi, ancora intontita dagli antidolorifici che le avevano
somministrato mentre era sotto i ferri, Grace aveva rivissuto quelle
ore che mai, mai, le avrebbero fatto la grazia di sbiadire nella sua
memoria.
La caduta
inaspettata e il frastuono proveniente dall’alto la
lasciarono per qualche secondo stordita a terra, con le orecchie che
ronzavano fastidiosamente. Quando ebbe la forza di rialzarsi,
sostenendosi solo sul braccio sinistro, quello buono, si rese conto di
essere in un tunnel buio e lungo diversi metri, con le pareti rocciose
e scabre, come quelli delle vecchie miniere d’oro.
Possibile che quei criminali avessero avuto il tempo di fare una cosa
del genere? E dove conduceva?
Non potendosi dare una risposta alla prima domanda, decise di trovarne
una almeno per la seconda.
Senza mai staccare la mano dalla parete alla sua sinistra e con la
torcia mal funzionante sotto l’ascella destra, procedette a
testa china per qualche metro, fino a quando un tremendo boato alle sue
spalle non fece tremare le pareti che addirittura crollarono
là dove c’era la botola.
Ora era definitivamente in trappola in quel tunnel e non poteva che
andare avanti, sperando che la sua nemica non fosse già
troppo lontana.
Camminò per una cinquantina di metri e poi, finalmente,
sentì un odore diverso nell’aria, o per meglio
dire una puzza diversa. Svoltando l’angolo, vide che il
tunnel era finito e portava direttamente nei condotti fognari sotto le
strade trafficate di Los Angeles.
Non potendosi aggrappare a nulla, fu costretta a tuffarsi
nell’acqua sporca e, nonostante le arrivasse appena alle
cosce, si bagnò tutta a causa della corrente che,
più forte di quello che credeva, l’aveva spinta in
avanti.
Alla sua imprecazione se ne susseguì un’altra, in
cinese, che le fece drizzare la testa e dimenticare le ferite e
l’acqua che le infradiciava i vestiti. Seguì il
tunnel con le spalle contro la parete di mattoni coperti
d’umidità, la pistola nella mano sinistra, e poco
prima di svoltare due proiettili colpirono l’angolo del muro
dietro il quale era nascosta. Dopodiché il rumore dei passi
veloci dell’asiatica le fecero intuire che stava scappando.
Non glielo avrebbe mai permesso, non ora che le era così
vicina.
La inseguì in quella città sotterranea e
puzzolente e il suo pensiero corse per la prima volta a Dylan e
Michael: sicuramente erano in pena per lei, lei che li aveva lasciati
senza dire niente per inseguire la donna autrice di tutte le morti e le
sofferenze che aveva patito in quegli anni. Pensò anche a
Carter, rimasto nella cantina, preferendo non chiedersi se si fosse
salvato, e poi anche a Tom. Quella volta si sarebbe arrabbiato sul
serio, già lo sentiva urlarle improperi tra le lacrime. Ma
prima doveva portare a termine la sua missione e sopravvivere.
Dovette appiattirsi di nuovo contro il muro per evitare un paio di
pallottole e quando si sporse oltre l’angolo vide
l’asiatica salire una scaletta ed aprire il tombino sopra la
sua testa. Era la sua occasione: sparò con un occhio chiuso
per prendere meglio la mira, ma sfortunatamente la mancò
– non era mai stata brava a sparare con la sinistra
– e lei non fu tanto stupida da perdere altro tempo.
Una volta sparita alla sua vista, Grace corse alla scaletta e con
sforzo immane, sentendo il morso sul braccio pulsare mentre tornava a
sanguinare copiosamente, tenne sollevato il tombino per perlustrare
l’esterno. Vide alcune auto parcheggiate di fronte a
sé e ad istinto decise che il posto in cui erano sbucate
doveva essere un garage sotterraneo.
Senza darsi troppa pena nel cercarla, vide l’asiatica
sfrecciare di fronte a lei in sella ad una moto da corsa verde acido,
con un casco nero e dalla visiera lucida infilato sul capo.
La vide uscire dal garage e allora si affrettò a risalire in
superficie, gettandosi di fronte ad un auto diretta verso
l’uscita, che inchiodò appena in tempo per non
falciarle le gambe.
«Cristo, è per caso impazzita?!»,
gridò l’uomo ancora nella sua divisa da fast-food,
sporgendosi fuori dal finestrino.
Grace corse alla portiera e l’aprì, constatando
con enorme sollievo che era solo nell’abitacolo.
«La prego di scendere, sono un’agente di polizia e
sto per perdere le tracce della criminale che sto inseguendo».
«Che cosa?! Lei non sembra un’agente di
polizia!», ribatté, lanciandole
un’occhiata sommaria.
«Come crede, ma mi serve la sua auto. Subito».
L’uomo ancora seduto al posto di guida fece per aprire la
bocca e ribattere ancora una volta, ma Grace, visto che le buone
maniere non erano servite e ogni secondo era prezioso, gli
puntò contro la pistola. L’uomo
impallidì e in un attimo fu giù
dall’auto, con le mani sollevate.
Grace si gettò uno sguardo intorno, individuò una
telecamera attiva e sperando che Dylan e Michael potessero
rintracciarla annuì guardando dritto
nell’obbiettivo. Quindi si mise al volante e senza nemmeno
assicurarsi che la portiera fosse chiusa a dovere pestò il
piede sull’acceleratore, partendo con una sgommata sul
cemento verniciato di rosso.
Uscì dal garage sotterraneo e ringraziò che fosse
notte fonda, perché non avrebbe sopportato la luce dopo aver
frequentato solo posti bui.
Fece in tempo a vedere la moto verde acido in fondo alla strada, prima
che svoltasse, e si regolò di conseguenza, andando a
tavoletta e sterzando bruscamente se necessario, sommersa da una
cascata di clacson.
In poco tempo recuperò terreno e nonostante la moto potesse
zigzagare tra le auto la raggiunse e per poco riuscì anche a
sfiorarne la ruota posteriore col paraurti.
L’asiatica accelerò e come Grace temeva si
voltò per spararle in corsa, cosa che lei non avrebbe mai
fatto perché nelle sue condizioni non poteva essere certa
della sua mira e non voleva che innocenti ci andassero di mezzo.
Il parabrezza si incrinò in due punti, ma Grace, sprofondata
nel sedile, riusciva a vedere abbastanza da non restare mai indietro,
in quell’inseguimento che sarebbe potuto tranquillamente
passare come la scena clou di un film d’azione.
Presa com’era nel non perdere d’occhio
l’asiatica e nell’evitare scontri con auto e
pedoni, non si era accorta che il paesaggio era cambiato da qualche
tempo: i grattacieli e le palme erano lontani ormai, di fronte a loro
solo distese di terra bruciata e l’asfalto
dell’autostrada che portava dritta dritta al confine con il
Messico. Stava tentando di espatriare, ma se questo poteva essere un
problema per i federali e la polizia in generale, non lo era di certo
per Grace.
Con un’accelerata che fece andare su di giri il motore della
Mazda che aveva trovato sul suo cammino, si avvicinò a lei
ancora di più e dato che non avevano auto né
davanti né dietro, le restituì i colpi che le
avevano e le stavano tutt’ora incrinando il parabrezza.
Allungò il braccio sinistro fuori dal finestrino e
sparò: la ruota posteriore esplose, facendo sbandare
violentemente la moto contro il guard-rail; il secondo colpo, invece,
colpì l’asiatica alla schiena e Grace la vide
chiaramente gettare la testa all’indietro, in un muto grido
di dolore lanciato contro il cielo, prima di cadere e rotolare a terra
per qualche metro, mentre la moto si sdraiava su un fianco e roteava
con mille scintille fino al guard-rail.
Grace fermò l’auto e scese, sentendo il braccio
destro sempre più pesante, inerte lungo il fianco. Si
fermò accanto al corpo dell’asiatica e la
disarmò dando un calcio all’arma che teneva in
mano. Quindi si inginocchiò e fissò gli occhi nei
suoi, che ancora si muovevano con una scintilla di vita al loro
interno.
«Sei stata tu ad uccidere mio padre. Sei stata
tu!», gridò e l’afferrò per i
capelli, desiderando una conferma, ma la donna si stampò un
sorriso quasi inebetito sul viso, guardando il cielo oltre la spalla di
Grace.
Grace puntò la canna della pistola contro la sua fronte e
chiuse gli occhi. In un attimo la sua mente si affollò di
ricordi, da quelli più dolorosi – il ritrovamento
di suo padre morto assassinato nel suo ufficio, il viso pesto di sua
madre dopo che era stata aggredita, Lionel in ospedale, sopravvissuto
per miracolo ad una morte per dissanguamento in un motel di Tijuana
– a quelli più felici – i momenti
trascorsi con Dylan, con Bill, con Molly… con Tom.
Rammentò un pezzo di una conversazione intrattenuta con lui
una sera:
«A volte mi
chiedo che cosa farei io se mi trovassi di fronte alla persona che ha
ucciso a sangue freddo mio padre e… non lo so, non lo so se
la ripagherei con la stessa moneta oppure lascerei la giustizia alla
legge… non ne ho idea».
«Sono certo che faresti la cosa giusta».
E poi,
improvvisamente, rivide in maniera nitida, tanto da toglierle il fiato,
il bambino che aveva avuto come apparizione quando era stata ad un
passo dalla morte in quel vicolo a Berlino. Il bambino di Tom, il loro
bambino.
Era ancora china sul corpo dell’asiatica, sempre meno
cosciente a causa del proiettile che aveva nella schiena e da cui
perdeva moltissimo sangue, con la canna della Glock contro la sua
fronte, ma non sapeva più cosa fare, quale fosse la cosa
giusta.
Vendicare la morte di suo padre con le sue stesse mani, oppure lasciare
quel compito alla legge? Macchiarsi del sangue dell’assassina
di suo padre, come lei si era macchiata del suo?
Il rumore assordante delle pale di un elicottero che volava sopra la
sua testa la fece tornare alla realtà. Alzò il
capo verso il cielo, poi si guardò attorno e vide un paio di
auto ferme vicine alla Mazda che aveva preso in prestito. Due uomini
erano scesi dai veicoli e chissà da quanto osservavano la
scena impietriti, uno con il cellulare con il quale aveva chiamato il
911 ancora stretto in mano. Grace fece viaggiare il suo sguardo fino a
quando non scorse all’interno di una delle auto, seduto sul
sedile posteriore, il viso di un bambino di cinque o sei anni, nel
quale erano incastonati due occhi verdi spalancati. Somigliava a suo
padre da piccolo.
A quel pensiero Grace stese un sorriso stanco e dolente, ma anche con
una punta di ironia agli angoli delle labbra, e scoppiò in
lacrime, lasciandosi cadere accanto al corpo dell’asiatica,
sull’asfalto ormai freddo, illuminata dal cono di luce
proveniente dall’elicottero.
Quando aveva aperto gli occhi, aveva subito capito di essere in
ospedale e aveva cercato di capire che ora fosse, ma la sua
più totale attenzione era stata catturata dal braccio
fasciato che aveva provato ad alzare per aggrapparsi alla sbarra del
suo letto. Il braccio destro, quello che era stato morso dal rottweiler
in quella cantina.
L’aveva sentito pesante, come se le avessero colato del
cemento nelle giunture, ma c’era qualcos’altro ora,
qualcosa di ben peggiore: non riusciva a muoverlo dal gomito in avanti,
compresa la mano che, per quanto si sforzasse, rimaneva inerte, le
cinque dita abbandonate sul lenzuolo bianco.
Le lacrime le punsero gli occhi, ma in quel momento la porta della sua
camera venne spalancata e Dylan la guardò con gli occhi
sbarrati, manco si fosse materializzata lì dal nulla, e un
sorriso entusiasta sulle labbra.
Era sporco dalla testa ai piedi, i capelli e i vestiti erano ancora
impregnati dell’odore del fumo dell’incendio e
aveva delle terribili ombre violacee intorno agli occhi, ma tutto
sommato era okay, come se lo ricordava, e questo la rincuorò
almeno un po’.
«Ehi, sei sveglia. Come stai?».
Grace, senza distogliere lo sguardo dal suo, felice e luminoso come
quello di un bambino a Natale, provò di nuovo a stringere il
lenzuolo tra le dita. Invano.
«Bene», mentì con la voce arrochita,
cercando di sorridere. «Tu? Michael?».
«Stiamo tutti e due bene, anche se ci hai fatto passare dei
brutti quarti d’ora. Non farlo mai più, ti
supplico».
Grace gli rivolse un altro tenue sorriso velato di compassione,
più per se stessa che per lui.
«Ho parlato con Tom», esclamò il
poliziotto dopo un attimo di silenzio, questa volta con tono amorevole
ed avanzando di un passo. «Gli ho raccontato tutto quello che
è successo, o almeno quello che sapevo. Credo che in questo
momento stia discutendo con il manager della band. Fosse stato per lui
avrebbe preso il primo volo disponibile».
«Certo, sai com’è fatto»,
rispose, ma il solo pensiero di non poterlo più accarezzare
con entrambe le mani, perché una paralizzata, la sconvolse
tanto da farla tremare impercettibilmente. Così, per
distrarsi, gli chiese: «E Carter? Era ferito, lui
come…?».
«Carter?», domandò cautamente Dylan,
quando lei si interruppe di fronte alla sua espressione sconcertata.
«Sì, lui… lui era con me, nella
cantina, mi ha salvata ancora… Dylan,
lui…».
«Aspetta un momento, me lo spiegherai dopo. Adesso ti chiamo
un dottore».
Grace lo lasciò fare. Lo guardò mentre usciva
dalla porta, ancora con quell’espressione confusa e scettica
sul viso, che aveva spazzato via la sua gioia di vederla viva e vegeta.
Poi si concentrò di nuovo sul suo braccio e sulla sua mano,
ancora immobili.