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Autore: Coleicheamavailcielo_    01/04/2013    0 recensioni
E poi ci sono io. Con le mie insicurezze, paure, desideri e un alto tasso di acidità. Sì, perché le persone mi reputano acida e dopo un po' di tempo ho capito che non è una brutta cosa. Perché vuol dire che sembro forte, sicura e decisa, mentre in realtà sono riflessiva, sensibile e con la testa tra le nuvole. Io sono quel tipo di ragazza che non si nota facilmente, ma sono sempre quella in disparte, taciturna, che osserva le persone e quello che accade intorno ad esse. Studio attentamente ogni dettaglio e non mi faccio sfuggire nulla. Sono sorridente, tranquilla e sempre alla ricerca del lato positivo, ma a volte non lo riesco a trovare. So di non dare particolarmente nell'occhio, ma a quanto pare non è così per qualcuno. Perché, si sa, tra persone acide ci si nota e ci si capisce subito. Perché ci si studia a vicenda, e ci si apprezza. Non ci fermiamo solo al fuori di noi, ma scaviamo fino dentro l'anima. Non ci accontentiamo. Siamo così. E quindi, se secondo voi, una persona taciturna, osservatrice e molte volte solitaria può esser definita acida, allora, chiamatemi pure così.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi. Come sempre sono davanti la finestra della mia camera ad osservare il lento danzare delle chiome degli alberi. E’ domenica, il mio giorno preferito, perché siamo tutti insieme e il senso di tranquillità che aleggia in casa mi fa sentire leggera, vuota dai miei pensieri. Sono le 08.00 del mattino e io sono l’unica già sveglia. Dalla finestra mi sposto davanti l’armadio. Scelgo il solito paio di jeans aderenti, una canottiera beige e la solita felpa con la zip color bordeaux. Come ultimo dettaglio, girocollo con il ciondolo ambrato, acquistato in Egitto, e le Superga in tinta con la felpa. Dall’armadio trascino il mio corpo stanco fino al bagno. Mi lavo la faccia con acqua fredda e con una spazzola mi pettino i capelli, sciogliendo quei nodi che possono essere paragonati a tutte quelle parole non dette rimaste in gola. Con disinvoltura mi passo sotto le occhiaie il correttore, e con movimenti lineari, passo sulle ciglia il mascara di sempre. Ecco, finito. Semplice e carina. Così mi definisco. Mentre me ne ritorno in stanza passo davanti lo specchio a tutto muro posizionato in corridoio. E lì mi osservo con, quasi, riluttanza. Sono fatta così: occhi marroni dal taglio orientale, che quando vengono colpiti dalla luce del sole, assumono delle sfumature tra l’arancione e il bordeaux. Naso dritto, lungo, che mia madre ha sempre definito ‘elegante’.  Sorriso sempre presente, ma non proprio perfetto. Guance rosee, morbide e calde. Alta 1,72. Mi piace essere precisa,  perché odio quando la gente esagera.  Seno appena accennato, il necessario per dire ‘Ehi, sei una ragazza, non scordartelo!’. Pancia gonfia, come sempre, e cosce muscolose, grandi.  E poi, ecco il punto forte, l’unica cosa che amo di me stessa. I capelli. Lunghi, lisci sopra e ondulati sotto, marroni scuro e alle punte sono più chiari, ambrati. Sono belli e sono tanti, corposi. Scendono sul mio corpo come una cascata di parole, come fosse uno scudo, capace di proteggermi dallo sguardo altrui. Mi piacciono, mi fanno sentire speciale.

‘Ehi, che ci fai già sveglia?’ mia madre si sporge dalla porta della sua stanza con aria stanca, confusa e i capelli arricciati e fuori posto.
‘Scusa mamma, non avevo più sonno.’‘Va bene, vuoi che ti prepari la colazione?’ chiede con gli occhi mezzi chiusi, strofinandoseli appena con il dorso della mano.
‘No, tranquilla. Faccio da sola.’
Si volta sorridendomi e con passo sgraziato la vedo rigettarsi nel letto come se non avesse, mai, desiderato altro. Mi dirigo in cucina dove, con movimenti ormai meccanici, prendo il latte, lo faccio riscaldare, prendo la mia tazza, ci metto dentro il cacao e prendo i miei biscotti. Dopo 20 minuti, ho finito sia di mangiare che di ripulire tutto quanto, così, salgo di nuovo in camera mia dove, sul letto, mi aspetta il mio album di foto. E quando dico ‘mio’ intendo con foto mie, scattate da me, pensate da me, osservate da me. Sì, amo la fotografia, amo catturare gli attimi, le persone, i luoghi.  Amo averli tutti lì, raccolti in quell’album, come se potessero ricostruire il percorso della mia vita. Lo appoggio sulle gambe e con il pollice e l’indice, sfoglio quelle pagine di plastica, in grado di farmi spuntare sempre un sorriso.

Dopo che tutti si furono svegliati, mi sedetti al tavolo con loro aspettando che facessero colazione, parlando del più e del meno e ridendo, ogni tanto, alle insolite battute di papà.  
‘Vuoi mangiare ancora?’
‘No, mamma. Non ne ho voglia.’
‘Dai, un pezzetto di pane con la marmellata.’
‘Non mi piace, lo sai.’
‘E allora un altro biscotto.’
‘No, mamma! Perché non capisci che la gente, qualche volta, può anche rispondere di ‘No’ alle tue richieste?’ mi alzo di scatto e mi dirigo in camera. Nel corridoio mi scontro con mio fratello più grande, appena sveglio, mi ero scordata di lui. Mi sorride come sorridono le persone assonnate.
‘Sempre più acida, eh?’ sento dire da mia fratello, rivolto a mio padre che, come sua consuetudine risponde ‘E’ fatta così, lo sappiamo tutti.’
Acida, acida, acida, acida.  Solo questo sanno dire su di me, niente di più. Non si chiedono ‘Perché?’ o non si forzano a capire che cosa mi passa per la testa. Nessuno. Forse mia madre è l’unica che tenta di ascoltarmi e di leggermi dentro, ma la sua scarsa pazienza, la fa arrendere dopo pochi minuti.  

Prendo la mia macchinetta fotografica,  regalo dei nonni, e esco di casa senza salutare nessuno.  La fotografia mi aiuta a distrarmi dalla confusione che ho in testa. Mi aiuta a non pensare alle mie paure e insicurezze. Mi aiuta, come fosse un’amica.
Mentre cammino per strada, noto un bambino con in mano lo zucchero filato che è più alto di lui, intento a mangiarlo il più veloce possibile, come se avesse paura che qualcuno potesse portarglielo via. ‘CLICK’, ‘CLICK’, ‘CLICK’.  “­Meglio fare più di una foto, da varie angolazioni e distanza”, me lo ripete sempre il nonno che da più grande si era appassionato, come me, alla fotografia. Ecco, forse lui, è l’unica persona che mi capisce fino in fondo, perché? Perché è come me. Acido, riflessivo, taciturno, osservatore e sempre sorridente.

Mentre mi riguardo le foto scattate al bambino, sento addosso di me lo sguardo di qualcuno. Come se mi stessero osservando, studiando e spogliando poco a poco delle mie corazze. Mai provata questa sensazione. Di solito quando sentivo lo sguardo di qualcuno su di me, era più per deridermi o giudicarmi (nel bene o nel mane, sia chiaro). Ma stavolta è diverso. E’ come se qualcuno volesse capirmi, come se qualcuno si fosse accorto di me, ma della ‘me’ che tengo al sicuro nel mio corpo. Non quella che decido di mostrare a tutti facendola definire ‘acida’. Parlo della ‘me’ timida, investigatrice, sincera e solare. Di quella ‘me’. Di quella sensibile e dolce, come diceva mio nonno.
Allora mi guardo intorno, cercando di capire di chi sia quello sguardo che da circa 5 minuti si era posato su di me. Saltando le varie persone distratte che camminano frenetiche per la strada, dandosi spallate e spintoni, mi soffermo su quelle persone tranquille e soprattutto sole. Come me. Girando e rigirando con gli occhi le persone intorno a me, ne colgo una. Un ragazzo. Alto, circa 12 centimetri più di me (vi ho detto che sono precisa su queste cose, no?!) , capelli scuri, neri, corti e lisci.  Occhi fissi, nella mia direzione (se non, proprio, su di me) di un verde quasi stravolgente. Un verde scuro, penetrante, diciamo misterioso. Naso con una piccola gobba, come quella di mio padre, che lo rende ancora più interessante. Labbra carnose, ma poco definite, senza un certo contorno, come le mie. Felpa blu, con una scritta bianca e nera, illeggibile dalla mia distanza.  Jeans, classici, e scarpe da ginnastica dello stesso blu della felpa. Poso i miei occhi di nuovo sui suoi. Sono attenti, vigili a qualsiasi movimento.  Sono su di me, come i miei su di lui. Chissà cosa stia pensando. Chissà cosa stia pensando riguardo me. Mentre mi faccio tutte queste domande, capisco di esser rimasta immobile, con la bocca mezza aperta e con lo sguardo fisso su di lui. Con un’espressione confusa,  incredula e curiosa. Voglio sapere chi è quel ragazzo. Voglio sapere qualcosa in più su di lui. Voglio parlargli. Ma come sempre, raccolto il coraggio necessario, mi blocco e rimango ferma sul posto come fossi stata costretta a non muovermi nemmeno di un centimetro. E allora siamo qui. Fermi entrambi, con il vento di maggio appena iniziato, a scompigliarci i capelli.

Quando sento vibrarmi il cellulare, ritorno al mondo di tutte le persone normali, guardo il display e vedo un messaggio di mia madre:
‘Dove sei? Sei scappata senza dirci niente. Mi dispiace di aver insistito così tanto, con te, stamattina. Non volevo, so che ti da fastidio quando le persone insistono su qualcosa. Comunque, volevo dirti che a pranzo vengono i nonni così, se puoi tornare in tempo, ne sarei felice.  Baci, mamma.’
So che le dispiace veramente. So che non l’ha fatto apposta, stamattina, ad insistere con me. Lo so, perché è mia madre, e quindi sa anche come sono fatta, a grandi linee. So che mi vuole bene, e so che anche io gliene voglio altrettanto. Così, dentro di me, so già di averla perdonata, anche se la mia acidità non lo darà a vedere. Ora, però devo tornare a casa, che arrivano i nonni. Non vedo l’ora.
Quando mi sono accorta di aver distolto lo sguardo da quel ragazzo  per troppo tempo, se ne era già andato, senza lasciare nessuna traccia.

‘Chissà se lo avrei mai più rivisto o incontrato…’ questa frase e questi dubbi mi si alternarono in testa per tutto il giorno e quando finalmente tornai nel mio letto, ebbi qualche minuto di pace, ma non appena entrai nel mondo dei sogni, lo sognaii, come non avevo mai sognato nessuno.
 
Ah, per vostra informazione, mi chiamo Ella. La mia bisnonna era di origine ebraica e mia nonna si era innamorata dei nomi di questa origine. Così mi chiamo Ella, per quei pochi amici, El.
 
  
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