R. ama la vita, l’ha sempre amata, ama il modo in cui i giorni si compongono, dettaglio dopo dettaglio, di tanti piccoli tasselli di quotidianità; la colazione appena alzato, il brivido a contatto col tessuto freddo dei vestiti quando li indossa nelle mattine invernali, il vicoletto dove i bambini giocano a pallone nel pomeriggio, l’odore del pane appena sfornato dalla finestra dell’edificio alla fine della strada, i cassonetti all’angolo dove qualcuno si tuffa di solito in cerca del pranzo. Non necessariamente dettagli piacevoli, in effetti, ma qualsiasi cosa accada sono lì, pronti sempre a ricordargli che la terra gira ancora nello stesso verso.
Ma la terra gira ancora nello stesso verso? R. se lo domanda di tanto in tanto, in momenti come questo, in cui la colazione è ancora lì sul tavolino di legno scuro a cui siede da solo da un po’, le voci del vicolo assomigliano a gemiti e gorgoglii di tossicodipendenti che abitualmente tengono compagnia alla strada, la finestra giù in fondo è sbarrata ed il pane ammuffito, se ancora ce n’è.
In fin dei conti è ancora tutto nello stesso posto, la mattina non viene dopo la sera; eppure R. è ormai posseduto, posseduto dalla sensazione che il mondo in cui vive sia un altro, che nel passare degli anni, una notte, qualcuno l’abbia prelevato dal suo letto per infilarlo in quello di qualcun altro, chissà dove, chissà perché; ma quale sia stata quella notte sciagurata R. proprio non lo sa, perché non se n’è accorto, la colazione era sempre lì su quello stesso tavolo e questo era bastato a fargli credere che anche il resto stesse ancora là dov’era prima.
Ed ora R. vive la vita di un altro e respira un’aria che non è la sua aria e chissà chi ci mangiava prima di lui a quel dannato tavolino che tanto amava a vent’anni, quando di sedie ne usavano due. Ad ogni natale dopo quella notte maledetta in cui gli hanno rubato il mondo R. chiede al vento di essere riportato nel suo letto, o di non svegliarsi più, e poiché è ancora lì anno dopo anno ne muore un po’ di più.