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Autore: purepura    01/04/2013    0 recensioni
Ma io sono capovolta, con la testa e con il cuore.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’angelo storto
Macchia

 
   Sei di fianco a me, alla fresca brezza estiva, profumata di fragole e miele, e poi sei in piedi, illuminata, e d’improvviso sei sopra di me – solo gambe e braccia e labbra – e sento sconnessi i tuoi bisbigli.
   La tua mano è sul mio braccio, scende e sfrega, graffia; le tue dita sono sul mio ventre, sulla cicatrice regolare e non ancora sbiadita.
   I gemiti, quando chiudo gli occhi, si mischiano alle tue domande. Ti interessi alla salute del bambino «Possibile che non abbia ancora un nome? Ha già sette mesi!» ma poi lo sguardo vaga, smetti di ascoltarmi. Non mi accusi mai di esserne innamorata; sai che è un’accusa fondata. Sai che sono condannata.
   Mi riempi di baci in una stanza d’albergo luminosa e ariosa. Mi trascini verso il basso – la tua bocca fra le mie gambe, le tue mani sulle mie cosce, l’arrangiare di un essere che muore – insieme alla mia coscienza.
  Acconci i miei capelli riempiendoli di rose blu. La mia schiena sul tuo petto, la notte che lenta ci divora, l’attesa che si fa premura, ancora non mi lasci andare. Il telefono ha suonato mille volte. Me lo prendi dalle mani e lo lanci sempre più distante.
   «Devo tornare», sussurro. «Mio figlio».
   «È con suo padre», dici. «Taci».
 
   Mi friziono i capelli davanti allo specchio appannato.
   La porta è chiusa ma lui la apre, con il bambino fra le braccia. Ed è la prima volta, che mostra di accorgersene. «Sei tornata molto tardi».
   «O molto presto, secondo come vuoi vederla».
  «La prossima volta, informami almeno dell’orario del ritorno. Avevo bisogno di scappare al lavoro e tu non c’eri. Ho dovuto affidare il bambino alla Signora Healthy». Sa, ma non mi accuserà.
  «Dovremmo trovargli un nome», rifletto, continuando ad asciugare i cappelli e la condensa sullo specchio. «Non si è mai visto un bambino che resta anonimo per così tanto».
  Il figlio che non avrei mai immaginato sarebbe apparso – paradisiaco, il figlio che abbiamo battezzato Matthew davanti a un caminetto acceso, ti guarda quando entri dalla porta sul retro. Oggi sei – lentamente più guardinga entri e ti sistemi sul divano. Matthew ti sorride.
  Il sole plana a illuminare quel salotto che sta per diventare scenario di adulterio. Nella buona e nella cattiva sorte.
 
   Sorte maledetta da milioni di baci. Le sue mani vagano, sanno dove andare, ma io non so come reagire. Non ci sei tu, con me. Il suo corpo caldo che si muove mi è sempre stato cauto, e – l’altro figlio di Leo che adesso richiede attenzione, scalcia – si ferma per riprendere fiato, si scosta e si rilassa, respirando.
   Due figli e due amanti. Due angeli e due demoni.
   «Mi hanno offerto un lavoro a Philadelphia».
   Forse, appagato dall’orgasmo, è abbastanza di buon umore da infischiarsi delle conseguenze per le sue scelte.
   Mi volto a guardarlo. Nel buio della stanza, noto solo in quel momento la sua cicatrice sul braccio sinistro. Ricordo ancora quando mi raccontò quell’episodio. Non ricordo il dove, però.
   «Ho accettato. Prenderò con me i bambini».
   Un bambino per Leo.
   Matthew.
   Amore mio.
   «A quando la partenza?»
   «Sei mesi, otto al massimo».
   «Questo bambino sarà ancora troppo piccolo».
   «Per fare cosa? Per viaggiare?»
   «Per stare lontano da me».
   Ora guardo il soffitto.
   Amo loro, più di te.
   Non posso vivere senza di te, ma senza di loro non posso esistere, o continuare a respirare, o morire.
   Incubo.
 
   Le valigie sono pronte, minacciose, nell’ingresso. I ponti sono crollati nell’istante in cui, tramortiti, i chiodi e gli infissi hanno cigolato, minacciando.
   Sdraiata su di un letto che non trattiene il caldo delle coperte, intravedo i suoi preparativi.
   Ha vinto. La scatola stava esplodendo, rovesciandosi. Lui ha vinto, alla fine. La scatola si è rovesciata. E io insieme a lei. Troppo poco sangue e troppa poca voglia.
  Mere, Mere Slew*, che piange nella cesta, mi riporta alla realtà. Dovrei alzarmi per cullarla, ma non posso toccarla. Matthew gironzola per la stanza, raccogliendo giocattoli per buttarli a terra.
   Matthew.
   Mere Slew.
   Valigie.
 
  «Non puoi dire sul serio!»
  Hai smesso di toccarmi. Avrei voluto che continuassi, ma ti ho sussurrato che sarebbe stata l’ultima volta e tu hai smesso di toccarmi. Non avrebbe potuto mai esserci un’ultima volta se non ti fossi decisa a continuare.
  «Potrei perderli», ho mormorato, la voce smorzata, ancora febbrile.
  «E quindi hai deciso di perdere sicuramente me».
  «Potrebbero usare questa storia contro di me».
  «Non puoi cancellarla. C’è comunque stata».
  «Sì, lo so. Posso però tentare di negare».
  «Lo sa lui e lo sai tu. Negare?»
  «Tentare», ho sussurrato.
  Di starti lontano, di non amarti, di non amarmi, di non vedere, di non volere, di stare ferma.
  Di essere una buona madre.
 
   Da sola nella stanza insieme al sole.
   Senza di loro non potrei morire.
   Senza di te non potrei vivere.
 
 
______________________


[*Vengono entrambi dall’inglese. Mere sta per stagno e Slew per lago.
Se ci siete, ancora non ho spiegazioni.
Due capitoli assurdi di una storia senza senso.
Ringrazio perché siete arrivati sino a qui!
Ultimo capitolo in arrivo!]







  
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