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Autore: Hika86    01/04/2013    1 recensioni
Il Giappone è in subbuglio: le guerre si incrociano sul territorio, i potenti si alleano e si tradiscono ogni giorno, l'amico che ti ha sempre difeso, un giorno potrebbe pugnalarti alle spalle, coloro che ti sostengono potrebbero non farlo la vota successiva e d'improvviso chi ami oggi, domani potrebbe essere il nemico...
Ora, in tutto questo casino: io che ci faccio qui?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazunari Ninomiya , Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Passai i successivi tre o quattro giorni in preda ad una forte febbre.
Le coperte mi si appiccicavano addosso per il sudore, ma allo stesso tempo tremavo di freddo e avevo quasi paura a tirar fuori la testa dal letto per guardarmi intorno, cosa che, pure a volerla fare, non avrei potuto, perchè avevo il bioritmo totalmente sballato: dormivo in pieno giorno quando c'era luce sufficiente a vedere ciò che mi circondava.
Il rovescio della medaglia era che stavo sveglio la notte, e il silenzio allora era talmente profondo da angosciarmi più di ogni altra cosa. In quelle ore di buio totale era più come se stessi vivendo un incubo, che la realtà.
L'alba poi non era motivo nè di sollievo, nè di terrore peggiore di quello che avevo avuto prima e che avrei avuto anche dopo: ogni volta che la luce si faceva più intensa mi addormentavo sperando di svegliarmi nel mio letto, ma non succedeva mai.

Una di quelle notti mi svegliai già stanco. Capii subito che quella sensazione significava che stavo meglio: era la stanchezza tipica di quando si riposa troppo, quella che accompagna una malattia.
Pur se al buio, ero solito lanciare qualche occhiata intorno per controllare chi o cosa fosse vicino a me, e mi accorsi che la donna che mi ero sempre ritrovato in camera non c'era. La porta scorrevole infondo alla stanza era aperta e il vento fresco della sera arrivava fino al mio letto smuovendo le lenzuola. Ebbi l'impressione che quella brezza mi stesse invitando ad uscire e mi riscoprii a desiderare di seguirla: dovevano essere quasi tre settimane che non mi alzavo da lì, avevo male al sedere e alla schiena quindi un po' di movimento sarebbe stata una novità gradita.
Lentamente e con molta attenzione, mi alzai a sedere e mi girai di modo da mettermi carponi sul materasso: avrei gattonato fino alla porta trascinandomi la gamba dolorante e in quel modo mi sarei mosso rapidamente anche se azzoppato. Certo, delle stampelle avrebbero fatto comodo, ma che potevo pretendere?
Arrivai all'uscita senza fare troppo rumore e il vento mi schiaffeggiò il viso scompigliandomi i capelli, più lunghi di quanto ricordassi.
Appena oltre la soglia c'era un ballatoio in legno levigato, coperto da una tettoia anch'essa in legno, sostenuta da alcune colonne. Raggiunsi la più vicina e mi ci aggrappai abbracciandola, dato che era il sostegno più simile ad una stampella che potessi avere: il ballatoio infatti non era provvisto di parapetto. Mi trovavo a piano terra che, come in tutte le case tradizionali, si trovava solo a poco più di un metro dal suolo. Mi alzai in piedi facendo leva sulla gamba sana e quando finalmente mi ritrovai in posizione eretta mi sembrò di rinascere nonostante un violento capogiro.
Pur certo che non dovevo essere cresciuto in quelle settimane, mi sentii altissimo dopo tutti quei giorni passati steso a livello del pavimento, e lasciai spaziare il mio sguardo sul panorama oltre il ballatoio, sentendomi come un leone che osserva la savana dall'alto della sua rupe.
La luna piena sconfiggeva l'oscurità che sarebbe altrimenti stata totale non essendovi luce elettrica. Potevo così vedere sagome e ombre di un vasto giardino: alcuni alberi stavano perdendo le foglie e altri cespugli erano già del tutto spogli, un sentiero di chiare pietre levigate portava dalle scale del ballatoio -lontane alcuni metri da me- ad un lontano ponticello che si piegava ad arco su un grande stagno. Potevo vedere la sagoma della luna riflessa nelle sue acque leggermente agitate da quella che doveva essere una piccola cascata. Ne sentivo il rumore ora che ero uscito, ma non doveva essere molto vicina anche perchè non riuscivo a vedere nemmeno la sua schiuma in quel buio. Intorno all'ampio spazio del giardino si alzavano delle mura e oltre di esse c'era una foresta scura che si arrampicava su per la montagna della quale, sopra la mia testa, vedevo la vetta, quindi non doveva essere molto alta.
Davanti all'imponenza della natura e al timore che mi incuteva, tornai a sentirmi piccolo, solo e sfigato: altro che leone nella savana; però non ebbi tempo per demoralizzarmi perchè sentii un sospiro alle mie spalle e girai la testa per tornare a guardare verso la porta della mia stanza.
La tizia che mi aveva assistito in tutti quei giorni era rannicchiata a terra, sulla destra della soglia e io non l'avevo nemmeno notata uscendo.
«Sei Rie, giusto?» domandai per sicurezza. Dopo la sera del pesce a lume di candela non le avevo più rivolto la parola se non per dire che dovevo andare in bagno. Non era colpa sua, ma mi era stata antipatica tutto il tempo perchè essendo la più vicina, era anche il miglior obiettivo su cui scaricare la mia rabbia e la mia frustrazione.
«Giusto, Ninomiya sama» rispose lei annuendo ed alzandosi dal pavimento. «Sei in piedi, significa che stai meglio»
«Dipende dai punti di vista» riuscii solo a rispondere. Fisicamente ero ok, mentalmente non volevo ancora accettare la realtà e ci stavo male.
«Domani allora incontrerai mio padre. Ti va se parliamo un po' noi due prima?» suggerì sedendosi di nuovo a terra, stavolta vicino a me, con le gambe che penzolavano giù dal ballatoio.
Sempre tenendomi alla colonna tornai per terra con molta calma, poi mi sedetti tenendo la gamba sana ciondolante come le sue e quella ammaccata distesa sul legno. Appoggiai la schiena contro la colonna e feci un sospiro profondo: niente scivoloni, niente cadute e niente lamenti da femminuccia. Grandioso!
«Abbiamo pulito i tuoi vestiti. Ti proporrei di rimetterli, ma sono stati rovinati» cominciò la ragazza
«Credo di avervi disturbato abbastanza, non dovete anche vestirmi. E poi penso che almeno domani mi darebbe sicurezza rimettere le mie cose».
Non sapevo come l'avrebbe presa il signor Morikawa se mi fossi presentato davanti a lui in jeans e maglietta nera con una luna contro cui spiccava la sagoma di E.T. sulla bicicletta volante, ma al diavolo: lui manco sapeva chi fosse E.T.!
«Hai voglia di parlare stasera? Domani dovrai comunque farlo: a mio padre devi delle risposte» mi spiegò in tono conciliante, ma era chiaro che avrei dovuto spiegare qualcosa il giorno dopo, volente o nolente.
«E a te?» azzardai a chiedere
«A me non devi niente» spiegò scuotendo il capo
«Ti devo la vita, forse» pronunciai quelle parole con fare pensoso. Non avrei mai creduto che nella mia vita avrei pronunciato simili parole. Nella realtà perlomeno, in un film ci poteva stare.
«Ma non l'ho fatto per avere in cambio qualcosa» specificò
«Quindi tuoi padre sì?» ragionai
«Gli sei debitore» ribattè come se fosse stato un dogma a cui non doveva seguire alcuna spiegazione
«Ok, senti, sono confuso, quindi non so bene da dove cominciare»
«Comincia col dirmi chi sei» propose fissando lo sguardo sul giardino di casa sua
«Bene, allora, sono Ninomiya Kazunari» cominciai, convinto che tanto non avrebbe capito nulla di quel che le avrei detto. «Vengo da Tōkyō. Il mio lavoro è fare l'idol: faccio parte di un gruppo di cinque persone. Noi cantiamo, recitiamo, facciamo programmi televisivi per far ridere le persone e programmi radiofonici per passare la musica nostra e di altri artisti. A volte facciamo i modelli, ci ingaggiano per delle pubblicità e ci è capitato di comparire su degli aeroplani con la nostra faccia grande, non so, trenta volte più del normale? Sì, più o meno» spiegai stringendomi nelle spalle.
Lei mi osservò perplessa. Se avessi parlato inglese non avrebbe fatto differenza.
«Ninomiya sama, parli sul serio?» mi chiese facendosi scura in viso
«Beh, nessuno si è messo a ridere» puntualizzai
«Quindi è vero» fece girandosi completamente verso di me e raccogliendo le gambe, incrociandole sul legno del pavimento. «Tu non sei di questo mondo»
«In parte sì e in parte no. Non è così facile» balbettai confuso. «Io sono giapponese e sono un essere umano. Solo che non appartengo a questo Giappone» tentai di spiegare
«E a quale allora?»
«Sono abbastanza sicuro di venire dal futuro».
Non si ha idea di quanto ci si possa sentire idioti a dire una cosa del genere finchè non lo si prova e, dato che non sono tanti quelli che fanno viaggi nel tempo durante i weekend liberi, nessuno realizzerà mai una cosa simile: tutti continueranno a pensare che sia una delle battute più cool da dire, io che invece la dissi mi sentii un imbecille, nonostante fosse la verità.
«Penso che sia successo qualcosa che mi ha fatto viaggiare indietro nel tempo. Di cinquecento anni, credo» conclusi per poi intrecciare tra loro le dita delle mani, posate in grembo. Appoggiai la testa alla colonna dietro di me. Era una realtà faticosa, ma in quei giorni mi ero reso conto che fuggire e nascondermi non era servito a niente, se non a stancarmi di più.
«Come lo sai?» mi chiese pacata
«Come lo so? Un attimo, non mi dirai che te la sei bevuta così? Che mi credi subito?» esclamai spalancando gli occhi
«Non alzare la voce» mi rimproverò mettendosi un dito davanti alle labbra. «Ti credo, sì. E' un'ipotesi più plausibile di quella dello spirito, no?» non c'era niente di plausibile in quella situazione, ma annuii: sì, per assurdo era più credibile che un misterioso Doc mi avesse sbattuto in una Delorian invisibile, piuttosto che pensare che fossi un essere dotato di strani poteri.
«Quanto hai capito di ciò che ho detto prima?» le chiesi
«Quasi niente» rispose lei scuotendo il capo
«Ecco come lo so. Non sapevi cos'era un telefono e nessuno di voi conosce gli ospedali. Inoltre non conoscete Tōkyō e se ti parlo di idol, programmi televisivi, radio, pubblicità e aerei è come se parlassi arabo»
«Che lingua sarebbe?» chiese confusa.
La fissai incredulo, ma poi mi venne in mente che i giapponesi dell'epoca non avevano grandi conoscenze geografiche all'infuori del loro paese, della Cina e forse della Corea. «E' una lingua parlata in un paese lontano» spiegai con pazienza
«Così io non so niente del tuo Giappone. Ma tu cosa sai del mio?» fece con una vena di ostilità. «Mi hai riempita di domande qualche sera fa, quindi nemmeno tu sai granchè»
«Dovevo capire in quale Giappone fossi, no?» risposi piccato. «E comunque ne so a valanghe di questo... questo tempo qui, questo Giappone dove vivi tu» dissi indicando intorno a lei. «Io l'ho studiato sui libri. Lo so cosa sta succedendo: è l'epoca Sengoku, i sottoposti dello shōgun si stanno sganciando dal suo controllo perchè la sua presa politica è debole e chi prima, chi dopo, tutti alla fine cominceranno a rivendicare come proprio il territorio che prima controllavano in sua vece. Ognuno vorrà sempre più terreno e comincerà a lottare con i vicini. E' un periodo di guerre continue, almeno finchè...» avrei voluto parlarle di Oda Nobunaga e della sua missione riunificatrice del paese, ma mi bloccai. Nei fumetti succede sempre un gran casino se si svelano i dettagli del futuro alla gente del passato.
«Finchè?» insistette lei
«Finchè qualcuno di più forte non prevarrà su tutti» conclusi impacciato. Avevo apposta usato dei paroloni nel mio discorso per impressionarla e convincerla: la verità era che non sapevo molto dei dettagli di quell'epoca, ma dovevo pur convincerla di aver ragione io a dire che venivo dal futuro.
«Va bene, ti credo» annuì ed io non riuscii a trattenere un sorriso di vittoria che forse l'oscurità le nascose perchè non sembrò notarlo. «Anche perchè so che la magia esiste, quindi è possibile che sia accaduta una cosa simile. Ma quel che non capisco è come»
«Ne so quanto te. Non sapevo che sarei finito qui perchè non ho fatto niente di» mi bloccai spalancando gli occhi. Raddrizzai la schiena staccandomi dalla colonna. «La magia esiste?» domandai balbettando
«Mi hai spaventato» sospirò la ragazza che mi aveva fissato esterrefatta. Forse aveva creduto che mi fossi ricordato qualcosa.
«Che diavolo, va bene tutto, ma se ora spuntano fuori maghi e bestie strane mi toccherà ritrattare le mie convinzioni: non vengo dal futuro, sono finito in un video gioco!» esclamai shockato
«La vuoi smettere di urlare?» fece piegandosi verso di me e mettendomi le mani sulla bocca. «Nel mio Giappone la magia c'è, peccato non possa farti stare zitto grazie ad essa» minacciò socchiudendo gli occhi.
Deglutii e mi segnai mentalmente di parlare piano, quello sguardo non mi piaceva.
«Che magia è?» chiesi piano, quando mi lasciò libero
«Porta male parlarne. Cambiamo discorso» mi rispose girando lo sguardo verso il giardino. Sembrava avessi toccato un tasto dolente.
«Tu ce l'hai?» domandai ancora
«Vuoi smetterla?» fece infastidita, alzandosi dal pavimento. «Ne parli come se fosse una cosa bella, ma non lo è. Non qui» specificò lapidaria.
Si sistemò il kimono che indossava. «Vai a riposare, Ninomiya sama. Domani ti aspetta un lungo colloquio» sembrò ordinarmi. «E se non prendi sonno comincia a pensare a cosa dirai. Io non farò parola a nessuno di ciò che abbiamo scoperto stasera: dire la verità o fingere, dirla tutta o modificarla è una tua scelta; farò finta di non sapere nulla» e fece per andarsene
«Perchè?» chiesi stranito.
Quella era la casa della sua famiglia, loro mi stavano ospitando lì, quindi perchè non rivelare ai suoi stessi parenti chi stavano tenendo nelle loro stanze? O magari era un test per vedere se avessi detto tutto anche dandomi la possibilità di mentire?
Quella donna, Rie, se ne andrò senza rispondere.
Non rimasi a lungo lì fuori da solo. Dopo un po' mi resi conto che faceva freddo e tornai in camera. Chiusi la porta, sì, perchè quel mondo là fuori era ancora totalmente sconosciuto e continuava a spaventarmi, ma dormii profondamente e senza troppa angoscia.

Il mattino dopo venni svegliato alle cinque e Rie non era lì.
Dalla porta laterale entrò un domestico che mi lasciò i vestiti vicino al futon. «Ninomiya sama, vi attendo qui fuori. Quando sarete pronto chiamatemi e verrò ad aiutarvi ad alzarvi se ne avrete bisogno» si inchinò fino a toccare il pavimento con la punta del naso ed uscì dalla porta che quella notte avevo trovata aperta.
Nel fissare il pannello in carta di riso dietro il quale era scomparso, mi resi conto per la prima volta di un risvolto della situazione a cui non avevo pensato. Rie con me aveva parlato in maniera molto sbrigativa fin dal primo momento, data l'emergenza in cui mi ero trovato allora, e così aveva continuato a fare anche i giorni successivi, quindi non avevo pensato che il linguaggio potesse essere un problema. In quel Giappone feudale però la gerarchia era tutto e alcuni atti di deferenza che io usavo nel mio tempo erano gesti di pura formalità il cui unico significato era il voler essere gentili. A quel tempo invece non erano formalità: usare un certo linguaggio con una persona o con un'altra poteva anche significare offenderla e oltraggiarla al punto da rischiare la vita. La mia idea del Giappone di quell'epoca era quella di una società in guerra, basata sulla forza, sui legami, sull'onore e sulla lealtà, quindi davanti al padrone di casa non avrei potuto esordire con un "Oh, salve", così come non avrei potuto usarlo neanche con un servitore: la gerarchia era rigida, ognuno aveva il suo posto e andava trattato in base a quello. Il problema quindi era capire come rivolgermi alle persone davanti a me e tirar fuori registri linguistici che io non conoscevo o che non ero molto abituato ad usare. Ma poi: che gradino gerarchico occupavano i ventenni venuti dal futuro?
Senza trovare risposta, indossai la maglietta, i boxer e i jeans. Mi rimisi anche l'orologio al polso. Il fatto che funzionasse mi stupì, non perchè nella caduta avesse preso un colpo sufficiente da fermarlo, ma perchè qualcosa nella testa mi aveva fatto credere le lancette del ventunesimo secolo non avrebbero girato avendo io viaggiato indietro nel tempo di 500 anni.
I pantaloni non erano messi bene e mi pianse il cuore vederli rotti così. Quindi decisi di strapparli del tutto e di accorciarli.
Bermuda ed E.T.: chi non si vestiva così all'epoca?
Per alzarmi usai il bastone che mi era stato portato, ma la gamba stava decisamente meglio. Deciso a non chiamare per farmi aiutare, mi aggrappai al legno e feci forza sulle braccia per issarmi da solo. Lentamente e a fatica mi ritrovai in piedi, anche se malfermo.
«Che bravo, Ninomiya sama» farfugliai tra me, ansimando per tutta quell'improvvisa attività fisica. Ridacchiai perchè quell'onorifico era buffo detto con la deferenza del servitore: erano proprio altri tempi.
«Permesso» sentii dire nel momento in cui provai a fare un passo. Nel girarmi persi l'equilibrio e sarei rovinato a terra facendo un gran baccano se Rie non mi avesse sorretto.
«C'è mancato poco, grazie» mormorai appoggiandomi al bastone
«Stai attento» mi consigliò lasciando andare la presa sulle mie braccia
«Come ti sei conciata?» domandai squadrandola. Non indossava un kimono, ma una tenuta da viaggio scura e abbastanza logora. Si era anche raccolta i capelli in una coda.
«Sto partendo» mi rispose con un sorriso. «Quando ci siamo incontrati ero in missione, ma siccome ho insistito perchè ti aiutassimo, mio fratello mi ha costretta a rimanere prendendomi la responsabilità del nostro ospite».
La fissai incredulo. Avevo pensato a lei come ad una ragazza curiosa e insolente, inoltre mi aveva infastidito il suo continuo domandare e il fatto che non capisse nemmeno la metà delle parole che usavo. Eppure, a parte lei, nessuno della famiglia che mi ospitava si era preoccupato per me e non ricordavo di essermi mai svegliato senza averla in camera. Certo, il signor Morikawa mi aveva curato, ma lo ricordavo ben poco perchè aveva semplicemente fatto il suo lavoro: anche se con molta gentilezza, si era solamente assicurato che mi potessi rimettere e non mi aveva mai rivolto la parola.
Dalla spiegazione che Rie mi rivolse in quel momento capii che si era resa responsabile di una mia eventuale fuga, di danni che avrei potuto causare o di tradimenti, se mi fossi rivelato una spia. Quindi le dovevo molto più che la vita, ma non me n'ero reso conto.
Pensai di essere stato scortese e mi misi a pensare a qualcosa da dirle, ma non me ne lasciò il tempo.
«Devi essere arrivato qui con una magia» cominciò a dire tornando a farsi scura in viso. «Ho molte missioni da compiere dopo queste settimane di inattività, ma farò qualche ricerca: chiederò a chi ne sa qualcosa, si dice che al palazzo dei Tokudaiji ci sia un uomo che sa usarla bene quindi mi informerò, cercherò di indagare e se scoprirò qualcosa che può tornarti utile te lo farò sapere» mi spiegò
«Tornarmi utile?» chiesi confuso
«Vorrai capire come tornare a Tōkyō, no?» domandò con un sorriso timido
«Ti ringrazio, ma non è detto che io rimanga in questa casa» le feci notare divertito, mentre facevo i primi passi verso la porta, dandole le spalle. Ma non c'era niente da ridere: io che venivo dal futuro avevo solo un'incognita grossa come una casa davanti a me.
«Se al mio ritorno sarai ancora qui mi racconterai qualcosa del tuo mondo?» chiese speranzosa
«Se avrai notizie per me, potrei farci un pensierino» concessi stringendomi nelle spalle con un sorriso. Ero arrivato alla porta senza eccessive difficoltà, quindi ero piuttosto soddisfatto di me stesso.
«E' una promessa» la sentii concludere.
Per un momento mi sentii in colpa: le dovevo molto, mi stava offrendo altro aiuto e io la ricambiavo con parole tanto scontrose. Eppure era la mia unica alleata in un mondo che non era il mio! Maledissi la mia difficoltà nell'esprimere sinceramente quel che provavo e, appoggiandomi alla trama in legno della porta, feci per girarmi, ma quando guardai alle mie spalle Rie era già andata via. Forse si era offesa o forse doveva partire in fretta.
«Ninomiya sama, siete pronto?» domandò il domestico quando uscii dalla camera
«Sì, possiamo andare» dissi annuendo col capo.
Ormai Rie era partita ed io ero solo. La mia sopravvivenza dipendeva da me soltanto quindi decisi di concentrarmi sul colloquio che stavo per avere con il signor Morikawa: mi aveva curato, mi aveva ospitato e aveva lasciato Rie al mio fianco come un'infermiera o per tenermi d'occhio; anche a lui dovevo molto, ma dovevo far attenzione a come comportarmi perchè se volevo tornare nel mio futuro lontano era bene che mi prendessi cura di quello più immediato.

La villa dei Morikawa era piuttosto grande. Non che mi fossi guardato molto in giro in quei momenti, ero preoccupato da altro, però il tragitto che feci zoppicando dalla stanza fino a dove incontrai il padrone di casa mi sembrò infinito.
Uscito sul ballatoio fuori dalla porta della camera, voltai a sinistra e lo percorremmo per tutta la larghezza della casa. Svoltammo a sinistra, continuando a seguirlo fino ad un paio di gradini in legno che davano l'occasione di scendere da quel camminamento che entro pochi metri comunque si sarebbe interrotto. Fare quella breve scaletta non fu semplice perchè più usavo la gamba, più tornava a farmi male. Alla fine toccai terra con un sospiro di sollievo e il domestico, che mi aveva atteso un paio di passi più avanti, riprese a farmi strada.
Ancora pochi metri e finimmo di percorrere un intero lato della struttura. Quando svoltammo di nuovo a sinistra mi resi conto che quello davanti a me era lo spiazzo di terra chiara dove ero stato portato il primo giorno. Vidi il grande cancello in legno e la porticina laterale più piccola. Anche quel giorno c'erano uomini con le spade che si allenavano. Indossavano kimono scuri comodi per il combattimento ed erano tutti ammassati in un punto dello spiazzo, concentrati su qualcosa. Urlavano due nomi -"Toshinori sama" e "Nagatoshi sama"- e capii che stavano incitando due persone quando il loro cerchio si ruppe improvvisamente: alcuni si fecero indietro di scatto, altri corsero via per fare spazio alla coppia di combattenti che si stava muovendo oltre i confini creati dal cerchio degli uomini.
Un ragazzo magro e sottile, ma molto rapido, aveva cominciato una feroce offensiva nei confronti del suo opponente, un uomo più alto di lui e dalla massa muscolare molto più sviluppata. Lo potevo constatare perchè si era tolto la parte superiore del kimono e combatteva a torso nudo, sudato come lo sono io durante un concerto al Kokuritsu! Questi subiva l'attacco indietreggiando continuamente, ma si difendeva bene, parando ogni tentativo dell'altro di trovare uno spiraglio per affondare. Gli uomini intorno incitavano i colpi continui urlando: «Nagatoshi! Nagatoshi sama! Nagatoshi sama forza!».
Ad un tratto, come se fino a quel momento avesse subito l'offensiva solo perchè l'aveva reso possibile, il più grande sembrò stufarsi e alzò la mano colpendo con l'elsa il gomito dell'avversario. Colto di sorpresa, il ragazzo magrolino trattenne a stento un grido di dolore e la mano perse la presa sulla spada, dopodichè l'avversario gli diede una spallata che lo fece finire a terra. Quando aprì gli occhi, dopo aver battuto la schiena, si ritrovò la punta della spada in legno davanti al naso e a quel punto la folla inneggiò al vincitore: «Toshinori sama! Toshinori sama è il migliore!».
«Ninomiya sama» mi sentii chiamare. Non mi ero accorto di essermi fermato ad osservare con meraviglia il combattimento e stavo così facendo aspettare il padrone di casa.
Il momento prima di rimettermi a camminare vidi semplicemente che il vinto si rialzava da terra, snobbando la mano che il vincitore gli aveva sportivamente offerto. A me una mano in quel momento non avrebbe fatto schifo, ma era anche vero che per dignità non l'avrei accettata.
Quella facciata della casa che dava sull'ingresso aveva due porte d'entrata ai due estremi, mentre al centro c'era una veranda coperta, molto simile nel design e nel colore del legno al camminamento che avevo percorso, ma larga più del doppio. Era come una stanza più lunga che ampia con uno dei lati totalmente aperto verso lo spiazzo. Delle altre scalettine di legno portavano dal terreno al pavimento rialzato.
Come ogni casa tradizionale, tutta la struttura si doveva trovare ad almeno mezzo metro da terra, ma in quel momento avrei voluto una casa moderna con ascensore, o al limite un montascale.
Seduto al centro della sala, ma vicino al bordo per vedere lo spiazzo, era seduto un signore di mezza età che ricordavo essere il padrone di casa. Leggeva un rotolo di pergamena e un messaggero attendeva, inginocchiato, che questi finisse.
«Ecco il nostro ospite» disse alzando lo sguardo dallo scritto e chinando il capo verso di me. «Prego, sali» mi disse accennando alle scalette con un gesto della mano.
Come dire "prego, mangia la tua fetta di torta" o "prego, c'è un bagno caldo che ti aspetta"! Ero stufo di salire e scendere, e di camminare anche, viste le mie condizioni. Ma non potevo darlo a vedere quindi afferrai bene il mio bastone, mi armai di pazienza e feci quell'infernale paio di gradini.
Nel frattempo l'uomo finì la sua lettura. «Fate accomodare quest'uomo. Ha viaggiato molto per portarmi questo messaggio di mio figlio» ordinò con garbo verso il domestico che mi aveva accompagnato. «Riposate qui e questo pomeriggio vi farò avere la mia risposta e un cavallo fresco» aggiunse verso il messaggero
«Grazie infinite, Morikawa sama» rispose questi inchinandosi fino a toccare il tatami con la punta del naso.
Io intanto ero arrivato in cima a quei pochi gradini e lì mi attendeva un'ulteriore prova, ma stavolta non avrei ceduto: io inginocchiato non potevo starci, mi ero salvato l'articolazione della gamba sinistra per miracolo, se volevano la mia rotula per giocarci a golf avrebbero dovuto dirlo prima di curarmi.
Il messo si alzò e se ne andò accompagnato dal domestico, così io rimasi solo col padrone di casa (e una trentina di guerrieri che si allenavano davanti a noi). Per prima cosa pensai bene di inchinarmi. «Mi... dunque, mi scuserete, ma non credo di poter stare in ginocchio» cercai di dire, parlando lentamente e calibrando bene ogni parola
«No, certo che no. Ho fatto preparare quei cuscini apposta» rispose Morikawa allungandosi per avvicinarli. «Siedi come preferisci e puoi usarli per distendere la gamba. Veramente avrei preferito sederci più comodi, ma mio figlio insiste che devo comportarmi come esige l'etichetta» spiegò con un sorriso benevolo
«Grazie infinite» dissi per poi cominciare a trafficare con i cuscini e il bastone. Ormai stavo diventando pratico e non ci misi troppo ad accomodarmi in terra senza cadere di sedere. Piegai la gamba sana verso l'interno, come se avessi dovuto incrociarla, e la sinistra la lasciai distesa sui cuscini: nervi, tendini e legamenti ringraziarono per il sollievo.
«Devi scusarmi se ti ho costretto a venire qui non appena ho saputo che potevi alzarti, non sono solito trattare così i miei pazienti, ma Toshinori non sarà convinto finchè non saprà chi teniamo in casa»
«Toshinori?» ripetei soprappensiero
«Il mio primogenito, quello che si sta allenando laggiù» me lo indicò e in quel momento ricordai che era uno dei due combattenti che avevo visto prima: per l'esattezza quello grande, grosso e forzuto.
L'armadio a due ante non mi voleva in casa sua, com'ero fortunato!
«Allora, Ninomiya sama. Posso sapere adesso da dove vieni e come mai sei qui?» fece Morikawa con un sospiro, raddrizzando la schiena.
Com'è che nei quiz più importanti non c'è mai la possibilità di una domanda di riserva?


Nel capitolo ho deciso di usare il voi. Il giapponese di allora credo prevedesse parecchie formule di cortesia che io non conosco e che ovviamente non hanno alcun equivalente nella nostra lingua. Mi limiterò quindi a giocare sull'uso del voi -per quando si deve portare rispetto- e del tu -quando si parla tra pari o non c'è bisogno di parlare in maniera particolarmente rispettosa.

Vorrei poter ringraziare qualcuno ma... sta ff sta piacendo solo a me accidenti XD


Nel prossimo capitolo
Avevo due possibilità di risposta. Oltre alla fuga intendo, ma non era plausibile: io zoppicavo e tra me e la porta d’uscita, unica breccia che io avessi visto nelle alte mura bianche che circondavano la casa, c’erano una trentina di uomini armati di spada da allenamento, abituati al combattimento e la maggior parte di loro doveva essere pluriomicida dato il periodo.

«Lo hai sentito, Toshinori?» chiese Morikawa guardando alle mie spalle.
L’uomo muscoloso che avevo visto battersi poco prima si era rimesso la parte superiore del kimono e rimaneva in piedi e in silenzioso ascolto con le braccia incrociate. Lui non aveva mai desiderato avermi in casa sua.
«Gli credi?» domandò ancora il padre.

Sgranai gli occhi: se c’era una cosa a cui non avevo minimamente pensato era cosa poteva essere successo nel mio tempo se io ero scomparso! Ero scomparso da settimane! Mi stavano ancora cercando?

  
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