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Autore: Heartakiri    02/04/2013    1 recensioni
"Detto con sincerità, non voleva parlare di Asuma. Nessuno voleva parlare di Asuma. Ed era stupido: era stato un grande uomo. Ma nessuno voleva parlarne."
Riveduta e corretta.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio, Shikamaru Nara
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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Saaaaalve a tutti! Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei fare delle premesse:

- Asuka.
Nonostante sia quasi sicuro che il bambino di Asuma e Kurenai sia maschio, per far quadrare alcune cose ho deciso di renderlo femmina. Perchè?
1) Asuka è un nome femminile, ed è perfetto per questo personaggio: il nome somiglia a quello di Asuma e significa "profumo del domani". Cosa c'è di più perfetto? Trovo che il bambino (/bambina) rappresenti per Shikamaru un motivo per andare avanti, nel manga come nell'anime.
2) "Tra i due litiganti il terzo gode". Che voglio dire? Voglio dire che impossibilitata nello scegliere tra Ino e Temari come compagna perfetta, scelgo Asuka. Se teniamo conto del fatto che alla morte di Asuma Shikamaru avesse 16 anni (ebbene sì, è così.), più o meno 17 anni dopo la nascita del bambino ne avrà 33. Non poi così tanta differenza, no? NO? Comunque, in questa One-shot non c'è nessun tipo di relazione che scavalchi quella  maestro-allieva. (non ancora....)
- Il titolo.
Il titolo è preso dalla frase, la promessa, che Shikamaru fa a Kurenai nel capitolo 342 del manga tradotto in inglese.
- Qualche precisazione sulla personalità del nuovo personaggio.
Immagino Asuka come una ragazzina logorroica e iperattiva, ma assolutamente rispettosa nei confronti di tutti coloro superiori a lei, che sia di grado o in scala sociale. Ma, per quanto possa provare rispetto per qualcuno, se qualcosa non le va giù, non le va giù. Una specie di Naruto, solo che non ripete "Riporterò a casa Sasuke" o "Diventerò Hogake" tipo.. sempre?

Questo è quanto. Buona lettura, spero vi piaccia ^^




 -When you'll have that baby, I'll have to protect it.-


Ino aveva visto troppe volte la giovane Asuka ferma per ore davanti al suo negozio.

L’aveva sentita troppe volte dire «Aspetto altri cinque minuti, Ino-san.»

Così un pomeriggio le si era semplicemente avvicinata, dicendole che era arrivato il momento di andare a parlare con il suo maestro.
«Yoshino è sempre felice di avere qualcuno che l’aiuti a rimproverare quel pigrone.» aveva aggiunto, sorridendo.

La genin aveva concordato con la fioraia, in conclusione, nonostante andare a protestare a casa del suo sensei -che tra l’altro viveva con i suoi genitori, uno dei quali rispettabilissimo ex-coordinatore della squadra Jonin del loro villaggio.- non fosse uno dei suoi hobby preferiti.
 
­­***

«Shikaku-sama.» soffiò, tenendo il capo chinato. «Cerco vostro figlio.»

Si costrinse a non guardare in alto, sapendo che se l’avesse fatto i suoi occhi si sarebbero soffermati troppo sulle profonde cicatrici che gli segnavano il volto scialbo, accompagnate dalle rughe che, morbide, gli solcavano gli angoli delle labbra, le guance, la fronte incorniciata dai capelli ormai argentati.
Si soffermò quindi sulle mani, che, nonostante l’età dell’uomo, apparivano ancora forti, capaci di praticare tecniche considerate letali. Niente del suo corpo sembrava dichiarare stanchezza, fragilità o fatica.

«Shikamaru, eh? È lì, disteso sull’erba.»

Dichiarò, indicando un punto impreciso aldilà dell’abitazione.
Si fece dunque da parte, distendendo il braccio verso l’esterno: «Ti accompagno.»

Attraversarono quindi il giardino principale, percorsero l’interno della casa adornato da raffigurazioni e riproduzioni  in miniatura di cervi.
Presso l’engawa* Shikaku si fermò, lasciando avanzare Asuka da sola che, attraversata la soglia, si richiuse lo shoji* alle spalle.

L’uomo era lì, come aveva detto il padre: steso sull’erba con gli occhi chiusi. Tra le dita un mozzicone che non si era sforzato di buttar via.

«Sensei?» sussurrò.
Non ricevendo risposta, si permise di avvicinarsi.
«Sensei?» provò ancora. Silenzio.

Svegliarlo era inappropriato. Si allontanò invece e si sedette sul pavimento di legno massiccio, i gomiti puntati sulle ginocchia ed i palmi a sorreggere le guance.

Provò a perdersi tra le nuvole, cercando di non pensare all’imbarazzo che le cresceva dentro.
Si concesse qualche istante per scrutargli il volto, l’espressione serena che così poche volte le aveva donato.

Non riusciva proprio a spiegarsi perché avesse tanto insistito con sua madre, Kurenai, per allenarla; non si presentava quasi mai agli allenamenti e quando lo faceva sembrava esserci controvoglia.
Era arrivata a sedici anni e non aveva ancora affrontato gli esami per diventare Chuunin.
È troppo pericoloso, rischieresti la vita, sei ancora troppo debole, bla  bla bla.

La verità è che avrebbe voluto rinfacciargli il fatto che era soltanto colpa sua se lei non sapeva mettere due tecniche in croce.

Quel fastidioso sapore amaro che era solito inondarle la bocca quando il suo sensei la screditava iniziò a farsi sentire. Così, presa da un moto di improvviso coraggio ben mescolato a isteria si alzò e a larghe falcate si piantò vicino al corpo statico  dell’uomo.

«Sensei!» quasi urlò. Era tentata di calciargli un fianco, ma si trattenne.
«La smetta di dormire, sensei. Si alzi! Voglio allenarmi!»

***

«La smetta di dormire, sensei. Si alzi! Voglio allenarmi!»
Non era sicuro di ciò che le sue orecchie avessero percepito. Era in una sorta di fase REM: le immagini si susseguivano caotiche nella mente, fastidiosamente accompagnate da una voce acuta che continuava a ripetere “Sensei!”.
Si chiese più volte se aprire le palpebre sarebbe stata la cosa migliore: poteva semplicemente ignorare, ignorare, ignorare…
Prima o poi, chiunque stesse tentando di attirare la sua attenzione, si sarebbe stancato.
Uno.. due.. tre... sette... quindici...ventinove… e silenzio. Finalmente.

Poi un tonfo sordo ed una lieve pressione sulla gamba sinistra.
Era ancora lì. Si costrinse quindi, con tutta la calma possibile, ad aprire un occhio, poi l’altro.
Una figura ancora opaca gli si era seduta accanto. Alzò il busto, facendo peso sui gomiti; riconobbe a stento, sotto quella zazzera ebano disordinata, il viso della sua giovane allieva.

«Asuka?» farfugliò.

L’altra si girò appena, imbronciata. «Finalmente. Ha il sonno davvero pesante, sensei. Quasi pensavo fosse morto.» rispose, tombale.

Poi la vide poggiare una mano sull’erba ed alzarsi. Così, senza dire altro, stava tornando verso l’engawa, alle loro spalle.
«Dove vai?»
«Me ne torno a casa, sensei.»
Shikamaru si ritrovò ad annuire, ancora così spaesato e assopito che non si sforzò di chiedersi perché e da quanto la kunoichi fosse lì a guardarlo dormire. «Bene, ci vediamo domani all’allenamento.»
«Non credo ci sarò.» gli rispose.
«Va bene, ci vedremo tra due giorni.»
«Non credo ci sarò più, sensei.»

Arrivò come un pugno nello stomaco, di quelli ben assestati. Ma si curò di non mostrarsi dolorante.
«C’è qualche problema?» chiese pacato. Aveva deciso di non girarsi, limitandosi all’osservazione del cielo.

«Il problema è che sento che lei non vuole il ruolo che ha insistito per ottenere. Il problema, sensei, è che sento l’ostilità che prova nei miei confronti e la noia che la mia presenza le provoca. Perciò chiederò una nuova assegnazione, che mi permetta un allenamento vero.» azzardò Asuka.

Shikamaru avvertiva il grande sforzo che l’allieva aveva impiegato per rivolgersi a lui con tanta franchezza.

E la verità era che avrebbe voluto dirle così tante cose.

Avrebbe voluto dirle che non osava guardarla non per superiorità, ma perché fissare i suoi occhi in quelli di lei, così simili a quelli di Asuma, gli apriva una voragine infinita ed affamata, che inghiottiva tutto ciò che la sua anima conservava.
Avrebbe voluto dirle che non voleva allenarla non per pigrizia, ma perché allenarla significava farla diventare un ninja capace di affrontare missioni di un certo livello, che avrebbero anche potuto portarle via la vita. E lui proprio non poteva permetterlo.
Avrebbe voluto dirle che non le parlava non per astio, ma per paura. Paura che si toccasse un argomento troppo doloroso, per entrambi.

Detto con sincerità, non voleva parlare di Asuma. Nessuno voleva parlare di Asuma. Ed era stupido: era stato un grande uomo. Ma nessuno voleva parlarne.
Faceva ancora troppo male.

Ma Asuka non se lo meritava. Lei doveva sapere di suo padre, doveva sapere di che grande eroe era stato.
Doveva sapere di come lui, dopo la sua morte, aveva deciso di dedicare ogni suo sforzo, ogni suo respiro alla protezione di Kurenai e della creatura che aveva in grembo.

Ma perché doveva toccare a lui? Non era pratico di queste cose.
«Ah…» sospirò.

La giovane kunoichi  manteneva le braccia conserte, il viso corrucciato. Aspettava. Un qualsiasi cenno, d’assenso o dissenso. Una spiegazione.
Il chuunin  a questo punto sbuffò. «Asuka-chan…ahn… ti va una partita a shogi*?»

Gli occhi di lei persero un po’ di quell’astio che si ostinava a conservare.
«Voglio parlarti di una persona. Un ninja.»
La giovane allieva mostrò allora più curiosità di quando volesse mostrarne, avvicinandosi all'uomo e prestando attezione.
Shikamaru ponderò tutte le possibili frasi da pronunciare per iniziare un discorso di tale spessore, ma dopo una manciata di minuti fu sicuro che quella più adatta fosse la più sincera. Così iniziò: «Prima di tutto devi sapere che questo ninja… era un pessimo giocatore di shogi.»








*Engawa: è quella sorta di veranda che solitamente si affaccia ad un secondo giardino. Per intederci, quella dove Shikamaru passa un giorno ed una notte in seguito alla morte di Asuma (ç_ç)
*Shoji: è la porta scorrevole per accedere all'engawa.
*Shogi è la parola che indica gli scacchi giapponesi, a cui erano soliti giocare Asuma e Shikamaru.
  
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