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Autore: Nitrogen    03/04/2013    3 recensioni
Non erano dei vampiri o delle creature malvagie giunte dagli inferi che amavano più di qualunque altra cosa straziare quelle carcasse per renderle irriconoscibili, ma erano dei mostri pluriomicida che lottavano in modo poco ortodosso contro i vertici di quella nazione che tutti noi avevamo imparato a odiare.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Griefers.'
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A Margareth e Cillian,
il cui Destino non è mai dalla loro parte.

 



~Grigio pioggia.

 
Non mi era mai dispiaciuto il grigio del cielo nei giorni di pioggia, e nemmeno l’aria che sapeva della stessa poco prima che cessasse il tipico putiferio che causava bagnando tutto quel che le era possibile. Eppure quel giorno io la pioggia l’ho odiata, l’ho maledetta proprio come ultimamente facevo ogni volta che uscivo di casa e finivo col dover aprire l’ombrello per non inzupparmi d’acqua.
La pioggia mi rendeva triste, raccontava la mia storia e scoppiava a piangere con me.
«Vorrei ci fosse il sole.», disse la mia amica sbuffando.
«Anche io.», risposi portandomi sotto l’ombrello che stava aprendo.
In realtà io non avrei mai voluto scambiare un giorno di pioggia con uno di sole: quando è lui a regnare nel cielo c’è sempre troppa gente che mostra a tutti quanto è felice, ci sono sempre troppe persone per strada che s’incontrano per ricordarsi quanto si vogliono bene, che fingono di comprendere chi hanno di fronte. A volte anche io cercavo queste attenzioni quando avevo bisogno di sentire una persona abbastanza vicina a me da poter finalmente dire che tutto sommato qualcuno mi capiva e mi accettava per quello che ero.
La schifosa verità era che al mondo, o almeno fino allora, era esistita una sola persona capace di farmi sentire davvero amata, ma quella persona non era più con me da tempo.
Era sparita nel nulla, era andata via senza dire niente a uno dei pochi esseri viventi che sapeva della sua esistenza su questa Terra. Mi aveva lasciato da sola a continuare quella vita che aveva perso ogni significato, che si ripeteva ciclicamente ogni giorno servendomi tutte le volte piatti che avevo già gustato il giorno precedente.
Quella routine mi disgustava ed io non avevo trovato altro motivo per sopportare quello scempio se non seguire le impronte che lei “persona” aveva lasciato sulla neve pallida prima di tornare nell’unico posto dove si sentiva a casa, nell’ombra di un albero che all’apparenza non sembrava avere nulla di strano o fuori dall’ordinario poiché nessuno aveva badato alla sua presenza data sempre per scontata.
Le avevo osservate, le avevo inseguite per giungere al loro creatore che mi aveva abbandonato in una landa fredda e desolata; ma la tempesta di neve era troppo forte e lui era troppo veloce: le impronte erano sparite ed io ero scoppiata a piangere in preda alla disperazione.
Avevo smesso di cercare quella persona, mi ero convinta che non avevo più bisogno del suo amore per stare bene, che qualcuno poteva darmi le stesse sensazioni o anche più forti non trattandomi come faceva lei, non abbandonandomi per questioni di “sicurezza nazionale” come le chiamava lei.
Non lavorava per la CIA o qualunque altro ente che si occupasse davvero di salvaguardare i cittadini del paese, e non era nemmeno un poliziotto o un carabiniere. Lui portava avanti un’organizzazione sconosciuta al 98% della popolazione mondiale che fremeva dalla voglia di disintegrare la nazione che ci aveva rovinato ventisette anni prima, quando lui ancora non era nemmeno nei pensieri dei suoi genitori.
L’ente di cui era a capo prendeva le persone che trovava scomode o da cui voleva delle informazioni e le torturava, le amputava, le maciullava come meglio sapeva fare e poi le uccideva senza ripensamenti. Avevo osservato inorridita i suoi membri divertirsi mentre spaccavano ossa e spargevano sangue su pareti e pavimenti completamente bianchi, li avevo visti leccare la sostanza che sapeva di ferro sulle loro mani, annusare l’aria che aveva preso il suo odore facendoli andare in estasi.
Non erano dei vampiri o delle creature malvagie giunte dagli inferi che amavano più di qualunque altra cosa straziare quelle carcasse per renderle irriconoscibili, ma erano dei mostri pluriomicida che lottavano in modo poco ortodosso contro i vertici di quella nazione che tutti noi avevamo imparato a odiare.
Alla fine io li avevo capiti e avevo accettato il loro modus operandi perché tutto sommato chiunque mio concittadino avrebbe fatto quel che quotidianamente fanno loro, per un lontano e represso senso di vendetta che tutt’ora persiste seppur flebilmente.
Io avevo amato in modo viscerale uno di quei mostri, l’avevo tenuto al mio fianco per anni e mi sentivo ricambiata, apprezzata, voluta, desiderata. Era stato orribile sopportare la sua perdita, arrendermi a quel destino e smettere di cercarlo ovunque, rassegnarmi come avrebbe fatto chiunque altro al mio posto.
Eppure quel giorno lui era lì, di fronte ai miei occhi, accarezzato dalla pioggia sottile che ormai si era impossessata delle strade da svariate ore. Sfoggiava fiero un sorriso scrutando soddisfatto qualcosa in lontananza, verso il confine tra noi e la nazione che anni prima ci aveva fatto guerra.
Un’esplosione, fumo sull’orizzonte che si levava al cielo del medesimo colore. Il boato era stato così flebile che nessuno uscì di casa terrorizzato e nemmeno i passanti si accorsero di quanto accaduto. Ma lui urlò entusiasta per lo spettacolo che appena poteva essere visibile da dove eravamo, attirando l’attenzione di tutti sul punto che stava osservando. Non era cambiato affatto.
La distanza tra noi era minima, appena qualche metro di marciapiede, ma lui non mi aveva notato perché troppo preso dalla catastrofe che lui e i suoi compagni avevano creato nell’area dei nostri acerrimi rivali. Portò indietro i capelli biondi e fradici d’acqua e si voltò di spalle, camminando verso il centro della città tranquillo, con il suo solito portamento disinvolto che richiamava a sé tutti gli sguardi di passanti ammaliati.
Mormorii indistinti si fecero largo nel silenzio che aveva causato la frenesia del ragazzo. Nessuno credeva ai propri occhi, e nemmeno io.
«Cosa sta succedendo…? Li hanno attaccati?»
«Li abbiamo attaccati.», replicai distaccata, incapace di togliere lo sguardo da lui.
Si allontanava suscitando l’interesse di alcuni presenti che bisbigliavano increduli su quanto accaduto. Non curava le loro attenzioni, non gli era mai importato di consentire a qualcuno di dare un volto all’autore di quelle opere. Aveva attraversato la strada sorridendo educatamente a tutti, come se nulla di troppo strano fosse successo. Dopotutto, per lui era normale.
La mia amica ripeteva il mio nome, cercava di farmi tornare nel suo mondo, ma io ero persa nel mio e non riuscivo a pensare che quella visione fosse davvero lui. Poi svoltò l’angolo, sparì dalla mia vista.
Non di nuovo.
Iniziai a correre sotto la pioggia per raggiungerlo: non volevo perderlo ancora adesso che era apparso come per magia dal nulla, avevo bisogno di spiegazioni, avevo bisogno di lui anche se era un mostro. Il mio mostro, l’unico essere che era riuscito ad amarmi e che io avevo fatto andar via convincendolo che non riuscivo a comprendere le sue idee. Se era sparito l’aveva fatto solo per non farmi del male, solo perché temeva io non potessi essere una persona come tante pur conoscendo uno come lui.
Vedevo la sua pelle quasi trasparente far capolino dalla canotta bianca e i pantaloni neri lacerati da chissà quali armi; i semplici indumenti erano sporchi del suo sangue, ma come sempre lui non aveva il benché minimo graffio. Erano una loro caratteristica la resistenza al freddo e la cicatrizzazione accelerata, due abilità che un tempo potevo vantare di avere anche io.
Si voltò nella mia direzione prima che potessi pronunciare il suo nome, si era accorto della mia corsa disperata verso di lui. Mi fermai di colpo, a un metro da lui. La sua felicità fece il posto a un miscuglio di stupore e paura che raramente avevo avuto l’onore di osservare.
Annaspavo, piangevo, versavo lacrime che erano intuibili solo per i miei occhi rossi e gonfi. Lui sapeva che quelle lacrime erano per lui, sapeva cosa stavo pensando, sapeva che avevo bisogno di lui.
Pronunciavo il suo nome, mi avvicinavo spostando i capelli scuri che mi ostacolavano la vista. Restava fermo, immobile, incapace di prendere una decisione su cosa fare, se scappare o prendermi tra le sue braccia. Ancora, l’avevo chiamato di nuovo. Non pronunciavo il suo nome da tempo, e farlo mi face sentire libera, come se non fossi più legata al peso che trascinavo ogni giorno con me e di cui non ne facevo parola con nessuno.
I suoi occhi si erano socchiusi, aveva portato una mano sulla parte sinistra del petto e la stringeva. Abbassò il capo, lo copriva con i capelli chiari per non mostrare le lacrime che come me stava versando. Stava male, stava soffrendo, non mi aveva dimenticata.
Se avevo odiato la pioggia era solo perché il cielo grigio mi ricordava i suoi occhi.
 


Note dell'autore.
One-shot ispirata a un'altra cosa che sto scrivendo. Dovrebbe teoricamente essere ambientata qualche mese, forse anno dopo, ma a voi non penso importi. Spero sia stata di vostro gradimento.


[Nitrogen]
 
   
 
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