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Autore: talpy    23/10/2007    0 recensioni
Una fitta dolorosa, ignorala, incomincia il divertimento.
Anne Rice, la Regina dei Dannati
brevi episodi basati su questa citazione. Abbastanza senza senso, per puro divertimento.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa:
Innanzitutto vorrei ringraziare chi mi ha recensita, in secondo luogo vorrei avvertire che questo capitolo è diverso dal primo, avverto che non sarà probabilmente apprezzato per contenuti, del tutto soggettivi, personali e decisamente discutibili, sia per il fatto in sé, per la sua etica, sia per il modo, il punto di vista, in cui li narro. Se volete continuare a leggere ne sono ben lieta, ma devo avvertirvi che più che per i contenuti, che come ripeto potrebbero non essere affatto condivisi, va letto come prova di scrittura. Vorrei sottolineare che i sono trattati in questo capitolo sono frutto della mia immaginazione e interpretazione, e che non cerco assolutamente di istigare a ripeterli. Buona lettura.








ULTIMO BARLUME DI INTELLIGENZA UMANA

A cena c’era la costata ai ferri, al sangue, proprio come piace a me. Grande, grossa, nel piatto, la bistecca mi deliziava con il suo profumino invitante. Sopra la pelle colorita l’olio, il pepe, il sale. Accanto, un’altra trista preda, l’insalata, anche lei condita abbondantmente, con quel goccio di aceto balsamico che ti punzecchia la lingua piacevolmente. L’olio e il sangue si mescolavano all’olio e all’aceto nero. Come resistere? Come?
Un coltello affilato punse avidamente la superificie della carne, aiutato dal fedele compagno d’azione: messer Forchetta.
Senza pietà i dyue colpivano e ricoltivano, riportando dopo ogni attacco fulmineo, il bottino tanto agognato dalla madrepatria, la grande e onnipresente Bocca.
Un sorso d’acqua e una forchettata d’insalata, ogni tanto, per rendere più leggera quella carneficina legalizzata.
Finito di mangiare, il tovagliolo sulle ginocchia, segnato dalle ultime impronte di resistenza della giovane bistecca, venne abbandonato barbaramente sul tavolo.
Io, da brava ragazza di casa, sparecchiai, poi, visti i bisogni corporali, il bagno fu la tappa obbligata.
Alzata la tavoletta del wc, però, l’unica cosa che mi impegnai a fare fu svuotare il forziere del suo bottino, senza pietà, da colei che aveva intentato la grande lotta, la signore e regina Bocca. Con un colpo ben assestato e collaudato di reni vomitai. Alzato un attimo il volto, andata al lavandino a sciacquarmi la bocca, notai quelle lacrime di sofferenza estrema, segnale, forse, di quanto il mio gesto fosse contro natura. Guardai il water, che mi chiamava, rassicurante. Allo specchio mi rispondeva solo una figura di persona sofferente e dalla pancia gonfia. Gonfia di cibo.
Ingoiando quelle lacrime amare mi ringinocchiai, vicino alla fonte di salvezza.
Lì, iniziò il divertimento, il sentirsi liberi dal peso. Rimisi insomma ciò che potrei osar chiamare l’istinto di sopravvivenza, unico barlume dell’inteligenza umana.


MIA MADRE

Porte sbattute.
Urla di odio.
Odio.
Odio.
Odio.
Quella parola urlatami contro mi risuona ancora nelle orecchie.
Dura.
Severa.
Come la persona che me l’ha urlata. Mia madre.
E allora?
Pensi di essere la prima che odia la sottoscritta?
Illusa, ci sono io prima.
Io, che non posso fare nulla per distrarmi da me st5essa.
Dio, che male al cuore che ho.
Cuore, poi, ho solo una fitta allo sterno, quella cosa che tutti chiamano tristezza dolorosa.
Sto male.
Mi sento male.
Io, sono così sbagliata. Lo so.
Non è giusto.
Vaffanculo.
Perché solo io devo essere sbagliata a questo mondo?
Perché tutti gli altri devono essere così dannatamente perfetti.
Mentre io, io stupida, io inutile, devo essere per forza la ciambella senza buco?
Mi chiudo in bagno.
Mi piace osservare la faccia stravolta che ho in queste situazioni.
Non mi riconosco quasi.
Non c’è controllo, non c’è premeditazione.
Non c’è alcuna volontà, dietro questa maschera arrossata , queste lacrime brucianti, questa bocca aperta in un lamento muto.
Inudibile.
Odio sentire il rumore del mio pianto, mi fa male quando lo sento.
Mi fa sentire fragile e ferita.
Ferita daqualcuno di cui non mi dovrebbe interessare, visto il modo in cui mi tratta. E così, ogni santissima volta, me ne sto davanti ad un asettico specchio ad intonare cupi e inascoltabili melodie di dolore.
E il mio corpo è pervaso di fitte, sempre.
Solo al culmine del dolore prendo le forbicette da unghie e inizio a tagliarmi i lati del braccio.
Tagliarsi le vene?
Mai.
Che senso ha terminare il dolore in una sola volta, coinvolgendo anche altri, quando te lo puoi gustare in modo solitario pacifico?
E mentre taglio, e inizio ad annusare quel rosso carminio, sorrido.
Sorrido finalmente felice e di nuovo in pace con me stessa.
E con mia madre.





Il prossimo capitolo, quello finale, sarà di argomento ben più felice e di facile digestione. Spero che le vicende di questo capitolo, per quanto estreme, siano state da me rese in modo un po’ più innovativo del solito. in caso contrario mi auguro di non avervi sconvolto o annoiato per nulla.
  
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