Autore:
vul95
Titolo: Illiterate- How to write
a letter
Prompt: //
Epoca: Inghilterra,
XVIII secolo
Parole:
Pairing:
Note: al secondo capitolo *7*//
Alla
mia GemeH, a cui è capitata questa deficiente
patentata e che mi ha aiutata e sostenuta mentre
scrivevo <3
La prima volta che lo vidi, non era altro che un cumulo di stracci
rotti e brutti che incespicava per le strade di Londra
nervoso, calciando il vuoto.
Arrivò da me una mattina di Aprile, una di quelle mattine dove
fa ancora fresco all’ombra, ma al sole già si sente quel caldo fantasma
dell’afa estiva.
Si affacciò alla porta della bottega, e rimase in silenzio fino
a che non mi accorsi di lui.
-Tu scrivi le lettere per chi non sa scrivere.- esordì, in un
inglese traballante.
Annuii incerto, mentre cercavo di distinguere il suo volto sotto
tutto lo sporco che lo ricopriva, e che mi faceva anche un po’ ribrezzo,
invano.
-Scrivimene una.- mi ordinò con voce ferma.
Era il 1710.
E fu così che conobbi Kariya
Masaki.
Illiterate
How to write a letter
-1-
Nacqui nel Derbyshire nel 1691, sotto
il nome di Kurama Norihito,
da genitori Protestanti della media borghesia. All’età di dodici anni mi
trasferii a Londra assieme alla mia famiglia, la cui condizione economica
relativamente tranquilla mi permise di ricevere un’istruzione basilare, di cui
sono ancora grato, che mi fece appassionare alla lettura e alla scrittura.
Il mio amore per le lettere era, ed è, così forte che il mio
primo lavoro non potè che essere in una tipografia. Era il 1708, avevo
diciassette anni e mi sentivo pronto per entrare a far parte a tutti gli
effetti di quella società londinese che tanto mi affascinava.
Nel momenti liberi, quando non lavoravo, o durante le pause in
tipografia, presi l’abitudine di scrivere per conto mio, e con il tempo scoprii
di avere una predilezione particolare per le lettere.
Una lettera è un messaggio intimo, un pezzo di vita che una
persona desidera far conoscere a qualcun altro, uno scritto vero ed autentico
in cui si profondono le proprie emozioni ed i propri sentimenti. Per scrivere
una lettera ci vuole del tempo, e con una lettera si può dedicare questo tempo
anche ad una persona lontana miglia. Con una lettera si rimane in contatto, e
così facilmente.
Basta solo saper scrivere.
Mi resi conto di essere davvero fortunato, a saperlo fare.
Contrariamente alla mia infanzia, durante la quale ero stato circondato in
continuazione, per volere dei miei genitori, da persone letterate o comunque
minimamente istruite, a Londra entravo in contatto con molta gente che non
sapeva nemmeno come si tenesse in mano una penna.
Fu così che decisi di utilizzare la mia fortuna per aiutare gli
altri, e quindi mi misi a disposizione per dare una mano a chiunque non sapesse
scrivere o leggere a mettere per iscritto tutto quello che avevano da dire a
persone lontane da loro.
Non chiedevo denaro (anche se qualche mancia per il disturbo era
sempre grata), e visto che la tassa per le lettere era a carico del
destinatario non dovevo occuparmi di questioni economiche che non avrebbero
fatto altro che confondermi; però ogni tanto, se mi veniva richiesto, ero io a
portare la lettera alla posta al posto del mittente (anche se non capitava
spesso).
E fu proprio grazie a questa mia seconda attività, a cui
dedicavo volentieri molto del mio tempo, che, appunto, incontrai Kariya Masaki.
In molti ormai venivano da me per scrivere le proprie missive,
quindi non mi stupii quando lo vidi arrivare (al di là del suo aspetto
decisamente pietoso, s’intende. Non riuscii a distinguere il colore dei suoi
capelli) e quando richiese il mio aiuto.
-Potresti anche chiedermelo per favore.- lo rimbeccai, storcendo
le labbra in una smorfia. Non mi fece una buona impressione.
-Mi scrivi la lettera?- rispose lui, cominciando ad alzarsi ed
abbassarsi velocemente sulle punte dei piedi, rivolgendomi uno sguardo
irritato. Incrociò le braccia al petto.
Io, stizzito, tornai alle mie occupazioni e lo ignorai. Non
sopporto tuttora che mi si rivolga a questo modo, quindi preferii fare finta di
nulla.
Sentii uno sbuffo –Scrivi la lettera, dai.- persistette –Dicono che
sei bravo. Me la scrivi?- masticò, incespicando nelle parole, avvicinandosi. Mi
scostai e lo guardai di sbieco.
Puzzava, oltretutto.
-Se me lo chiedi per favore.- ripetei, storcendo il naso e
lisciandomi l’abito, cercando di darmi un certo contegno e di ignorare il
complimento.
Di certo doveva avere uno, due, al massimo tre anni in meno di
me. Non riuscivo a capire dove finisse la pelle e dove iniziassero gli abiti
(se ne portava): era lercio dalla testa ai piedi, e mi chiesi da dove diamine
arrivasse.
-Peer favore.- mi fece il
verso, allungando la e di proposito
ed alzando gli occhi al cielo. Tirò su con il naso e mi puntò addosso un paio
di occhi color dell’ambra –Me la scrivi si o no?- berciò.
Fece per avvicinarsi ancora, ed io indietreggiai (davvero, il
suo odore era tremendo) –Va bene, va bene, te la scrivo. Ma solo se dopo vai a
farti un bagno.- gorgogliai disgustato, tappandomi il naso e muovendo una mano
all’aria per mandare via quel puzzo.
Lui parve un pelo offeso, ed alzò un braccio, annusandosi.
Storse le labbra ed annuì in risposta alle mie parole.
Non mi sembrò un tipo molto loquace.
Comunque mi risolvetti a prendere della carta, inchiostro e
penna per accontentare le sue richieste. Mi sistemai allo scrittoio che il mio
capo mi aveva permesso di tenere in tipografia e voltai lo sguardo al ragazzo,
che, forse accortosi della sua condizione, si era allontanato da me di un altro
paio di passi –Allora, cosa devo scrivere?- lo incitai, nonostante non mi
andasse per nulla a genio, intestando intanto la lettera come “Londra, 5 Aprile
-Io non sono bravo a parlare.- mi rispose dopo un paio di
secondi di silenzio –Mi devi aiutare a mettere le parole bene.- premise,
torturandosi le dita ed abbassando il capo. Si morse il labbro, e a quel punto
lasciai da parte la poca simpatia che provavo nei suoi confronti ed annuii. In
fondo voleva solo comunicare con qualcuno lontano da lui, e non ne era capace.
E probabilmente se ne vergognava.
-Allora scrivi. “All’inizio non volevo mandarti una lettera—
-Aspetta, non vuoi inserire una formula di saluto?- lo
interruppi, aggrottando le sopracciglia.
Lui inclinò il capo, confuso –Che è?- mi chiese.
Sospirai –Di solito prima di cominciare la lettera si saluta.
Non so, tipo “Caro Signor…” oppure “Egregio Signor…”- cercai di spiegargli in
modo semplice.
-Devo dire il nome perciò?- parve turbato. Io gli feci cenno di
si e lui scosse la testa –Non voglio che la metti.- dichiarò, e mi sembrò così
deciso che non volli indagare oltre, anche se mi lasciai sfuggire uno sbuffo irritato.
Lui parve non farci caso –“All’inizio non volevo mandarti la
lettera”- riprese, ed io tradussi in un “Inizialmente non avevo intenzione di
scriverti” –“perchè non è giusto che io e te ci scriviamo.” … Va bene?- si
voltò verso di me, ansioso.
Io alzai una mano –Certo. Puoi scrivere quello che vuoi.- gli
feci notare. Poi rilessi quanto avevo scritto –E’ per la tua ragazza?- mi
informai, inarcando un sopracciglio e chiedendomi come fosse possibile che un
essere umano ragionevolmente profumato
potesse stare assieme a quel tipo.
Annuì, sviando il mio sguardo –Ma non è giusto. Dio non vuole.-
ribadì, ammiccando alla lettera.
Posai la penna –E’ di buona famiglia?- mi ritrovai a domandare.
Di solito non mi impicciavo dei fatti altrui, ma il caso eccezionale che mi si
stava presentando andava contro ogni logica, ed ero curioso.
-… Ha una casa enorme.- mi rispose lui, annuendo ancora –E anche
una stalla.- alzò le spalle -Lavoravo nella stalla.- concluse, e poi non mi
diede tempo di chiedergli altro –“Però non voglio non parlarti più”, scrivi.
“Però non lo devono sapere gli altri. E poi io non so leggere. Quindi se mi
rispondi faccio leggere qualcun altro al posto mio. Non scrivere il nome.”-
parlava velocemente e confondeva le parole, a volte rimaneva in silenzio per
qualche minuto e poi riprendeva, come se ogni parola che dovesse dettarmi fosse
importantissima –“Se mi rispondi puoi inviarmi la lettera alla posta qui a
Londra”. Metti il nome della posta che non lo so come si chiama.- mi avvertì,
quando concluse –“Sarebbe bello rivederci in giardino come facevamo quando
stavi ancora qui”, scrivi “se mi rispondi sarebbe bello e-” no, questo toglilo.
Mettici un saluto e poi…- tentennò e si guardò attorno, come smarrito.
Io, che avevo fatto una fatica immane a tenere il passo con
tutto quello che mi aveva detto e che avevo sudato sette camicie per dare un
senso a quello che stavo scrivendo, indicai il foglio –Devo scriverci il tuo
nome?- palesai, al limite della pazienza.
-No. Cioè, si. Deve capire che sono io ma gli
altri no.- gesticolò. Mi chiesi in quale pasticcio mi stessi cacciando, e
soprattutto a chi mai stessi scrivendo. Mi meravigliava, ma allo stesso tempo
mi faceva un po’ pena essere spettatore di una corrispondenza tra un ragazzo di
basso livello sociale ed una ragazza di buona famiglia. Era “un amore
impossibile”, e forse non avrei dovuto lasciare che quel tipo tutto stracci e
sporco si illudesse in una risposta, o in un futuro. Ma non me la sentii
–Allora metto l’iniziale del tuo nome.- proposi, senza guardarlo. In fondo
erano fatti suoi, e a me non interessava.
-Iniziale?-
-Come ti chiami?-
Indugiò –Masaki.-
Annuii e firmai la lettera con una M puntata. Piegai il foglio e lo inserii in una busta –Mi devi dire
dove abita la persona a cui l’hai scritta.- parlai, mentre chiudevo la busta.
Lui si avvicinò titubante e mi passò un fogliettino
tutto stropicciato e rovinato. Poi si allontanò velocemente. Sopra vi era
scritto un indirizzo della città di Hull, che copiai
sulla missiva –Vuoi che porti io la lettera alle poste?- chiesi per gentilezza.
Masaki mi fece cenno di si -Non so come si fa.- si
giustificò. Ne presi atto e mi alzai, dirigendomi verso l’appendiabiti per
prendere la giacca ed uscire subito, dandogli la schiena.
-Falla arrivare eh.- lo sentii balbettare. Serrai le labbra e mi
volta per rispondergli, ma quando mi girai, non c’era più.
Alzai gli occhi al cielo e gli imprecai dietro, espirando
pesantemente dal naso.
Non mi aveva nemmeno ringraziato.
Sperai che come minimo fosse andato a darsi una lavata.
Quando vidi Masaki per la seconda
volta, una decina di giorni dopo, quantomeno aveva un aspetto decente. Me ne
meravigliai, perché oltre ad essersi tolto tutto quello sporco di dosso (potei
constatare che il colore dei suoi capelli era di un turchese particolare), non
puzzava nemmeno. Ero basito, e pensai che fosse il suo modo per ringraziarmi
(non me lo seppi spiegare in altro modo).
Mi stupii di vederlo entrare dentro la tipografia come un
fulmine, per di più nel mio orario di lavoro, un sorriso a metà tra il
raggiante e l’impacciato stampato sul volto e una busta in mano. La busta, in
particolare, attirò la mia attenzione.
Stentai a credere che fosse quello che pensavo.
-Mi ha risposto!- mi comunicò, dirigendosi verso di me, che ero
piegato su una macchina, e piantandomisi davanti. Io
aprii la bocca per parlare e mi voltai verso il mio datore di lavoro, che mi
fece cenno di fare quello che dovevo dopo un sospiro esasperato.
Io sorrisi incerto e, lanciando uno sguardo di sbieco a Masaki, lo spinsi fuori dalla bottega, imprecando a mezza
bocca.
Eravamo a metà Aprile ed il caldo cominciava a farsi sentire un
po’ di più. La strada di fronte al negozio era piena di gente che andava e
veniva, uno spettacolo a cui non mi ero ancora del tutto abituato, da quando
ero lì.
-Che è?- mi chiese lui, smarrito, quando fummo fuori.
-Non lo vedi che sto lavorando?- lo ripresi, ammiccando alla
tipografia dietro di me. Lui mi guardò in silenzio per un paio di secondi, poi
mi porse la lettera ignorando del tutto quanto gli avessi detto -Me la leggi?-
sorrise entusiasta.
Espirai pesantemente e rinunciai a qualsiasi tipo di confronto
(era davvero stupido), e gli presi la lettera tra le mani. Immediatamente mi
accorsi di essere davvero curioso di sapere cosa ci fosse scritto e se la
ragazza di buona famiglia che interessava a Masaki
avesse risposto positivamente o meno, ma non lo diedi a vedere e mantenni la mia espressione contrariata.
Sbirciai la busta per vedere se vi fosse scritto un nome, ma non
ve ne era traccia, così mi risolsi ad aprirla.
Masaki batteva nervoso un piede a terra, e quando
alzai lo sguardo su di lui, lo vidi arrossire e distogliere gli occhi, facendo
finta di nulla.
Sospirai ed aprii i fogli che avevo in mano (dovevo sbrigarmi,
non ci tenevo a ricevere una strigliata dal mio capo), ed una scrittura fitta
ed elegante mi si presentò davanti agli occhi. Masaki
si sporse verso di me e gli occhi gli brillarono nel vederla. Allungò una mano
e sfiorò la carta, un po’ intimorito, forse, e io non potei fare a meno di
provare per la seconda volta pena per lui. Di certo c’era un bel rifiuto a
lettere cubitali, tra quelle parole, e mi infastidiva doverlo leggere io
stesso.
-Sbrigati.- mi incitò, concitato.
Evitai di commentare e cominciai a leggere –“Carissimo”-
cominciava –“Si vede che sei stato aiutato a scrivere la lettera, ci sono
parole che certamente nemmeno conosci”- aggrottai le sopracciglia, ed un
“idiota” sfuggì dalle labbra del ragazzo di fianco a me, che avvampò e si portò
una mano al volto. Continuai –“Sono davvero felice che tu abbia deciso di
scrivermi, alla fine. Ho temuto che non l’avresti fatto, e la cosa mi
rattristava molto”- sgranai gli occhi mentre leggevo –“Hull,
in confronto a Londra, è davvero noiosa. Non ci sono molti fiori, qui. Però ho
visto il mare, e…”- continuai a leggere, ed andai avanti per dieci minuti
buoni. La lettera era davvero prolissa e carica di informazioni, così tante che
mi chiesi quanto ci fosse voluto a scriverla “Con affetto, A.”- conclusi, ripiegando i fogli e porgendoli seccato assieme alla
busta a Masaki, che non aveva più fatto un fiato
–Toh, contento?- schioccai la lingua, cercando di ignorare lo stupore: allora Masaki e la ragazza erano davvero qualcosa. La cosa mi sbalordiva.
Lei si era firmata con una elegante A puntata, esattamente come avevo fatto io con
Non ricevendo risposta dal mio interlocutore, gli diedi un colpetto
sulla spalla, e lui alzò lo sguardo su di me, come ripresosi da una specie di
torpore. Non dimenticherò mai il modo in cui si strofinò la guancia arrossata
con la mano –Devo rispondere adesso.- mi comunicò.
Io alzai gli occhi al cielo ed allargai le braccia –Ora devo
lavorare! Passa più tardi!- sbottai, e lo piantai lì, liquidandolo.
Mi beccai una lavata di capo dal mio datore di lavoro.
Ma quel pomeriggio, quando Masaki
tornò, la lettera stretta nel pugno, anche se sbuffando, scrissi per lui la risposta.
***
Masaki cominciò a venire da me almeno tre o
quattro volte al mese, ogni volta con una lettera di risposta tra le mani.
Ogni volta mi meravigliava vedere quel pezzo di carta tra le sue
mani, perlomeno inizialmente. Ci misi qualche mese a rendermi davvero conto che
un ragazzo come lui stesse intrattenendo una corrispondenza con qualcuno di
probabilmente molto importante, con cui altrettanto probabilmente non avrebbe
dovuto rimanere in contatto. E che io lo stavo aiutando.
Non mi pagava mai, ed ogni volta lasciava a me la sua missiva,
ed ero io a portarla alla posta. Già dopo sei mesi avevo imparato a fare
particolare attenzione alle lettere che mi affidava. Mi resi conto che, in un
qualche modo, e nonostante tutto, tenevo alla sua causa e, per quanto
impossibile e forse in parte sbagliata, non me la sentivo di rifiutarmi di
dargli una mano.
Diciamo che il nostro rapporto ci mise del tempo, ad ingranare. Masaki era sempre schivo, e capitava di rado che mi
raccontasse qualcosa di lui (né io gli chiedevo nulla). Più che altro, era da
lui che partiva qualche domanda, di tanto in tanto, su chi fossi e che cosa
facessi.
Cominciai a rispondergli quando, finalmente, prese l’abitudine
quantomeno di ringraziarmi dopo che ero stato minimo un’ora ad ascoltare le sue
paturnie su cosa fosse meglio dire e cosa no.
Andammo avanti così per qualche anno. Lui veniva da me, io
scrivevo e leggevo per lui, e poi ci rivedevamo la volta dopo. Scandiva i miei
mesi, in qualche modo, e ad un certo punto mi accorsi che la sua era diventata
una presenza quasi scontata nella mia vita, anche se non conoscevo nulla su di
lui. Conobbe anche il mio capo, che lo trovò così simpatico che da quel momento
in poi non fece più storie quando entrava in tipografia durante l’orario di
lavoro per richiedere il mio aiuto.
Lo scoprii molto timido, nonostante all’apparenza non lo
sembrasse, ed anche abbastanza restio a mostrare i suoi veri sentimenti, cosa
che mi ricordò molto me stesso. Forse fu per quello che cominciai a rivalutarlo.
Si può dire che io e Masaki diventammo
amici il 27 Dicembre 1712, due anni ed otto mesi dopo il nostro primo incontro,
quando, in una lettera, la sua ragazza gli comunicò che aveva intenzione di
incontrarlo.
Non so come successe, esattamente. So solo che un attimo prima
lui era seduto poco distante da me, e subito dopo mi abbracciava così forte da
farmi soffocare. Fu la prima volta in cui lo sentii ripetere la parola “grazie”
almeno una cinquantina di volte, e non per cortesia, ma perché ci credeva davvero.
Mi disse, nel suo inglese sgangherato, che se non ci fossi stato io ad
aiutarlo, probabilmente non avrebbe mai rivisto la persona di cui era
innamorato, non ne avrebbe mai più avuto la possibilità.
Ma aveva le lacrime agli occhi e mi chiese di declinare
l’invito, perché uno come lui non poteva incontrare qualcuno di un così alto
livello sociale, non se lo poteva permettere. Non voleva contaminare più di
quanto già facesse la figura della persona che amava.
Lo vidi piangere.
A parte sua madre, forse, fui la prima persona a vederglielo
fare.
E lui fu la prima persona ad entrare realmente in contatto con
me da che ero a Londra.
Decisi di portarlo a fare una passeggiata così da farlo calmare,
e restammo insieme tutto il pomeriggio. Gli raccontai tutti gli aneddoti che
conoscevo e che apprendevo con il mio secondo “lavoro”, come quello sul
canarino della signora Midori o quello della poco
segreta relazione extraconiugale tra Kinako, la
figlia del fioraio, e Yuuichi, il rampollo di una
delle famiglie più altolocate della città. Lo feci ridere.
Lui mi raccontò che era nato poco fuori Londra, e che era figlio
di uno stupro. Sua madre lo aveva abbandonato all’età di dieci anni sulla porta
di un orfanotrofio da cui era scappato il prima possibile, e fino ai tredici
anni aveva vissuto di furti e lavoretti di poco conto.
A quattordici anni era entrato in servizio come stalliere nella
villa di una benestante famiglia della zona, che poi aveva dovuto lasciare per
motivi che non mi raccontò, ed in quel momento lavorava come garzone in un
forno della città (e così scoprii che era quello il motivo per cui aveva
cominciato a lavarsi più spesso).
Non accennò alla ragazza che tanto lo faceva penare, non più di
tanto, ma in qualche modo riuscii a convincerlo che vederla era una cosa
giusta, se ci teneva a farlo. Non so perché lo feci. Io per primo la ritenevo
una cosa decisamente sbagliata, e mi trovavo d’accordo con le parole di Masaki, ma vederlo così abbattuto mi fece decidere
diversamente.
Partì un mese dopo che non stava più nella pelle. Aveva
diciannove anni e non riusciva a stare fermo un minuto, me lo ricordo come
fosse ieri. Da quando avevo letto quella lettera e per lui avevo scritto una
risposta affermativa non aveva fatto altro che lavorare come un pazzo per
comprarsi un abito buono (voleva essere presentabile, ed aveva richiesto il mio
aiuto).
Non lo vidi per più di un mese, e quando tornò era al contempo
raggiante e distrutto. Non gli chiesi niente, ma di certo gli dispiaceva di
essersi dovuto separare nuovamente dalla sua amata. Comunque la sua
corrispondenza non terminò lì, e continuò a richiedere la mia mano e la mia
voce per scrivere e leggere le sue lettere.
Cominciò a parlare un po’ di più con me, ad aprirsi, a
raccontarmi delle sue giornate. Ogni tanto accennava ad A., borbottando ed arrossendo. Una volta mi disse che aveva voglia
di rincontrarsi ancora, che quelle poche settimane passate in sua compagnia
erano state belle, ma che poi si erano dovuti dividere a causa degli impegni di
entrambi e che non sapeva quando si sarebbero potuti rivedere.
Io sorridevo appena, e dentro di me sentivo che, nonostante la
sorte fosse stata crudele con quel ragazzo, Masaki
fosse fortunato ad avere qualcuno da amare così tanto. Lo desiderai anche io,
per la prima volta in vita mia, e il buon Dio volle accontentarmi quasi subito.
L’anno dopo mi sposai, poco fuori Londra, con la figlia di un
noto economista londinese che avevo conosciuto per caso perdendomi per le
strade della città qualche mese prima. La amai dal primo momento, ed anche ora
il suo ricordo mi scalda il cuore. Era bella, ed aveva lunghi capelli neri. Il
giorno delle nostre nozze portava un bellissimo abito, ed ero così nervoso che
mi sudavano le mani. Pensavo di non essere all’altezza di tanta perfezione.
Aveva buttato giù tutte le mie difese in un colpo solo ed io mi ero perso
totalmente per lei.
Invitai anche Masaki al matrimonio (fu
davvero divertente vederlo tutto ingessato in quell’abito elegante, da
cerimonia, che gli avevo prestato e che gli stava corto. Lo presi in giro per
mesi). Sulla scia di quella fortuna, di quella contentezza che mi aveva
sorriso, qualche mese dopo mi misi in proprio ed aprii una mia tipografia con
la benedizione del mio ex capo, e cominciai a guadagnare di più, così da
permettere a me e a mia moglie di vivere bene. Ero fiero di me stesso e di come
stavo conducendo la mia vita.
Ero felice.