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Autore: La Mutaforma    05/04/2013    3 recensioni
Quanta tristezza hai dovuto affrontare, amico mio? Quanto valgono adesso le tue fughe, il tuo imbarazzo?
Dov’è l’amore?

Feliciano pianse più forte, perché tanto Ludwig era dietro di lui e non poteva vederlo.
O forse perché era solo un bambino, e per i bambini non c’è vergogna a piangere.  
Qualcuno ha creato il mondo, bello come niente. Ci ha regalato il cielo, le stelle, il sole, il mare, la musica. Abbiamo inventato l’amore.
Eppure ci facciamo la guerra. 
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Chibitalia, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Era passata quasi una settimana. Un messaggero era arrivato alla reggia con una lettera per lui, quella mattina.

Ad Eliza aveva detto che era una lettera di suo fratello.

In realtà, era una lettera da Berlino.

 

Salì in fretta le scale, e arrivò in camera. Chiuse la porta a chiave alle sue spalle.

Non era la stanza dove dormivano lui e Ungheria.

Era una stanza vuota dove non andava mai nessuno.

Ludwig era nascosto sotto il letto, come sempre, per sicurezza e perché soffriva ancora per la luce.

Feliciano metteva sempre i tendaggi alle finestre, però Ludwig non portava più la benda sugli occhi, ormai.

Era bello, bello come un principe. In tutto simile a Sacro Romano Impero.

Il suo gemello… il gemello del bambino che aveva detto di amarmi…

Avevano gli stessi occhi azzurrissimi, la tonalità precisa del cielo del nord.

Conservava la sua regalità anche se vestito con semplicità, con la sua camicia, i calzoni scuri che gli andavano un po’ larghi e che manteneva con un paio di bretelle.

Era un principe, un principe senza corona.

“E’ arrivata una lettera da Berlino!” disse festosamente l’italiano, agitando la busta.

“Che cosa aspetti allora? Aprila!” lo incoraggiò Ludwig, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. Feliciano lo imitò e si sedette davanti a lui. Lesse rapidamente la lettera. Era un misto di un italiano zoppicante e un tedesco non troppo complicato per lui che aveva da sempre vissuto in Austria.

Prussia si esprimeva sempre in modo chiaro e conciso, senza perdersi in convenevoli, come un vero generale.

“Tieni, voglio che la legga tu. Questa parte è indirizzata a te, è scritta tutta in tedesco” gli disse Feliciano, consegnandogli la lettera. Il biondino la prese con mani tremanti e pensò che erano vent’anni che non aveva notizie del fratello maggiore.

Mente leggeva, Feliciano si accorse di come i suoi occhi si riempivano di commozione man mano che proseguiva la lettura.

Anche se aveva considerato l’idea di chiedergli cosa fosse scritto, si avvicinò e lo abbracciò. E fu molto meglio.

 

Qualche giorno dopo arrivò anche una lettera da Torino. Era di suo fratello.

Nella lettera, come in tutte le lettere che gli aveva spedito in quegli ultimi tre anni, Lovino si lamentava di come fosse grigia la capitale, di quanto poco sopportasse il nuovo re.

A quanto gli raccontava, il re d’Italia non era meglio del vecchio re delle due Sicilie.

“Quando arriverà questa lettera sarò già in viaggio. Parto questa stessa notte. Qui a Torino non c’è nulla per me. Torno a Napoli; forse lì c’è ancora qualcosa che io posso fare per vivere. Ho sentito dire che si sono formate molte bande di briganti. Alcuni di loro sono contadini impoveriti dalla guerra, altri sono rivoluzionari senza un sogno. Perdonami, tornerò a fare il ladro come un tempo, tornerò ad uccidere in vista di un profitto solo mio. Ma è questa l’Italia, fratello mio. E io quando mi unii a Garibaldi... credetti davvero che si potesse migliorare. Ma questo è il nostro paese, questo è il nostro popolo. Quello che vidi in Aspromonte non potrò mai dimenticarlo, né ora né fra cent’anni. Non potrò mai dimenticare i compagni morti per mano di altri italiani che avevamo chiamato fratelli. Ho lottato per l’unità, e adesso non vedo che soldati piemontesi ovunque, pronti col fucile in braccio per sparare.

Spero che tu perdoni questo tuo sciagurato fratello”

Feliciano chiuse gli occhi. Suo fratello non aveva che quindici anni. Eppure non era sempre stato così. Era cresciuto a Madrid, lontano dai suoi occhi. Aveva passato troppo tempo lì. Poi era diventato grande. No, forse solo meno bambino. Per certe persone non si diventa mai grandi.

Gli dava una strana malinconia il non poter esser stato partecipe della sua esaltazione prima e del suo dolore dopo.

Sospirò.

Da qualche parte, lontano, gli sembrava di sentire ancora il lento sciabolare delle onde nei canali della sua amata Venezia.

Decise di scrivergli.

Forse non fu una buona idea.

 

La seconda lettera arrivò qualche giorno dopo.

“Fratello mio, sarà l’aria fredda dalle tue parti a Vienna, ma cosa ti dice il cervello? Perché dovrei andare fino a Berlino per mettermi in un’altra guerra?

Voglio credere a quello che dici. Domani partirò per Torino, andrò dal re in persona se sarà necessario. Non so se ascolterà le parole di un ragazzino, per giunta brigante repubblicano. Avvisa il tuo amico tedesco di muovere il culo, lo aspetterò qui a Torino, ma non a lungo. Sai quanto odi l’aria piemontese.

Però ti ringrazio, perché in qualche modo sento di avere di nuovo un sogno, dopo tanto tempo. Il sogno di farti tornare in patria, di essere di nuovo due fratelli.

Anche a distanza, sappi che sarò sempre il tuo sciagurato fratello repubblicano”

 

Un giorno Ludwig spostò lievemente la tenda dalla finestra.

“La penombra mi mette tanta tristezza. È bello vedere di nuovo la luce”

C’era silenzio. Era un silenzio carico di sentimento e di malinconia, diverso da quando lui si addormentava in petto ad Eliza e stava in silenzio con lei.

Con Ludwig era diverso. Si stava in silenzio pensando ai fatti propri, eppure erano sempre in sincronia.

“Anche tu hai un fratello maggiore, Feliciano?”

“Sì. Dovrebbe avere più o meno la tua età”

“E’ molto che non lo vedi?” chiese il biondino, con educata apprensione.

“Molto. Tanti e tanti anni. Ci separarono quando eravamo piccoli. Lui andò in Spagna, fu dato in affidamento ad un certo Antonio Carriedo”

“Ricordo questo nome” fece Ludwig, sbattendo le palpebre “Deve essere stato nel 1820. O forse nel 21, chissà. Forse era uno dei rivoluzionari a Cadice”

Feliciano annuì lentamente. Quel giorno il padrone Austria si era molto arrabbiato.

“Tutto sommato, Lovino ha trascorso un’infanzia serena a Madrid, e io stesso non posso dire di essere stato tanto male qui a Vienna, anche se trattato da servo. C’è sempre stata Eliza a prendersi cura di me. E poi…”

“Cosa?”

Feliciano sorrise, guardando lontano. Sentì gli occhi umidi.

“Avevo un amico”

Il biondo non chiese nulla di più.

“Tu invece? Prima della rivoluzione… andavi d’accordo con tuo fratello?”

Ludwig abbassò lo sguardo. “Fin dalla nascita, il migliore è sempre stato il mio gemello, Sacro Romano Impero. Però non credere che non gli volessi bene. L’ho amato come me stesso, perché era me stesso. La nostra è una famiglia complicata… Gilbert ama spostarsi, combattere, stare nell’esercito. Fin da piccolo, sai, se ne stava da solo per l’est Europa, Poi Sacro Romano Impero mi lasciò. Venne qui a Vienna, e io rimasi solo, a Francoforte”

“Perché non sei venuto anche tu qui a corte?”

Ludwig sorrise aspramente “Sono fratello di un condottiero e gemello di un imperatore. Non sono nessuno. Volevo essere indipendente e diventare re del mio paese. Mi è stato impedito. Non solo non sono nessuno, sono anche un prigioniero”

Feliciano lo abbracciò d’istinto.

“Siamo stati tutti prigionieri. Per questo la guerra non può finire”

Ludwig lo guardò con i suoi grandi e ancor delicati occhi azzurri pieni di gratitudine.

“Per questo non smetteremo di combattere”

Si strinsero la mano.

La guerra non esiste quando c’è ancora amore.

 

Si vedeva a distanza di miglia che Lovino era meridionale. Povero e straccione come ormai di consuetudine. Gli occhi che vagavano ovunque e che eppure non guardavano nessuno. Si stringeva nel mantello scuro, troppo più grande di lui.

Sembrava più grande da quando aveva imparato ad andare a cavallo senza cadere.

Sotto il mantello portava il lungo fucile.

La prudenza non è mai troppa.

Lovino aveva i colori del sud, l’espressione di una società contadina disastrata.

Allo stesso modo, si vedeva a distanza di miglia che Gilbert era tedesco. Ricco e ben vestito, sprezzante come di costume, portatore di tradizioni militari antiche, che volevano ancora la spada medievale alla cintura.

Si chiese se fosse vera. Lovino non vedeva da molti anni un cavaliere vecchio stile.

Da quando era scoppiata la rivoluzione, aveva vissuto nella polvere. Quella da sparo.

La polvere non gli dispiaceva. Era sempre stato nella polvere.

Si guardarono, e pur non conoscendosi si riconobbero subito.

 

Lettera da Torino.

“Caro fratello, ho incontrato Gilbert a Torino. Hai degli strani amici, fratello mio. Però la sua politica di guerra mi affascina. L’Italia non è un paese di guerra, lo sai bene. In Italia il potere è nelle mani dei moderati, dei pacifisti, dei diplomatici. E… anche io stavo bene con quella realtà. La guerra mi spaventa, Feliciano. Mi spaventa perché non sono grande come cerco di far credere. Però stavolta ho qualcosa per cui combattere, stavolta ho qualcosa in cui credere.

Prussia ci ha dato un anno per organizzare le truppe, ha già parlato con Vittorio Emanuele. Io mi unirò ai volontari, come sempre. Il pericolo è grande ma la posta in gioco lo è di più. In caso di vittoria avremo un’Italia quasi unita, e avrò te al mio fianco. Potremmo andare a Venezia. Odio l’odore della laguna, ma sono quanto ami la tua città. Andremo a Venezia, e faremo baldoria a carnevale per le strade. Non aspetto che questo.

In caso di sconfitta, perdona il fratello che ti ha tanto voluto bene e che ti è sempre stato distante”

 

Ungheria gli venne incontro con un fascio di lettere tra le mani.

Feliciano spalancò gli occhi. Possibile che avesse dimenticato di nasconderle?

Lei aveva gli occhi arrossati di pianto, la voce secca.

“Le… le ho trovate nel tuo cassetto mentre facevo le pulizie”

Feliciano deglutì. “Le hai aperte?”

La ragazza annuì, e cadde in ginocchio davanti a lui. “Mi sembravi strano in questi giorni. Pensavo che ti stesse succedendo qualcosa… perché non me lo hai detto subito?!”

Feliciano si sentì prendere con vigore sulle spalle da quelle mani lavoratrici, ma gli fece ben più male l’espressione languida e sofferente della ragazza che lo aveva amato e cresciuto quando non c’era stato nessun altro per lui.

“Perché Ita-chan? Perché questo a me?”

Lui si sciolse dalla sua presa.

“Andrà tutto bene, Eliza. Abbi fiducia in me, e in Gilbert. Stiamo facendo tutto questo per l’Europa, per la libertà”

Ungheria si prese il viso tra le mani e pianse al pensiero di una nuova guerra.

“Ti prego, non dire niente al padrone”

Eliza non rispose.

“Ti prego. Voglio tornare a casa, Eliza. Voglio tornare da mio fratello”

Si abbracciarono piangendo.

“Anch’io voglio tornare a casa, Ita-chan”






Tanto per dire qualcosa: 

Lovino in una delle sue lettere fa riferimento alla sconfitta subita da Garibaldi in Aspromonte. L'obbiettivo dei garibaldini (di cui Lovino fa parte nella storia) era quello di conquistare Roma. Napoleone III minaccia che, se Roma fosse stata toccata dai garibaldini, avrebbe fatto guerra all'Italia. Vittorio Emanuele fece fermare i garibaldini in Aspromonte, in una dura battaglia in cui lo stesso Garibaldi rimase ferito. 

   
 
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