Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: _maya96_    05/04/2013    1 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

-Heartless-
 
-Senza Cuore-
 
 
“Se la casa è il luogo in cui ti porta il cuore, dove va chi non ha cuore?
-Dexer-

 

 
Chi vive più di una vita muore più di una morte.
Non ricordo da chi avessi sentito pronunciare quelle parole, ricordo solo che mi erano rimaste impresse, forse perché non avevo mai compreso il loro significato. Non avevo mai pensato a cosa potessero alludere.
Si dice che niente attragga di più di quello che non si conosce. Niente colpisce di più dell’ignoto, ma forse era proprio per questo che mi piacevano: perché non riuscivo in parte a comprenderle. Non riuscivo a capire come una vita vissuta più volte potesse portare a differenti morti.
Come poteva qualcuno che aveva già conosciuto la morte, che aveva già conosciuto il suo dolore e la sua frustrazione, decidere di vivere di nuovo pur sapendo che sarebbe andato incontro ad una stessa fine?
Quale persona al mondo avrebbe avuto il coraggio di assaporarla di nuovo, di provare sul proprio corpo tutte quelle ferite che sanguinavano ancora dentro la pelle di un’altra esistenza?
Una persona che forse aveva avuto una buona ragione per farlo. Una persona che non aveva nulla da perdere. Nulla di così importante da distoglierlo dal proprio scopo. Nulla di reale da permettere agli altri di comprenderlo, ma forse era proprio questo il punto.
Se le persone non potevano comprenderlo nulla l’avrebbe ostacolato. Nulla di così potente sarebbe riuscito a fermarlo. Nulla che valeva la pena di essere sconfitto. Nulla che potevo essere io.
Forse era proprio a me stessa che mi riferivo. Come se fossi a conoscenza che una come me non avrebbe mai potuto batterlo. Non sarei mai riuscita a farlo. Non con Klaus e questa consapevolezza parve trafiggermi il cuore con un affilato pugnale.
Avevo così tanto voluto comprenderlo. Avevo così tanto desiderato capirlo, che quasi mi resi conto di quello che stavo per perdere.
Avevo rischiato tutto e l’avevo fatto solo per lui. Avrei potuto ferirmi, avrei potuto anche morire, ma niente sembrò così importante da sorpassare quello che avevo provato in quell’unico momento. Quello che avevo sentito quando mi ero trovata così vicina a lui. Così vicina al suo immobile respiro e a quegli occhi incredibilmente neri, quasi da superare l’oscurità più cupa della notte. Quegli occhi così scuri, così meschini, ma così seducenti ed eccitanti, che sembravano privarmi della libertà di scelta.
Il libero arbitrio. Quante volte è stato pronunciato nella nostra storia? Quante volte ne abbiamo sentito parlare? E quante volte abbiamo continuato senza capire?
Ma il libero arbitrio non è qualcosa che si può comprendere. Non è qualcosa che si può immaginare o anche solo minimamente pensare. È un qualcosa che si sente. Un qualcosa che si prova quando ne siamo privati. Quando perdiamo quell’unica cosa che può definire realmente chi siamo. L’unica capace di affermare l’importanza del nostro vivere e del nostro morire: la nostra libertà.
Ma in fondo cos’è che rende un uomo un vero uomo se non le scelte che prende? Non quello che fa, ma le sue decisioni. Non come inizia una cosa, ma come decide di finirla.
Klaus era capace di privarmi di quell’unico frammento di esistenza capace di definire realmente chi fossi. Mi rubava di quell’unica parte di vita che mi era ancora rimasta e che era sopravvissuta a quel maledetto incidente.
Quando quella macchina era crollata giù da quel precipizio forse anche io ero morta con loro, anche se non fisicamente, ma l’unica cosa che mi manteneva ancora in vita erano le mie decisioni.
Ma se ora non possedevo più nemmeno quelle cos’altro mi restava?
Cos’altro mi permetteva di continuare a vivere?
Cos’altro ancora mi salvava da quell’imminente caduta nel luogo più infido e solitario della notte. Quello che porta alla disperazione?
Nulla. Nulla avrebbe potuto salvarmi, perché nulla avrebbe potuto distogliermi dal mio più grande fallimento: quello di non essere ascoltata. Quello di non essere capita e dell’essere giudicata ancor prima di essere conosciuta e quell’assurda consapevolezza gridò la sua voce, attraverso mura invarcabili di pensiero.

Ora mi appartieni.

Mi sfiorai involontariamente il collo con la mano e quei due segni sulla mia pelle si fecero sentire, come se stessero ancora sanguinando dopo tanto tempo. Come se lo stessero facendo ancora dopo quella maledetta notte. Come se non avessero smesso di piangere lacrime scarlatte, che con il loro pudore mi scivolavano addosso. Mi macchiavano velenose il resto di quell’unica esistenza che mi era ancora rimasta.
È strano pensare come la gente non possa decidere di nascere, né di morire, ma si trovasse in mano alla vita. Come se non avesse voce in capitolo, nemmeno quando si tratta della propria esistenza. Ma se non ci è permesso scegliere su questo, su cosa ci è permesso farlo? Se fin da piccoli ci sono state negate questo tipo di decisioni, come possiamo parlare di libero arbitrio? Come possiamo ritenere nostre le proprie scelte?
Se come la vita e la morte, le nostre decisioni fossero soltanto una banale apparenza? Se in realtà non esistessero perché già prescelte in anticipo, cosa ci resterebbe? Cosa pretenderemo di essere? E cosa potremo ricordare, se non semplici parole pronunciate dalla nostra bocca, attraverso fili invisibili capaci di determinare ciò che in realtà non siamo?
Come se la voce che parlasse fosse di un altro e per renderla reale si servisse di noi. Come se fossimo un mezzo, un tramite tra il vero e il falso. Tra l’apparente e l’illusorio. Persone ignoranti che fingono di scegliere ciò che è giusto o sbagliato per loro.
Si dice che la cosa più difficile che un uomo debba affrontare sia quello che avrebbe potuto essere. Ma allora quanto può essere triste per qualcuno affrontare ciò che invece è stato? O quello che non sarà mai? O quello che non potrà mai più essere?
Ma se tutto questo non fosse stato scelto da noi? Se ognuno di noi fosse predestinato a fare qualcosa nella vita?  Una serie di eventi, collegati tra loro, che fanno si che tutto avvenga come è giusto che debba avvenire?
Come se l’Universo fosse una macchina e noi ci muovessimo in modo apparentemente naturale, ma guidati da qualcuno di cui ignoriamo l’esistenza. Senza alcun fine, senza alcun scopo, ma solo per riempire brevi spazi di tempo?
Ma il tempo è uno spazio davvero troppo lungo per essere definito e vicino a lui, vicino a quei suoi occhi di ghiaccio intrisi di nero, avevo ascoltato l’inconfondibile suono che scandisce gli attimi in una vita immortale.
 
Gli avevo sentiti. Gli avevo ascoltati, mentre scorrevano eterni e si susseguivano veloci, sapendo che non avrebbero mai avuto una fine. Non avrebbero mai posseduto un inizio, ma solo un’interminabile ed insaziabile brama di esistere. Assaporando malinconicamente ciò che non potranno mai smettere di essere: creature solitarie odiate dal mondo.
 
Se non riesci più a fidarti di te stessa su chi altro puoi contare?
 
Forse era quella la cosa peggiore. Non vivere per sempre, ma convivere con sé stessi per il resto della vita.
 
Se l’eternità è davvero infinita, quanto lo può essere la solitudine che essa porta?
Quanto può essere difficile, per qualcuno, accettare l’idea di essere costantemente ed infinitamente solo?
Ma se l’essere solo è come morire, forse una vita non bastava per accettare l’idea di esserlo per sempre. Di accettare la consapevolezza di non avere più nessuno accanto. Più nessuno che ti comprenda. Più nessuno che ti ami. Sarebbe come smettere di esistere per una seconda volta.
Chi vive più di una vita muore più di una morte.
Forse era proprio quello il suo significato.
Mi coprii il viso, cercando di ripararlo dai rami affilati di quel bosco, che come spade mi ferivano gli occhi e mi trafiggevano il cuore, urlando parole portate dal vento, attraverso crudeli pensieri, illuminati dal sole.

Sono solo un’altra persona da cui dover fuggire.

Ora ne avevo la prova. Ora ne avevo la certezza. Ora sapevo cosa fosse in realtà. Cosa quel crudele e sadico sguardo trasmetteva.
Avevo visto i suoi denti simile a zanne sporgere dalle labbra. Avevo visto il suo sguardo iniettato di sangue e avevo visto la morte dentro i suoi occhi, mentre gli avvelenava cupidigia l’anima e gli macchiava dolente le iridi.

Lui è un vampiro.

Un sussulto mi raggelò il cuore, mentre quell’assurda consapevolezza parve trafiggermi crudele le membra. Lui era una belva. Una belva del tempo, ma una parte di me forse ne era già a conoscenza.
Avevo sempre immaginato che dietro quegli occhi azzurri si nascondesse qualcosa. Che dietro quel ghiaccio di una freddezza quasi morente si celasse un mostro. Ma forse l’avevo negato solo per poter vivere lo stesso. Come se così facendo potessi convincermi che la realtà fosse solo frutto di un sogno. Di un dannato sogno che mi raggelava l’anima. Ma quando gli incubi invadono la luce del sole, come poteva la notte avere una fine?

Non esiste possibile o impossibile, amore. Esiste solo quello in cui scegli di credere.

Ma se io non ho scelta, come potevo decidere di scegliere lui?
Se le nostre decisioni non esistono, perché già prescelte, cosa mi aveva costretto a seguirlo? Chi mi aveva spinta a cercarlo? A volerlo come se avessi bisogno di lui. Come se non potessi farne a meno. Come se il suo respiro immortale mi soffiasse la vita e in quell’unico istante in cui le sue labbra avevano indugiato sulle mie. In quel singolo attimo in cui le nostre ombre si erano unite in una sola e il suo dolce profumo mi aveva invaso delizioso i polmoni. Solo allora, mi era sentita viva.

Non potrai mai riuscire a sfuggirmi, perché non potrai mai riuscire a respingermi.

No, non riuscivo a farlo. Non riuscivo a respingerlo. Non riuscivo ad allontanarmene e di questo avevo paura. Paura che avessi così poca considerazione di me stessa. Paura di essere così infinitamente debole. Paura nel realizzare che se avessi potuto, in qualche modo, tornare indietro avrei fatto tutto esattamente come ho fatto. Non avrei cambiato nulla, perché non avrei potuto cambiare quello che forse sentivo per lui.
Tutto quel terrore che avevo provato, tutta quell’inquietudine che mi si era protratta infida nel cuore. Quella paura, che avida mi era entrata dentro la pelle, era solo un leggero soffio di vento in confronto a tutta quell’agonia che mi assaliva ogni volta che gli stavo lontana.
Ma se tutto questo non era una mia scelta come poteva essere vero?
Chi poteva mai essere stato a decidere tutto questo?
Si dice che ogni creatura sulla terra quando muore è sola, ma allora cosa ne resta di chi lo è stato per sempre?
Di chi ha smesso di cercare uno scopo nella propria esistenza?
Se di loro non resta nulla, cosa può rimanere di chi nella morte non ha mai desiderato la vita, forse semplicemente perché non l’ha mai realmente vissuta?
Creature come Klaus come possono ritenersi eterne se non hanno mai conosciuto l’altra parte della medaglia?
Se dalla morte nasce la vita e se dalla vita si dilunga la morte, cosa può significare chi non ne ha provato nemmeno una delle due?
Forse gli immortali erano solo creature costrette a vagare sulla terra per sempre. Erano angeli negati al Paradiso. Demoni strappati all’Inferno. Persi nella loro devastazione e nei loro rimorsi.

La coscienza talvolta può essere davvero crudele. Credimi, lo so bene.

Forse Klaus era l’unico che mi capiva, forse perché era l’unico che poteva comprendere questo tipo di sentimenti, anche se dubitavo ne avesse qualcuno e quei suoi occhi indifferenti mi davano quella certezza.
Lui non provava nulla. Non sentiva nulla, perché quell’eterna frustrazione cancellava tutto il resto e lo rendeva vuoto nella sua solitudine.

Lui è un vampiro.

Vampiro: belve immortali, che si nutrono della vita.
Quello era tutto ciò che sapevo. Quello solo potevo immaginare, anche se non avevo mai pensato che creature come queste potessero mai essere vere.

Il tuo sangue ha un profumo così…dolce.

Quelle parole erano arrivate sofferenti e intrise di un’agonia paragonabile a quella della morte, ma forse il mio sangue non era l’unica cosa che bramasse. Ci doveva essere qualcos’altro che desiderava così fortemente.

Se non divori ciò che desideri prima o poi impazzisci.

Quando qualcuno brama qualcosa con tale intensità è perché non può averla e l’unica che andava oltre la sua brama di sangue doveva essere il suo desiderio di vivere. Per questo non mi aveva morsa. Per questo non aveva affondato i denti nella mia pallida carne, anche se forse gli avevo così tanto aspettati che quasi mi sembravano fossero veri. Come se avessi già provato dolore. Quella sofferenza e frustrazione, che mi aveva dilaniato il cuore attraverso tutto quel desiderio: io di lui, lui della mia vita.
Ma qualcosa doveva averlo fermato. Qualcosa che io non riuscivo a comprendere. Qualcosa di così grande che andava oltre la mia volontà di capire. Qualcosa che forse neanche lui poteva prevedere.

Ora mi appartieni.

Quei sussulti mi erano giunti sofferenti, come se tutta quella frustrazione si confondesse con la sua solitudine, in un incendio che forse era destinato a divampare e a investirmi con il suo immenso calore. Ma quando avevo aperto gli occhi lui era sparito. Era svanito così come aveva fatto troppe volte.  Mi ero ritrovata nel bosco. Mi ero ritrovata da sola e forse anche salva, ma nonostante tutto non ero più riuscita a sentirmi tale, forse perché non ero più riuscita a sentirmi viva.


 
* * * *

 


 “Tu credi nei sogni, papà?

La mia domanda mi uscì fugace dalla bocca e il mio sospiro si posò leggero sulla finestra appannata, nascondendo quelle lacrime che tristi cadevano dal cielo e finivano a terra, bagnando tutte quelle foglie strappate alla vita, che come un letto, ricoprivano il suolo.
Avevo passato tutto il pomeriggio a giocare con Ryan. Con quel ragazzo con gli occhi da bambino, che si rifiutava di credere nei sogni.

I sogni non sono reali, sono solo una perdita di tempo che acceca la realtà.

Così li definiva. Così li descriveva, come se davvero credesse alle sue parole. Come se davvero li ritenesse impossibili e il solo parlarne rendesse gli uomini stolti.
Ma nonostante tutto io non riuscivo a crederci. Non riuscivo a credere all’unica persona del quale mi ero sempre fidata. Con il quale avevo sempre parlato. Con il quale avevo riso e molte volte avevo anche pianto.
L’unico forse in grado di capirmi. L’unico al mondo che ritenessi mio amico.
Ryan non mi avrebbe mai mentito. Non l’avrebbe mai fatto. Ogni cosa che diceva, ogni parola che pronunciava la ritenevo preziosa e incondizionatamente vera.
Ero certa che lui non mi avrebbe mai tradito, forse perché io non l’avrei mai fatto e quella mia certezza mise in contraddizione ogni singola cosa nella quale avevo sempre creduto.
Se Ryan diceva che i sogni non erano reali, sicuramente non dovevano esserlo. Ma se avevo sempre creduto in loro ero anche io una stolta?
Se gli avevo sempre presi per veri, ciò mi rendeva sbagliata?
Se loro erano fallaci, cosa al mondo dovevo ritenere reale?
Cosa al mondo poteva essere ritenuto ancora possibile?
Avevo sempre creduto che un uomo senza sogni fosse un uomo senza vita, ma se invece fossi sempre stata nel torto? Se tutto fosse completamente diverso? Se tutto quello che ritenevo possibile fosse destinato solo a morire?
Forse Ryan aveva ragione. Forse i sogni non esistevano neanche e se invece esistevano facevo meglio a non crederci, perché se erano illusori come diceva lui ed accecavano la realtà dovevano essere per forza cattivi.
Ma allora perché ,quando ci pensavo, una sensazione di piacevolezza mi avvolgeva?
Perché quando mi soffermavo a rifletterci, mi sentivo come se non avessi mai chiuso gli occhi in vita mia. Come se non avessi mai riposato. Come se stessi volando su quelle candide nuvole che dall’alto imbiancavano il cielo.
Doveva essere quello il male?
Un qualcosa di così crudele, così meschino e così irreale da fingersi buono. Così nessuno avrebbe potuto sfuggirgli. Nessuno avrebbe potuto salvarsi. Perché nessuno avrebbe mai potuto comprenderlo.
Ognuno di noi sarebbe stato attratto da quella bellezza, da quella finta realtà e da quel benessere da non rendersi conto che così facendo si sarebbe condannato. Sarebbe stato divorato da un orribile mostro nascosto dentro una rosa.

Le cose belle le riconosci. Sono quelle che a un certo punto non capisci più se fanno bene o male.

Così diceva sempre mio nonno. Lui non sbagliava mai.

“Certo che ci credo, piccola” mi confessò mio padre, facendo qualche passo verso di me. “Bisogna sempre conservare i propri sogni, perché non puoi sapere quando ne avrai bisogno”.

Vidi la sua immagine riflessa nel vetro della finestra. La vidi avvicinarsi, finché prese posto vicino alla mia, mentre quelle gocce di pioggia si rispecchiavano silenziose nei nostri sguardi.
Si dice che gli occhi siano la finestra dell’anima. Che fossero i soli a rivelare ciò che siamo in realtà o se siamo davvero sinceri. Forse perché sono l’unica parte di noi che non riesce a mentire, perché come uno specchio riflettono i nostri veri sentimenti. Le nostre vere emozioni.
La bocca è mentitrice: se abbiamo paura o se siamo felici, possiamo negarlo con semplici parole, ma se si vuole davvero conoscere cosa si cela nel cuore di un uomo bisogna guardarlo negli occhi.
Gli occhi non mentono, perché bevono direttamente dalla bocca della nostra anima e i suoi mi sembravano sinceri, come se anche lui stesse dicendo la verità. Ma allora a chi dovevo credere? Su chi dovevo contare? A chi dovevo dare ascolto?
Mio padre ci credeva e lui non poteva essere uno stolto, ma allora questo voleva dire che Ryan per tutto questo tempo mi aveva solo mentito? Aveva sempre abusato della fiducia che avevo in lui. Forse era lui quello cattivo che fingeva di essere buono. Quello che non credeva nei sogni soltanto perché non ne aveva e voleva che anche io smettessi di farlo per non sentirsi solo.
Se si smettesse di credere nei sogni su cosa al mondo bisognerebbe contare, per quale assurda ragione bisognerebbe continuare a vivere?
Il giorno in cui smetti di sognare sei morto. Ma se una persona senza sogni è una persona senza vita, doveva anche essere per forza priva di cuore?
Ryan non mi sembrava che fosse così tanto cattivo. Forse era solo bravo a nasconderlo. Ma davvero doveva essere così crudele l’unico amico che avessi mai avuto? L’unica persona su cui avessi sempre contato? L’unico che avessi mai amato?
Le persone o sono buone o sono cattive, come possono esserci vie di mezzo? Sfumature nascoste, guardate con gli occhi di un cieco, ascoltate con le orecchie di un sordo e sentite con un cuore che aveva smesso di battere.
Doveva essere come il lupo e la principessa delle fiabe che mi raccontava papà. Il lupo non si sarebbe mai tramutato in buono e alla fine della storia era destinato a soccombere. Ma se questa volta il lupo avesse vinto? Se come diceva lui i sogni non fossero reali?  Se la sua crudeltà avesse prevalso?

“Le persone che non credono nei sogni sono cattive?”

Feci quella domanda a bassa voce, quasi come se avessi paura ad ascoltare la risposta. Non volevo che Ryan lo fosse. Non volevo fosse così crudele. Lui era buono, doveva esserlo, ma allora perché non ci credeva? Se non era il lupo della fiaba perché temere il finale della storia?
Mio padre mi prese per le spalle e mi fece voltare lentamente verso di lui e quando le nostre figure furono l’una di fronte all’altra, s’inginocchiò in modo che non alzassi lo sguardo per vederlo in volto.
Mi piaceva il modo in cui lo faceva. Come ogni volta si mettesse alla mia altezza. Come se ritenesse importanti le mie parole, anche se forse temevo gli facessero perdere del tempo, ma lui non me lo diceva mai. S’inginocchiava e mi ascoltava, mi capiva. Forse era quella la cosa che mi piaceva più di lui: mi faceva sentire importante.
I suoi occhi chiari sembravano catturare i miei, mentre il mio viso si rifletteva nelle sue iridi sincere, nella sua anima segreta che un solo sguardo poteva rivelare.
Le sue mani mi tenevano delicatamente le spalle in modo protettivo, mentre la luce della luna, che filtrava nella pioggia, sottolineò sul muro le nostre pallide figure. Due ombre uguali di una stessa distanza dal suolo.

“Ti svelerò un segreto” mi disse con voce calma. Con la stessa voce che usava la sera per raccontarmi le fiabe. Con la stessa voce che aveva quando si arrabbiava o quando s’intristiva. La stessa voce che ora mi manca più di ogni altra cosa.

“Nessuno al mondo è davvero privo di cuore”.

 

* * * *

         
 
Il tragitto per arrivare a casa non mi era mai sembrato così lungo.
Forse mi ero persa un paio di volte. Forse non mi ero nemmeno ritrovata. Forse questa non era nemmeno la mia via, ma speravo davvero che lo fosse. Doveva esserlo per forza, non poteva essere altrimenti.
Avevo bisogno di andare a casa. Di andare dalle persone che amavo. Dalle persone che mi amavano. Dovevo salvarle, almeno loro dovevo salvare. Non l’avrei lasciate morire. Non avrei commesso lo stesso errore, non questa volta. Ora conoscevo il segreto di Klaus. Ora conoscevo cosa fosse in realtà. Conoscevo quanto fosse terribilmente pericoloso e quanto fosse bravo ad ingannare la mia mente.
Ma la cosa peggiore era che lui sapeva che io ne ero a conoscenza. Forse questa volta non mi aveva fatto del male. Forse questa volta mi aveva lasciato in vita, ma non avrei potuto far nulla se avesse cambiato idea.
Ma in fondo se avesse voluto uccidermi lo avrebbe già fatto. Sarei già morta se lui avesse voluto. Se lui quel giorno non avesse resistito all’odore del mio sangue, cosa avrei potuto fare per fermarlo?
Cosa avrei potuto dire per restare in vita?

Nulla.

La mia forza paragonata alla sua non era nulla. Io non ero nulla. Forse ero addirittura insignificante, invisibile di fronte a lui. Come se avesse potuto schiacciarmi da un momento all’altro. Come se fossi un moscerino, che non valeva la pena neanche di essere ucciso.
Ma non potevo permettere che facesse del male a loro. Non avrebbe ferito le persone che amavo, perché io non glielo avrei permesso.
Non gli avrei permesso di portarmi via l’unica cosa che mi restava. Le uniche persone che mi rimanevano. Non potevo perdere qualcun altro, non potevo permettermelo. Io non volevo.
Gli avrei salvati. Giurai a me stessa che l’avrei fatto. Gli avrei salvati così come avrei dovuto salvare loro. Come avrei dovuto fare quella notte. Come avrei dovuto fare con i miei genitori. Altre persone innocenti non sarebbero morte a causa mia. Non questa volta.
E forse, così facendo, sarei riuscita a perdonarmi.
Entrai in casa, sbattendo la porta alle mie spalle e con il fiatone che mi divampava in gola andai in cucina, dove un caldo odore di stufato impregnava le pareti.

“Zio, zia dobbiamo andarcene”.

Provai a parlare, senza però sapere cosa dire, senza sapere cosa fare. Come avrei potuto convincerli? Come avrei potuto farmi credere? Come avrei potuto non ricadere in quel mio più grande fallimento? Quello di non essere capita. Quello di non essere ascoltata.

Mio padre era l’unico che lo faceva. L’unico che s’inginocchiasse di fronte a me. L’unico che mi ritenesse importante. Ma lui non c’era più, chi allora avrebbe potuto comprendermi?
Le loro figure indaffarate nel preparare la cena si voltarono entrambe nella mia direzione e con occhi accusatorii mi guardarono allibiti.

 “C’è il coprifuoco” disse mia zia, visibilmente preoccupata. “Avresti dovuto essere a casa mezz’ora fa”.

Alzai lo sguardo sul muro, dove le lancette di quell’orologio scandivano attimi eterni.
Ero in ritardo e anche di tanto, ma adesso non era il mio problema. Qualcosa di molto più importante aveva la priorità. Qualcosa di molto più pericoloso.

“Klaus non è quello che dice di essere” iniziai a parlare velocemente, con ancora il fiatone per quella folle corsa contro il tempo. “Lui è un vampiro”.

Vampiro.

Non mi resi conto di averlo detto realmente. Il suono di quella parola mi risultava ancora così strano. Così assurdo che faticavo addirittura a comprenderlo.

Mi chiesi a cosa stessero pensando, mentre si scambiavano sguardi silenziosi. Forse pensavano che fossi pazza. Forse pensavano che fossi andata fuori di testa. Io non so cosa avrei fatto se fossi stata al loro posto, ma di certo la loro risposta non avrebbe atteso ancora per molto.
Il volto incredulo di mia zia si voltò verso la mia direzione, ma avevo paura a guardarla negli occhi. Avevo paura di guardare nella sua anima, perché avevo paura di sapere di non essere creduta.
Ma ad un tratto la sua espressione mutò. I lineamenti si rilassarono e un sorriso le si dipinse sulle labbra.

“Lo sappiamo bene, cara” mi disse ridendo, accompagnata da zio Enry. “Non credi sia fantastico?”

Rimasi immobile. Pietrificata davanti alle sue parole. Davanti alle loro sonore risate che si perdevano nell’aria.
Loro lo sapevano. Sapevano che razza di mostro fosse Klaus. Sapevano ogni singola cosa, ma perché non avevano detto niente? Perché avevano taciuto per così tanto tempo? Perché ridevano come se fosse la cosa più incredibile del mondo?
Lui era un mostro, dannazione. Una bestia. Lui sicuramente aveva attaccato Ally. Lui le aveva provocato quei segni sul collo. Lui aveva aggredito quei ragazzi scomparsi. Non aveva niente di umano. Nessun sentimento. Nessuna emozione. Nessun amore. Era solo mostro. Una mostro senza cuore.
Ma allora perché loro sembravano così tanto felici?

“Compulsione”.

Freddo. Un immenso freddo m’invase tutto il corpo. Lo sentii fluire insieme al sangue, che sembrava avesse smesso di scorrere nelle vene. Come se si fosse ghiacciato al suo interno. Come se si fosse congelato insieme a quella voce che glaciale aveva soffiato alle mie spalle in un unico freddo sospiro, che da solo pareva avermi uccisa.
Quella voce così crudele. Quella voce così suadente. La voce indifferente di una persona senza cuore.
Doveva essere quella la voce di una persona immortale?
Mi voltai, ma forse avrei preferito non farlo, forse avrei preferito non vederlo. Non vedere gli occhi di quel demone. Gli occhi azzurri di quel mostro, che avevo scoperto essere vero. Gli occhi crudeli di una belva. Di una belva del tempo.

No lasciare che mi faccia del male.

La sua alta immagine restava in piedi vicino al muro. Così meschina, così infida, ma così attraente, che quasi una fitta mi spaccò il cuore in due.

Le cose belle le riconosci. Sono quelle che a un certo punto non capisci più se fanno bene o male.

La sua pallida pelle pareva ancor più chiara e la maglia nera che indossava aderiva perfettamente ai muscoli del suo petto. I suoi biondi capelli splendevano come il sole e gli occhi azzurri brillavano come diamanti, avendo abbandonato il colore scuro che prima gli dipingeva le iridi.
Sembrava un angelo. Uno stupendo angelo venuto dal cielo. Un angelo con la morte nello sguardo. Un angelo così così simile ad un demone.

Lui è un vampiro.

“Klaus”.

“Che piacere rivederti, sweetheart” mi disse accennando qualche passo verso di me, con il viso semi oscurato dall’ombra che albeggiava infida nella casa e con un tetro sorriso, che non presagiva nulla di buono. “La vita è l’arte dell’incontro, non credi?”

 

* * * *


 
“Tanti auguri, principessa”.

“Grazie, nonno”.

Presi tra le mani quella piccola scatola dorata e la strinsi così forte che quasi mi provocai dei segni sulla pelle.
Finalmente era arrivato. Il giorno del mio compleanno era arrivato. Per la prima volta alla domanda: quanti anni hai? Avrei mostrato due mani e non più una soltanto.
Ero così felice che quasi mi considerai un’adulta. Come se i miei sei anni fossero talmente tanti da non riuscire neanche a contarli.
Volevo essere grande. Volevo essere indipendente. Non volevo essere trattata come una bambina e ora finalmente non lo sarei mai più stata.
Il volto austero di mio nonno era sorridente, mentre i suoi occhi chiari parevano brillare. Come se fossero illuminati da una luce propria, mentre mi vedevano scartare quel regalo prezioso in mezzo a tutti quegli alberi, che segnavano il centro di quel bosco.
Eravamo andati a Port Angeles quel giorno. Avevo così tanto insistito a vedere mio nonno, che non m’interessava festeggiare il mio compleanno in quella città sperduta. Volevo solo vederlo. Volevo solo parlargli e non capitava spesso, ma adesso lui era qui. Era qui con me e niente aveva più importanza.
Mi sedetti sui gradini di una vecchia scalinata in pietra che doveva portare alla cantina di una casa abbandonata.
Non l’avevo mai vista in vita mia, forse perché non ero nemmeno mai entrata nel bosco. Papà non voleva, diceva che era pericoloso e forse si sarebbe anche arrabbiato, sapendo che il nonno mi ci aveva portata, per questo forse era meglio non dirglielo.
Non riuscivo a capire perché avesse paura. Non capivo cosa lo spaventasse. Non ero più una bambina, ormai avevo sei anni e non ero da sola, c’era il nonno con me, ma non riuscivo a comprendere perché neanche si parlassero. Forse non si volevano bene, ma io volevo bene a mio papà, perché lui non doveva voler bene al suo?
Come poteva litigare così tanto con il nonno? Come mai gli andava bene l’idea di non vederlo per mesi? Il nonno non era cattivo, me l’aveva detto anche lui qualche giorno prima. Mi aveva detto che nessuno al mondo è davvero privo di cuore, ma allora perché parlava così male con lui, perché non voleva che neanche lo vedessi? Cosa doveva aver fatto di così tanto cattivo? Cosa doveva aver fatto lui che non sbagliava mai?
Un soffio di vento mi alitò sul viso e fece volare il nastro rosso che chiudeva quella scatola dorata.
Lo portò via. Lo portò lontano verso il cielo terso, nascosto talvolta dalle alte chiome degli alberi, che con i loro rami sembravano dipingere le nuvole tra tutto quel limpido azzurro.

“Mi piace stare qui” gli dissi, guardando ammirata tutti quei colori e sentendo quei profumi che circondavano quel luogo. “È davvero bellissimo”.

Tornai a guardare mio nonno. Tornai a guardare i suoi occhi chiari in cui si rifletteva il cielo. I suoi lineamenti leggermente marcati avevano sempre quell’aria austera, ma sembravano essersi addolciti, come se anche per lui la vista di quel paesaggio fosse piacevole.
Si avvicinò a me e senza fatica si sedette su quei gradini in pietra. Il suo sguardo dello stesso colore di quello di mio padre si fece assente e si disperse tra le fitte fronde di quegli alberi nascosti nel tempo.

“Le cose belle le riconosci” mi disse, chiudendo per un istante le palpebre. “Sono quelle che ad un certo punto non capisci più se fanno bene o male”.

La sua voce era dura, come se si stesse rimproverando. Come se fosse severo con se stesso, ma non riuscii a capire la ragione per cui lo avesse detto in quel modo. Non riuscii a comprendere il motivo di tanta frustrazione e tantomeno riuscii a comprendere il significato di quella frase. Il significato di ciascuna di quelle parole, ma avrei dovuto farlo, infondo ora ero anche io un’adulta.
Le sue palpebre si riaprirono scoprendo quella chiara tonalità che dipingeva le iridi, ma non riuscii a capire a cosa stessero pensando. Non riuscii a capire cosa stessero nascondendo, riuscivo solo a vedere quella frustrazione incupirgli il volto, ma non riuscii a capire a cosa fosse dovuta.
Se gli occhi sono la finestra dell’anima il dolore doveva essere la porta e quella barriera tra il sapere e il non sapere forse era destinata a rimanere chiusa, così nessuno al mondo avrebbe mai più provato sofferenza. Ma allora come potevo saperlo.

“Non la apri?”

Mi risvegliai dai miei pensieri e abbassai lo sguardo verso quella piccola scatola ancora chiusa. Quella piccola scatola dorata senza il fiocco rosso, portato via dal vento.
L’aprii, appoggiandomela delicatamente sulle ginocchia. Lo feci così lentamente quasi come se avessi paura che questo momento dovesse finire. Come se avessi paura che il tempo me lo portasse via e che fosse soltanto un breve ricordo, ma i miei occhi rimasero incantati per quello che vi trovai all’interno, che fecero durare quest’istante per sempre.
Una piccola collana d’argento con un ciondolo blu giaceva tra tutto quel cotone rosso. Era così bella, così brillante, quel blu era cupo come la notte. Come se fosse una lacrima caduta dal cielo, intrappolata in quel colore scarlatto. Come se fosse una lacrima sporca di sangue, scura come le tenebre stesse.

“È bellissima” dissi, sorridendo a mio nonno, che mi aiutò gentilmente ad allacciarla al collo. Era semplicemente perfetta.

“Devi averne cura, Alba” mi disse guardandomi con aria severa, la stessa che ogni volta gli dipingeva le iridi e gli velava il cuore. “Non devi toglierla mai”.

Annuii in silenzio e presi ancora una volta quel ciondolo tra le mani, mentre il soffio freddo del vento parve investirmi più forte di prima.

“Perché siamo venuti nel bosco?” Gli domandai, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quella collana.

Papà non voleva che ci andassi e il nonno lo sapeva bene, ma aveva insistito a portarmi lo stesso. Non riuscivo a comprendere la ragione per cui lo avesse fatto. Il motivo mi era ignoto.

“Volevo darti il regalo in un posto speciale” mi rispose sorridendo e volgendo lo sguardo verso il sole. “Infondo la vita non è l’arte dell’incontro?”
 


* * * *


 
Ho smesso di credere in Dio dalla notte di quell’incidente.
Non riuscivo a capacitarmi di come qualcuno che definiamo divino. Qualcuno con un potere così grande, così potente da poter eliminare ogni singolo male radicato nel mondo avesse potuto permettere che una cosa del genere accadesse.
Ma se Dio esistesse e io credessi un lui ora si troverebbe in questa stanza.
Come se riuscissi a sentirne la presenza tra queste fragili mura. Come se riuscissi a sentire il suo respiro velarmi leggero sui capelli. Come se riuscissi a sentire il suo cuore palpitare attraverso lo scoccare di interminabili secondi, appesi al muro dai fili del tempo. Ma lui non faceva nulla. Restava lì a guardare in silenzio la mia vita cadere a pezzi. Guardava ogni singolo frammento finire al suolo per venire poi pestato da quel mostro.
Ma perché non faceva nulla? Perché non voleva aiutarmi? Cosa avevo fatto di così tanto sbagliato?
Avevo perso tutto e lui non aveva fatto nulla per fermarlo. Non aveva fatto nulla per modificare ciò che è successo.
Perché doveva odiarmi così tanto? Perché ero costretta a subire una simile sofferenza?
Ero sola, dannazione. Sola, mentre rimanevo a guardare il mio più grande incubo camminare nella casa in cui vivevo, minacciare le persone che amavo e io ero impotente. Io non ero nulla.
Perché se Dio esisteva non voleva aiutarmi?
Forse non me lo meritavo. Forse non ero nemmeno degna di avere il suo aiuto e di questa scelta non potevo biasimarlo, in fondo ogni cosa accaduta quella notte è accaduta per colpa mia. Io solo dovevo essere punita. Io solo dovevo pagarne il prezzo. Il prezzo di quell’errore che ho compiuto, ma loro non dovevano farlo. Loro non avevano fatto nulla. Perché erano costretti a subire tutto questo. Io non volevo che si facessero del male. Non volevo che li facesse nulla.
Erano la mia famiglia. L’unica cosa che mi restava. Non potevo perdere anche loro, non me lo sarei mai riuscita a perdonare.

Ti prego, non permettere che accada di nuovo.

Chiusi gli occhi e li tenni premuti fortemente per un attimo. Feci una cosa della quale mi sorpresi. Una cosa che non facevo da tanto tempo e che avevo paura addirittura di fare nel modo sbagliato.
Pregai.
Pregai quel Dio lontano. Lo implorai, così come non avevo mai fatto in vita mia e una leggera lacrima mi scivolò giù per la gote finendo nel legno della sedia sulla quale ero costretta a sedere.
Forse la gente prega soltanto quando si trova in difficoltà. Quando il male che ha davanti è così grande da non riuscire a liberarsene. Quando è così potente che la tua forza non basta per fermarlo. Per questo preghiamo, per affidarci a qualcuno, come se tutto questo non ci facesse sentire soli. Come se ci desse sicurezza e non ci facesse cadere nell’abisso della disperazione.
A volte si prega soltanto per solitudine.
Una scura ombra mi si fermò sul viso. Mi passò attraverso e mi circondò le spalle, mentre pregavo quegli assurdi brividi di non farsi sentire, ma non ci riuscivo. Non riuscivo a fermarli. Non riuscivo a farli smettere. Volevo farlo, ma quel terrore mi soffocava l’aria. Quell’angoscia mi pugnalava crudele le membra e il cuore pareva ormai scoppiarmi nel petto.
Un freddo respiro mi alitò sul collo e un tremore mi percorse avido la spina dorsale. Un tremore così infido, così meschino, così dannatamente seducente ed eccitante mi sfiorò la pelle e un profumo dolce come il miele, ma letale come il veleno m’inebriò i polmoni.

“Hai paura, tesoro?”

Aprii gli occhi e mi scontrai con i suoi. Con quell’azzurro mortale privo di sentimenti. Con quel demone privo di vita. Con quel mostro privo di cuore, che ora mi restava davanti. Che ora pareva soffocarmi, mentre voci senza senso mi dilaniavano atroci la mente.

Lui è un vampiro.

Non lasciare che mi faccia del male.

Lui vuole uccidermi.

Paura. La paura non credo sia qualcosa che possiamo definire. Si dice che sia una delle prime sensazione che sentiamo. Una delle prime che proviamo, senza che ci venga in alcun modo insegnata.
Da piccoli temevamo il buio, ma in fondo ora le nostre paura non sono poi così diverse, perché i mostri alla fine sono sempre gli stessi, cambiano solo i volti con cui ci si presentano.
E adesso la paura doveva avere degli occhi di ghiaccio.
Abbassai la testa , mentre mi feci piccola in quella sedia, comprimendo la schiena su quel gelido legno.

“Il terrore ti sta divorando, riesco a sentirlo dilaniarti nel petto”. Il volto di Klaus si fece più vicino. Così dannatamente vicino, che riuscii a sentire il suo respiro sfiorarmi. “Rende tutto molto più affascinante, non credi?

Tremai. Tremai così forte che quasi un singhiozzo mi spezzò avido in gola. Lo sentii raschiare crudele ogni singola parte della mia pelle. La sentii sanguinare, mentre quelle gocce scarlatte mi raggiungevano il cuore.
Come poteva parlare così? Come riusciva a farlo? Come diavolo poteva essere così crudele?

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

Ma questa volta mio padre doveva essersi sbagliato. Perché non riuscivo a vedere nulla in quel volto di pietra. Non riuscivo a scorgere nessun sentimento. Nessuna emozione. Riuscivo solo a vedere un mostro. Un terribile mostro anche se lo guardavo negli occhi.
Ma se gli occhi erano davvero la finestra dell’anima, ero certa che lui ne fosse privo, perché se ne avesse realmente avuta una non avrebbe mai potuto mentirmi. Perché gli occhi non sono capaci di farlo.

“Non devi fare così, tesoro” disse lui, abbassandosi di fronte a me, come se si stesse mettendo alla mia altezza, come se mi stesse in qualche modo ritenendo importante, ma me lo stesse dicendo in un modo diverso. Un modo così distinto da quello che usava mio padre. Come se lo stesse facendo attraverso un gioco, uno stupido gioco al quale avrebbe sicuramente vinto.

“Dovresti essere fiera della tua paura” mi sussurrò sul viso, circondandomi il volto con le gelide mani, purché continuassi a guardarlo. “La paura è ciò che ti rende un’umana. Ciò che ti distingue da me”.

Freddo. Un immenso freddo mi avvolse con la sua pesante coperta, mentre quegli occhi di ghiaccio parevano scrutarmi, come se riuscissero a leggermi dentro. Come se riuscissero realmente a capire cosa stessi provando.
Io non riuscivo nemmeno a comprenderlo, come poteva lui riuscirci così bene? Come se non gli risultasse il minimo sforzo. Come se conoscesse i miei segreti, le mie profonde paura, i miei punti deboli e giocasse ironicamente con loro come se avesse già vinto.
Ma perché lo faceva? Perché sembrava divertirsi così tanto? Perché doveva fare tutto questo proprio a me, infondo io non gli avevo fatto nulla.

Saprai solo quello che ti concederò di sapere, nulla di più.

Forse arrivare a questo punto era già stata una sua scelta. Forse tutto quello che avevo saputo nelle ultime ore era già stato programmato. Forse ogni singolo giorno della mia vita era già stato deciso e io non avrei potuto far nulla per cambiarlo.
Il fato è il fato e qualora cercassimo di modificarlo sarebbe inutile, perché il cambiamento era già stato previsto.
Era stato previsto da lui. Da quell’angelo dagli occhi di ghiaccio. Da quella mostro. Da quel demone, che pareva padrone del suo destino e di quello degli altri.
Come potevo andar contro ad una belva del tempo? Come potevo salvarmi da quel suono immortale che scandiva attimi eterni ogni volta che gli stavo vicino, ma soprattutto come potevo salvare le persone che amavo da una fine prevista?

“Perché lo fai?” Gli domandai con la testa china. Gli domandai quasi piangendo. Domandai a quel mostro il motivo per cui non mi lasciasse in pace, ma quello che ricevetti come risposta fu soltanto una sonora risata.

“Perché mi annoio, amore” asserì divertito, avvicinandosi ancora di più a me, tanto che dovetti comprimere la testa allo schienale per non scontrarmi con  il suo viso. “L’immortalità comporta qualche difetto, lo sai?”

Sussultai. Come poteva parlare sul serio? Come poteva aver fatto tutto questo solo perché si annoiava? Come poteva essere così meschino?

Lui è un vampiro.

Lui era un mostro.

Lui era una bestia. Non aveva nulla di umano.


“Sta lontano da me!”

Urlai. Urlai con tutta la forza che avevo in corpo. Con tutta quella rabbia che mi soppesava sul cuore. Con tutto quell’odio che mi ero accorta di provare. Che mi ero accorta di sentire per la prima volta.
Il volto pallido di Klaus rimase immobile, impassibile. Come se le mie parole non l’avessero scalfito minimamente. Come se nessuna emozione lo stesse attraversando. Come se non gliene importasse nulla di tutto quell’odio che avevo riversato nei suoi confronti. Come se non gli importasse niente di nessuno al di fuori di sé stesso.

“Non dovresti essere così scortese con un ospite” mi disse, allontanando di poco il viso dal mio purché io riprendessi a respirare. “I tuoi genitori sono morti prima d’insegnartelo?”

Rabbia. Una massa informe di rabbia mi pervase il cuore. La sentii fluirmi addosso come il sangue che scorreva copioso nelle vene. Come quell’odio che mi gridava avido nella mente e mi avvelenava l’anima. Come quella ferita che devastante mi offuscava la ragione.
Non mi resi neanche conto di quello che feci. Non mi accorsi neanche di quello che provai. Di quello che sentii esplodermi nel petto, attraverso tutta quella forza che non avrei mai pensato di possedere.
Volevo solo ferirlo. Volevo ferirlo come lui stava facendo con me.
Non vidi nemmeno la mia mano partire fulminea verso il suo viso. Forse non riuscii nemmeno a controllarla. Non riuscii a fermarla. Quella rabbia era così grande, così potente che se non l’avessi espressa in qualche modo ero certa mi avrebbe uccisa.
Ma qualcosa me la fermò. La fermò ancor prima che arrivassi a toccarlo. Ancor prima che quel gesto mi facesse pentire. Ancor prima che potessi rendermi conto di quello che stavo per fare.
Un forte dolore mi pervase la pelle. Mi entrò avido nella carne, raggelandomi fin dentro le viscere. Un dolore così meschino. Così effimero, ma così necessario che quasi arrivai addirittura a volerlo.
Una forza troppo potente per riuscire a sottrarmene mi attirò a sé, mentre la sedia sulla quale ero seduta cadde all’indietro, provocando un sordo tonfo che si disperse nell’aria.
Mi ritrovi in piedi così vicina a lui. Così vicina al mio incubo. Vicino a quegli occhi di ghiaccio di una persona immortale. Di una persona eterna che trasmetteva solitudine e che m’investiva con la sua incredibile furia.

“Sono qui sulla Terra da tanto tempo, Alba” mi disse stringendo avidamente la mia mano in un punto in alto al di sopra della sua testa. “Conosco l’umanità meglio di quanto tu possa immaginare”.

La sua voce era fredda. La sua voce era cattiva. Così gelida ed impassibile che non trasmetteva nulla di umano.
La sua voce era la voce dell’indifferenza. Di quell’indifferenza peggiore dell’odio stesso.
Il mio viso si trovava ad un soffio dal suo, piegato su di me in modo che non ci separasse un’immensa distanza. La sua mano stringeva ancora crudelmente la mia e quella fitta era così forte. Così maledettamente possente da farmi male. Dio quanto faceva male.
Quel dolore era immenso. Così infido che sembrava dilagarsi su tutto il resto del mio corpo tremate. Io non riuscivo a fermarlo. Non riuscivo a farlo smettere, perché io non ero nulla in confronto. Io non valevo nulla. La mia forza paragonata alla sua era completamente e totalmente…inutile.

“Non ci sarà mai una battaglia equa tra di noi, tesoro” mi disse sfiorando le sue labbra con le mie e quella fredda linea sulla mia pelle parve gelarsi all’istante. “Saresti fuori gioco ancor prima di emettere un solo respiro”.

Il suo viso abbandonò il mio e si avvicinò lentamente al mio collo. In quell’esatto punto in cui il cuore palpitava sotto la mia pelle e quel battito irregolare pareva farlo rivivere, così come era successo nel bosco, ma quella volta si era fermato. Era riuscito a farlo, nonostante probabilmente gli fosse risultato molto difficile.

Il tuo sangue ha un profumo così…dolce.

Chiusi gli occhi e lo aspettai. Aspettai in silenzio quel morso a cui ero già scampata troppe volte. Lo aspettai come se fosse già stato deciso. Come quell’evento in natura fosse già stato scritto, ma lui non arrivò mai.
La sua mano abbandonò la mia così velocemente che caddi all’indietro, non potendo più fare affidamento sulla sua incredibile forza.
La sua alta figura mi restava davanti e mi guardava dall’alto con disprezzo, sapendo che se avesse voluto in qualche modo farmi del male, non avrei potuto far nulla per combatterlo e quel suo arrogante atteggiamento ne era la prova.

“Sarò sempre un passo avanti a te, faresti meglio a ricordarlo”.

La sua voce parve un sussurro, mentre si avvicinava glaciale verso di me, abbassandosi su quel pavimento su cui ero caduta senza forze.
Voltai la testa. Non volevo guardalo. Non volevo ascoltarlo. Volevo che se ne andasse. Volevo che mi lasciasse in pace. Ma lui non cedeva e continuava a farlo come se si stesse divertendo. Ma come poteva considerare tutto questo un gioco? Come diavolo ci riusciva? Come poteva avere una così bassa considerazione della vita? Possibile che non fosse mai stato umano?

“Dovresti mostrarmi un po’ più di rispetto, amore” asserì glaciale Klaus, sorridendo avidamente sui miei capelli. “Infondo la loro vita è nelle mie mani”.

Li guardai. Guardai i loro visi. I volti indifferenti dei miei zii come se non si fossero accorti di nulla, mentre silenziosi finivano di preparare la tavola, come se fosse un giorno comune. Un giorno qualunque come tutti gli altri e che andava normalmente avanti divorato dal tempo.
Ma come potevano essere così ciechi?
Come potevano non accorgersi di quello che stava accadendo intorno a loro?
Come potevano non vedere quel mostro che ci stava divorando?

“Cosa hai fatto?”

Gli chiesi in un sussurro, non guardandolo negli occhi. Non guardando quell’azzurro di cui erano dipinte le iridi. Quell’azzurro freddo come il ghiaccio e limpido come il cielo. Lo stesso cielo che guardavo quel giorno con mio nonno. Quel cielo terso così bello e splendente che non si poteva non ammirare.


Le cose belle le riconosci. Sono quelle che a un certo punto non capisci più se fanno bene o male.

“Gli esseri umani sono creature vane che vivono solo nello spazio di un istante” mi rispose, avvicinandosi pericolosamente al mio orecchio, tanto che quei tremori, che mi scorrevano loquaci per tutto il corpo divennero più forti. “Credi sia difficile controllare la loro mente. Sedurre il loro spirito?”

No!

Non poteva riuscire realmente a farlo. Dannazione, non poteva dire sul serio. Non doveva.
Come diavolo era possibile controllare la mente di una persona? Come era possibile prendere le decisioni per lui? Come poteva trattarci come se fossimo dei semplici burattini? Dei corpi vuoti senza un’anima?
Lui era quello senza cuore. Lui era quello senza anima. Noi non dovevamo essere come lui, ma perché riusciva a costringerci? Perché riusciva così bene a farsi ascoltare?
Se le nostre decisioni non sono nulla cos’è che ci rende ancora umani? Cosa ci rende ancora vivi? Cos’è che non ci distingue dalle bestie? Cos’è che ci distingue da lui?
Se persone come Klaus potevano soggiogare le nostre menti come potevano le nostre esistenze definirsi reali?
Come poteva anche la mia essere tale?
Forse quello che ha fatto a loro lo stava facendo anche a me. Forse i miei pensieri erano controllati da lui. Forse era per questo che riusciva così bene a comprendermi, perché era lui stesso a decidere al mio posto.
Forse la persona in quella stanza non ero nemmeno io, ma qualsiasi persona fosse stata. Qualsiasi mente fosse a decidere. Chiunque fosse stato a prendere quelle scelte che definiscono ciò che siamo, ciò che siamo stati o ciò che diventeremo. Chiunque fosse stato lì adesso proprio in questo momento aveva un unico e solo uno scopo: Non li avrebbe mai lasciati morire.
Non l’avrebbe mai permesso. Perché non potevo perdere anche loro, altrimenti avrei perso anche me stessa e di certo, conoscendomi, non mi sarei mai più ritrovata.
Mi avrebbe distrutta. Quell’immensa solitudine mi avrebbe devastata. Non sarei diventata come Klaus. Non avrei passato il resto della mia vita da sola, senza nessuno che mi ami.
Non poteva ferirli, perché io l’avrei fermato. Giurai a me stessa che l’avrei fatto, anche se fossi stata io a dover morire non m’importava. Loro non sarebbero morti a causa mia, perché non avrei potuto sopportare che accadesse di nuovo.
Questa volta sarebbe stato diverso. Questa volta il finale sarebbe cambiato. Sarei stata io a modificarlo anche se avessi dovuto andare contro il mio stesso destino.

“Non puoi far loro del male” sussurrai a denti stretti, mentre quel soffio flebile mi uscì dalle labbra e si disperse fragile nell’aria, che lui pareva governare. “Non puoi farlo”.

“Andiamo, tesoro. Certo che posso”.

Le sue labbra rosse si aprirono in un terribile sorriso. In un ghigno così scaltro e crudele da farmi tremare. Da far tremare ogni singolo nervo del mio corpo. Ogni singola parte di me stessa, ma la paura questa volta non avrebbe prevalso. Io non l’avrei permesso.
Non avevo idea di come farlo, ma l’avrei fermato, perché il mio odio per lui era ben superiore al terrore che mi provocava e quando un sentimento è così potente è capace di distruggere.
Forse quella era la mia carta da giocare. Forse era proprio il mio odio a darmi quel vantaggio. Lui non provava sentimenti, ne ero certa, quindi non poteva sentire tutto quel dolore e quella frustrazione che solo gli umani erano capace di provare. Quella era la mia unica forza, ma poteva essere al contempo la mia più grande debolezza e lui pareva averlo capito, infatti giocava con lei, come il gatto fa con il topo.
Ma non gli avrebbe mai fatto del male.
Il volto impassibile di Klaus attirò il mio, mentre i suoi occhi non mi permettevano di separarmene, come se avessi bisogno di loro. Come se nonostante tutto avessi bisogno di lui e il suo sguardò affondò nel mio come un qualcosa di simile ad una sfida.

“Vuoi una prova?”

La sua voce mi arrivò in un sussurro che quasi non riuscii a comprendere, ma prima che provassi anche solo a farlo lui si alzò in piedi con una velocità disumana, la stessa che forse aveva usato quella notte per salvarmi da quell’auto in corsa. Quando credevo ancora che fosse umano. Quando credevo ancora che fosse vivo.

Lui è un vampiro.

La sua immagine si voltò velocemente verso quella dei miei zii ancora imprigionati nell’improvviso silenzio tombale di quella stanza. Un silenzio così assoluto che faceva paura. Un silenzio così tetro che sembrava piangere.
Un silenzio rotto soltanto dai battiti incessanti del mio cuore, che sembrava scandire un tempo eterno insieme ad un orologio invisibile, nascosto nell’immortalità di quell’attimo.

“Perché cara non fai quello che ti ho chiesto gentilmente di fare?”

La voce di Klaus parve irreale, quasi invisibile, mentre ogni singolo istante che avvenne dopo parve non essere vero. Come se tutto questo mettesse in discussione la mia intera esistenza.
Mia zia si avvicinò lentamente al tavolo senza proferire parola, senza neanche respirare come se non fosse viva, ma fosse un giocattolo nelle mani di un bambino viziato. Come se non avesse scelta che seguirlo. Come se non potesse non ascoltarlo. Come se le sue decisioni e i suoi pensieri avessero smesso di essere importanti.
Prese tra le mani un affilato coltello e se lo avvicinò rapidamente alla gola.

No!

Non poteva farlo.

No!

Non poteva farlo sul serio.

Scattai in piedi, senza avere neanche la forza di farlo. Senza avere la lucidità di rimanere eretta. Senza neanche sapere cosa fare o cosa dire.
Io non sapevo nulla.
Dannazione, non sapevo cosa fare.
Corsi velocemente verso di lei. Verso quella figura che pareva troppo lontana. Verso quel coltello che le stava tagliando avido la pelle, mentre tutto quel sangue aveva cominciato a scenderle effimero giù per il collo, macchiandole infido i vestiti, ma qualcuno non me lo permise. Mi prese per un braccio e arrestò quella mia patetica corsa, in così poco tempo.
Qualcuno con una forza maggiore alla mia. Qualcuno con una forza superiore, ma nonostante tutto con una forza umana.
Mi voltai e l’immagine indifferente di zio Enry mi bloccava la strada. Mi negava la libertà, mentre quegli occhi privi di vita mi guardavano indifferenti. Mi guardavano impassibili, mentre non mi permettevano di aiutare la donna che amava. Mentre negavano l’aiuto alla madre di suo figlio.
Come poteva Klaus essersi spinto così oltre?
Come poteva essere così privo di cuore?
Come riusciva a farlo? Come riusciva a non sentire il pianto di Joseph nella culla al piano di sopra, mentre ascoltava i lamenti di sua madre morire?
Come diavolo riusciva ad essere così indifferente?

“Falla smettere” urlai, mentre quelle effimere lacrime mi bagnavano le guance, mentre quei singhiozzi non mi permettevano di parlare.
Non riuscivo a farlo. Non riuscivo a salvarla. Non potevo. Dannazione, perché ero così inutile?

Come potevo aver permesso che succedesse di nuovo?

Dio, se esisti non lasciarla morire.

Ma quell’assurda preghiera mi spezzò il cuore. Perché nessuno al mondo mi avrebbe aiutata e la consapevolezza di essere sola mi stava scivolando addosso come il suo sangue scarlatto.

“Ti prego Klaus, farò tutto quello che vuoi” dissi con la voce rotta dal pianto. Da quel pianto che dipingeva avido le pareti di una casa senza tempo. “Ti sto implorando”.

Poi successe in un attimo, così velocemente che neanche me ne resi conto. Così improvvisamente da non sembrare nemmeno reale.
L’immagine di Klaus affiancò quella di mia zia e le tolse di mano il coltello sporcò del suo sangue.
Lei era viva. Lei era ancora viva. Il taglio non era profondo. Klaus l’aveva fermata in tempo e con estrema grazia si era avvicinato al suo viso sussurrando parole che non riuscii a comprendere. Parole glaciale che avevo paura le congelassero l’anima.
Poi la vidi sparire dietro la porta della stanza e con lei anche l’immagine indifferente di mio zio.
Non riuscii a trattenere un sospiro. Quel sospiro di sollievo che m’invase i polmoni, mentre quell’aria che per troppo tempo mi ero negata ora era libera di riempirmi il corpo, ma non era ancora finita. Non era ancora finita perché c’era ancora lui.

Non lasciare che mi faccia del male.

Lui è un vampiro.

Vidi la sua immagine avvicinarsi lentamente alla mia, mentre tra le mani teneva stretto ancora quell’affilato coltello intriso di rosso.
Le sue dita passarono sulla sua superficie e si macchiarono di quel scarlatto che ero certa non sarebbe mai sparito e se lo portò alla bocca carnosa.
La luce del sole pareva tramontare in quel cielo azzurro, mentre i suoi caldi raggi penetrarono dalla finestra, illuminando la stanza. Illuminando il suo viso. Illuminando gli scuri lineamenti della sua figura, rendendola così simile ad un angelo. Ad un angelo con la morte nello sguardo e con il sangue sul cuore.

“Adesso che ho la tua attenzione” mi disse, avvicinandosi pericolosamente al mio immobile corpo. “Che ne dici se facessimo una chiacchierata solo io e te?”

Il suo volto era così vicino al mio che riuscii a vedere la mia immagine riflessa nelle sue iridi. Nei suoi occhi chiari incapaci di riflettere la sua anima. Forse perché doveva essere talmente corrosa dai peccati da non possedere più alcun tipo di sentimento. Nessun emozione, ma solo freddo ed impassibile nulla. Lo stesso nulla che ora mi parlava con estrema minaccia.

“Abbiamo così tanto di cui parlare, tesoro”.




Buongiorno a tutti :)

Spero vivamente che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, anche se mi rendo conto che è un po' piatto, ma vi anticipo che nel prossimo cercherò di mettere un po' di colpi di scena, anche per mandare avanti questa lentissima storia, per farla ridultare un po' meno pesante e noiosa.

Ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono in silenzio, che recensiscono la fanfic e che l'hanno inserita tra le preferite/seguite/ricordate . Grazie davvero di cuore per avere avuto la pazienza di arrivare fin qui, per me significa davvero molto. 

Vi ricordo che la bellissima immagine in alto non è opera mia, ma di Elyforgotten che ringrazio infinitamente. Vi consiglio anche di andare a leggere le sue fanfic su Elijah che meritano davvero tanto.

Non penso di pubblicare la settimana prossima, molto probabilmente lo farò quella dopo, salvo imprevisti e spero che il capitolo sia un po' più esaltante di questo.

Un bacio a tutti. Ciao e alla prossima!!! :)
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: _maya96_