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Autore: kk10    06/04/2013    0 recensioni
Alle prime luci dell'alba di un mattino d'inverno, muore l'amato Re del potente regno di Fennor. L'eredità del sovrano ricade nelle mani di un quattordicenne: suo figlio, il principe Jentred.
Ma questo è soltanto l'inizio di ciò che sta per succedere. Nella notte dell'Incoronazione del Principe, qualcosa minerà la sicurezza e la vita di ogni abitante del reame, qualcuno minaccerà la distruzione completa di Fennor.
Riuscendoci in parte.
30 anni dopo, la speranza di vittoria per il regno di Fennor e i suoi abitanti rinascerà di nuovo tra le mani del giovane Nicholas, nel modo più impensabile, grazie all'ausilio di un'antica e misteriosa leggenda.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Prologo        

L’INIZIO E LA FINE

 

Era una notte gelida, come il freddo pungente in alta montagna quando imperversa una terribile bufera di neve. 

Il cielo era scuro, e neppure la luce della luna filtrava dalla coltre di spesse nubi che si estendevano fino dove l’occhio poteva scrutare. La nebbia, riversandosi nella grande vallata, nascondeva le grandi montagne, e solo le loro cime più alte riuscivano a farsi strada in quel denso strato compatto. Un velo di bianco ricopriva tutto il paesaggio: la prima nevicata della stagione era caduta quel pomeriggio, anche se poteva essere considerata solo come il preavviso di una nottata in cui la dama bianca sarebbe stata protagonista, come il cielo lasciava presagire. Le alte vette si stagliavano intorno alla valle, mentre le luci del paese si illuminavano a poco a poco. 

La ridente cittadina di Ravelbow si preparava alla grande festa. 

Era da molto che si aspettava quel momento. Il re di Dothran era recentemente caduto preda di una malattia incurabile e il figlio avrebbe dovuto succedergli di lì a poco. 

Per il suo male, re Alexader si era spento nelle ultime ore di quella notte di mezz’inverno: tutto il regno si rammaricava per la sua morte prematura. Fu così che proprio poche ore dopo, nel castello sul monte che dominava il paesino, sarebbe stato incoronato il nuovo sovrano: egli avrebbe regnato su quella bellissima terra, su quella regione chiamata Dothran. 

Questa appariva come una vallata estesa, felice e rigogliosa: la regione di Dothran si identificava con il lembo occidentale di un antico regno, il più splendido che il mondo avesse mai visto, il regno di Fennor. Un reame incantevole, dove la vita scorreva serena e immersa nella magia. Colui che avrebbe regnato su Dothran, sarebbe stato pure il signore di Fennor e di tutte le terre che esso comprendeva. 

Tutto ciò ricadeva nelle mani di un timido e introverso quattordicenne, il principe Jentred. 

Quando all’alba i tristi rintocchi dell’orologio del castello erano giunti alle orecchie di tutti, il popolo aveva capito che era successo qualcosa all’amato re Alexander: quasi tutti gli abitanti di Ravelbow erano accorsi nella grande piazza antistante alla reggia e guardavano, chi piangendo e chi sperando, la fievole luce di candela che tremava dietro una delle finestre della camere reali. Ad un tratto, come se la natura avesse voluto dare un segno, il cielo si era rabbuiato e fievoli fiocchi di neve iniziarono a cadere dal cielo. Fu allora che la luce nella camera si spense. Il re era morto. Alexander aveva quarant’anni: la sua agonia finì e, andandosene via, essa si portò con se il benvoluto sovrano. 

Subito il consigliere di corte si era affacciato dal balcone principale della facciata del sontuoso edificio e, visibilmente commosso, parlò come usanza: "L’amato re di Dothran Alexander si è spento all’alba di questo triste giorno, ed il suo popolo sempre sarà con lui! Questa sera stessa, per volere di sua maestà, sarà incoronato il piccolo principe: popolo di Fennor, accogliete il vostro nuovo Re!". La folla accorsa seppe trovare la forza di acclamare con gioia l'avvento dell'erede, mettendo da parte i pianti e i sospiri. 

E intanto, in quelle ore che lo separavano dalla notte della sua incoronazione, il principe in questione aspettava nella torre più alta del castello, guardando il panorama della vallata innevato, piangendo silenziosamente.

 

L’umidità aumentava man mano che il tunnel si inoltrava nelle viscere della terra. I muri di quell'angusta galleria erano fatti di pietra massiccia e grezza, sulla quale vi cresceva prosperoso del muschio, ed erano rigati da striature verdi dovute all’acqua creata dall’umidità, che li corrodeva lentamente. Gli anni e l'aria ristagnante avevano fatto sì che il passaggio segreto fosse andato in rovina. 

Il tunnel pian piano iniziò a risalire, e le due figure si sentirono molto meglio: la prima, più alta e magra, avanzava a passi più svelti, mentre l’altra, minuta e gobba, camminava lentamente.

«Sai cosa Warner?» disse una voce metallica. «Penso che manchi davvero poco, finalmente.»

«Ne sono davvero felice, padrone!» rispose il piccolo gobbo Warner, affaticato.

«E finalmente la mia vendetta si potrà compiere ed il mio piano potrà avere inizio. Il tempo che ho passato nelle prigioni di palazzo è sembrato infinito, ma mi è servito a rafforzare la mente e soprattutto ad escogitare il metodo migliore per attuare i miei propositi: mi ha permesso di programmare la loro fine. Ora tutto è pronto, tutto avrà inizio da stasera e...»

«...e tu sarai il padrone di tutto!» concluse Warner soddisfatto.

«Esatto, esatto. Poveri Ravelcrow, speravano forse di sbarazzarsi di me mettendomi in prigione? No, non ce l’hanno fatta. Potevano rinchiudermi tra le mura più spesse mai costruite, potevano legarmi con le catene del metallo più resistente mai forgiato: niente può porre un freno a me, al mago più potente che sia mai esistito. Che illusi, loro che non conoscono la fine che li attende. Non sanno con chi hanno a che fare! Nessuno può prendersi gioco di me!»

Questi suoi pensieri, colmi di rimorso e di desiderio di vendetta, non facevano altro che aumentare la sua fonte di potere: la catena intorno al suo collo iniziò a raffreddarsi, diventando gelida come gelido era il suo cuore. Il ciondolo, con la sua pietra rossa incastonata, pesava, ma tuttavia riusciva a sopportarlo. La pietra da rossa era ormai diventata marrone scuro, esprimendo tutto il suo odio: la pietra mutava a seconda dei sentimenti e delle intenzioni del suo proprietario... Il Rubino del Fuoco mutava il suo colore: tutto stava per cambiare.

«Intravedo la luce!»

Ed infatti il tunnel era terminato. 

Una porta rotonda, dalla forma bizzarra, si trovava alla fine dell'oscura galleria, e dalle sue fessure filtrava una tenue luce verde. Warner la aprì, seguito dal suo padrone: il gobbo attraversò facilmente il piccolo passaggio; ma l'altro uomo, per via della sua statura più alta e dei suoi lunghi vestiti logori, faticò a passarci. I loro piedi poggiavano ora su un pavimento marmoreo. Alzarono gli occhi e videro, poco distante da loro, una vorticosa scala a chiocciola che saliva: il passaggio segreto non era ancora finito. 

I due iniziarono la risalita, che si presentò più lunga del previsto, immersi in una tenue luce verdastra che riempiva l'intero androne. Stavano risalendo verso la superficie e l’umidità lasciò il posto ad un’aria molto più fredda e asciutta. Intuirono di aver decisamente superato il livello del suolo. Ma la scala non dava ancora segno di conclusione. 

«Devo ammettere, mio caro Warner, che gli anni in prigione mi hanno fatto perdere un po’ della mia tenuta fisica!»

Continuarono ad avanzare finché finalmente, dopo un tempo parso interminabile, videro l’attesa porta d'uscita. Warner, dall’animo più che curioso, si sporse dalle scale per vedere a che altezza si trovavano. Il buio sotto ai loro piedi, al di là della ringhiera che costeggiava i gradini, era denso e profondo: erano decisamente in alto. Rabbrividì al sol pensiero di un tuffo in quel vuoto.

Si accorse subito che il suo padrone era agitato, in un misto di frenesia e ansia: era giunto il momento. Aprì la porta. 

Il varco che si creò rivelò un'ulteriore sala. Aveva una forma perfettamente rotonda, e su di essa si affacciavano otto porte ed altrettanti quadri, tutti esattamente identici tra di loro. La porta da cui erano entrati si richiuse alle loro spalle. Erano giunti nel luogo desiderato, e adesso il mago sapeva cosa fare.

Lontano appena pochi passi da dove si trovava, appoggiato su di un mucchietto di paglia in terra, vide il foglio di pergamena che cercava. Era logoro e ingiallito, così vecchio che poteva benissimo risalire all'epoca della costruzione del castello. Una volta preso tra le mani, fece attenzione a non romperlo, sebbene l'emozione e l'adrenalina che in quel momento invadevano il suo corpo lo tradirono, e andò a ledere uno dei fragili angoli del manoscritto. Per fortuna il danno non arrivò ad incidere sulla parte scritta, dove una calligrafia morbida e rotondeggiante riempiva elegantemente lo spazio a sua disposizione. Lo stregone lesse quindi l’enigma contenuto in quelle parole: conosceva già la soluzione. Fissò là dove sapeva che avrebbe dovuto guardare, per vedere la soluzione. Aprì quindi una delle otto porte: si rivelò la scelta giusta. 

Vi entrò e scorse un semplice tavolino posizionato al centro della piccola stanza: esso cominciò ad emanare un forte bagliore verde, che prese a vibrare e brillare sempre più, finchè non si creò un vortice d'aria e luce. Il vortice iniziò a girare sempre più forte: al suo interno, il mago vide ciò che voleva e doveva vedere. Il verde intenso dell'erba... il blu del cielo stellato... il rosso del fiamme più vive... le sfumature iridescenti dei riflessi dell'acqua... le Pietre... i regni... una vittoria assicurata... la sua vittoria. Riuscì a prendere al volo una fiala che il furioso getto vorticoso gli offrì, mentre si faceva sempre più difficile restare in piedi, tanta era la potenza delle correnti di vento che riempivano la stanza. 

D'un tratto tutto cessò. L'uomo uscì di lì e, di nuovo nella stanza rotonda, notò assieme al suo fidato aiutante che una delle otto porte era adesso aperta: trovò quindi la via d'uscita. 

Era finalmente dentro il Castello dei Ravelcrow. E quella sarebbe stata l’ultima sera che si sarebbe chiamato così, com’era vero che il suo nome era Sedun Rosolf.

 

Forse perché l'evento era così tanto atteso o forse perché le cose quella sera dovevano essere fatte in grande, fin dal primo pomeriggio erano iniziati i preparativi per l'imminente Festa dell’Incoronazione. Non sarebbe stata solo la reggia ad essere adornata a festa, ma anche il borgo. 

Ravelbow era il piccolo ed unico centro abitato della vallata, capoluogo del reame di Dothran. Si trovava ai piedi di un monte erto ed elevato, che si ergeva nel mezzo della valle: un aspro sperone roccioso chiamato Ghilduin, come l’antico popolo degli Uomini dell'Ovest definiva la parola “incudine”, per via della sua forma, che ricordava quella dell'incudine di un fabbro. Sulla cima di questo picco era stata eretta la dimora reale, collegata al piccolo paese da una strada pietrosa e ripida. Ravelbow era una ridente cittadina, che amava il suo Re e la sua Famiglia. 

Circondata da muri di cinta, il paese era un punto di ritrovo per le vie di Fennor dall’Est verso l’Ovest. La strada principale, dove si affacciavano numerose casette colorate fatte di mattoni e legno, era sempre transitata: c’era chi doveva comprare il pane caldo o il latte fresco, chi andava a cercare un libro in biblioteca, chi si recava dal fabbro per far riparare i cardini delle vecchie porte cigolanti, e chi passeggiava per puro piacere. 

Ravelbow era un posto tranquillo, dove la vita trascorreva serena, in un’atmosfera di semplicità, calma e cordialità.

In quella triste giornata le botteghe e tutti gli altri edifici pubblici sarebbero stati chiusi per lutto cittadino, onorando la recente scomparsa del sovrano. Ma già nelle prime ore del pomeriggio, con il sole che, nascosto dietro la fitta coltre di nubi, illuminava il paesaggio con una debolissima luce, i paesani avevano iniziato ad addobbare tutti i portoni, i balconi e le finestre delle proprie abitazioni con mazzi di fiori, che riempivano l'aria del loro inebriante profumo. Un segno di forza comune nel tentativo di risollevarsi da quello che era accaduto e, allo stesso tempo, di guardare al futuro nel miglior modo possibile. 

Sebbene ancora echeggiassero nell'aria i sordi rintocchi che poche ore prima avevano segnalato al popolo il decesso del caro re, tutto il paese aveva adesso un’aria di festa: la Cerimonia che si stava per celebrare era un evento molto sentito e davvero importante, e tutto doveva essere perfetto.

Intanto il castello, che già di per sé era incredibilmente sontuoso, con le sue mura candide e i suoi tetti vermigli, appariva magnifico agli occhi di chiunque avrebbe avuto la fortuna di entrarci, in quella notte di festeggiamenti. 

Tutti gli interni erano addobbati di fiori freschi; le rifiniture d’oro e argento puro, che percorrevano le pareti creando giochi di intrecci e ghirlande meravigliosi, erano state lucidate. Tutto splendeva e sapeva di magico. I grandi saloni erano stati fatti ritornare più splendenti che mai: le enormi finestre, alte più di un albero, erano state ornate con maestose tende verdi e oro. Il pavimento brillava come uno specchio. La servitù passava di corridoio in corridoio indaffarata: tutti erano vestiti elegantemente, come gli ospiti che sarebbero arrivati alla Festa. Dalle cucine arrivavano aromi da togliere il respiro. Il castello era un cantiere.

 

Ogni cosa era assolutamente perfetta nella reggia e tutti erano entusiasti e felici, tranne una persona. 

Salendo su per le scalinate che percorrevano le alte torri, mentre la luce del giorno si imbruniva sempre di più, si giungeva agli appartamenti reali, ed era lì che si trovava il principe prossimo all'incoronazione. 

Il suo viso aveva bei lineamenti, incorniciati dai capelli biondi, del colore dell'oro; i suoi occhi erano profondi, verdi come uno smeraldo, con riflessi celesti come il cielo primaverile. Ma il suo volto era rovinato dalle lacrime che ancora gli rigavano le guance. 

Non riusciva a trattenerle, non riusciva a smettere, non riusciva a capacitarsi di quanto accaduto. Guardava il grande quadro appeso alla parete, che raffigurava lui e suo padre, ritratti all'aperto in una solenne posa eroica: ma si ricordava fin troppo bene le risate che li colsero proprio quando un'ape tentò di pungere il pittore che era intento a completare l'opera. 

Si ricordava tanti momenti divertenti come quello, passati con il suo amato padre. Ebbe la forza di abbozzare un sorriso ripensando a tutto ciò; ma la sofferenza era più forte e opprimente in quel momento, e il sorriso svanì ancor prima di potersi distendere sul suo morbido viso. Il dolore gli annebbiava anche i ricordi più belli. Così stringeva ancor più forte al suo petto un disegno che lui stesso aveva realizzato qualche anno prima, nel tentativo di emulare la grande opera dell'artista di corte. In quella pagina bianca, dove delle semplici linee nere delineavano i contorni di due figure vicine (che poco avevano della maestosità e dei virtuosismi di stile della tela), il principe e suo padre potevano ancora darsi la mano, parlare, guardarsi, stare insieme, come se niente di tanto oscuro come la Morte si fosse mai interposto tra di loro. Ma il disegno non era come la realtà. 

Il preziosissimo vestito dell’incoronazione gli era stato appena provato. Mancava davvero poco. 

Ma ancora piangeva. Piangeva, come il cielo in quel momento. Stava iniziando a nevicare di nuovo. Jentred aveva sempre amato la neve, ma era talmente sconvolto che non riuscì neppure a farci caso. 

Continuava a domandarsi come tutto potesse essere successo in così poco tempo: la morte del padre, la sua prossima incoronazione come Re di Fennor... 

Portò una mano al collo, toccando delicatamente l'opulento medaglione che da poche ore portava al collo. L'oro con cui era forgiato risultava gelido al tatto, come il levigatissimo Smeraldo che vi era incastonato. Appena il sovrano aveva esalato l'ultimo respiro, sua madre, la regina Sophia, aveva tolto il ciondolo dal collo del re defunto e lo aveva fatto indossare al principino ancora in lacrime. Era il simbolo del supremo potere di suo padre, che veniva passato nelle sue giovani mani. 

E gli pesava terribilmente, fisicamente e psicologicamente.

Ancora immerso nei suoi pensieri, il principe vide la porta del suo appartamento aprirsi.

«Venga, altezza!» lo incitò la dolce voce della sua anziana badante, la signora Welin. «Tutto è pronto. Manca solo lei da preparare!»

«Eccomi» rispose Jentred, asciugandosi il volto dalle lacrime e cercando di apparire il più felice possibile. Ma Welin lo conosceva fin troppo bene, lo accudiva da quando era nato.

«Tutto andrà per il verso giusto, non si preoccupi!» lo confortò, abbracciandolo teneramente.

All’improvviso ciò che Jentred aspettava con timore accadde: l’orologio della torre ovest del castello suonò le ventuno con i suoi assordanti rintocchi. Rimase immobile per qualche istante, poi poggiò sul letto il disegno a cui era tanto affezionato. Doveva andare.

«Si sbrighi su, siamo già in ritardo!»

Adesso tutto era davvero pronto per la Festa. 

 

La pesante porta si richiuse cigolante dietro i due. Da quelle parti non c’era nessuno: tutti erano indaffarati nei loro lavori di preparazione della serata nei piani più in basso, non certo nelle torri. Tutto era avvolto dalla penombra, ma si distingueva chiaramente il lusso del palazzo e dei suoi arredi. 

Mentre i loro occhi si adattavano al buio, Sedun e Warner sobbalzarono nell'udire i rintocchi del grande orologio del castello. Nove rintocchi sordi. Era l’ora, la Cerimonia dell'Incoronazione stava per iniziare. L’inizio della fine, la fine dell’inizio. E l’ampolla tra le mani del mago ribolliva: la sentiva calda, la sentiva viva.

Poco distante da loro, un portone si aprì. Colto di sorpresa, non aspettandosi nessuno in quell'ala della reggia, Sedun si affrettò a pronunciare sottovoce una strana formula magica e lui e Waerner divennero invisibili. Nessuno li poteva vedere, adesso erano al sicuro. 

Ma il mago non andò via di lì, si mise anzi ad osservare la scena. Una flebile luce proveniente dalla stanza illuminava adesso il buio corridoio. Dalla porta uscì un’anziana donna, seguita da una figura giovane, elegante, ed incredibilmente triste. 

“E così dev'essere quello il principino fortunato!”, bisbigliò il gobbo.

“Esattamente”, rispose il mago.

Il principe si soffermò per un attimo, e si voltò in direzione di Sedun. Lo stregone rimase immobile a guardare. Certo, il giovane non lo vedeva, ma sembrava che tra i due si fosse appena stabilito un contatto: non puramente visivo, qualcosa di più profondo. 

E fu in quel momento che Sedun sentì una sensazione strana: avvertì il suo medaglione diventare caldo, e lo vide illuminarsi debolmente. 

Il Rubino del Fuoco rinacque. Il primo. Sotto la giacca del principe, allo stregone parve di vedere un bagliore verde. Tremò. Poteva mai essere? Non poteva, non doveva essere così.

 

Bruciava. Bruciava terribilmente, come se delle fiamme gli stessero ustionando la gola. Che strano, eppure nell’angolo in cui aveva rivolto lo sguardo non c’era nessuno. Cosa stava succedendo? Si guardò in basso. E sobbalzò. Il ciondolo aveva iniziato a brillare.

Lo Smeraldo della Terra. Il secondo. Aveva preso vita, di nuovo. 

“Principe Jentred, sta bene?”, disse preoccupata l'anziana badante.

 

Lontano da Ravelbow, il Palazzo d’Argento era freddo, come ogni inverno. Freddo come la catenella che gli contornava il collo. Il re rimase immobile. Il ciondolo iniziò inspiegabilmente a bruciare. Eppure non era successo niente. A meno che... poteva mai essere? Che due Pietre si fossero rincontrate? Ecco quella sensazione strana. Come poteva essere successo? Erano state divise, per sempre. Erano fatte per stare divise. La loro unione significava solo qualcosa di negativo. Abbassò lo sguardo e, sotto la sua tunica, notò dei bagliori iridescenti. 

A molti giorni di cammino di distanza dal Rubino e dallo Smeraldo, si era accesa la terza delle quattro. L'Opale dell’Acqua era tornata in sè. Anche questa Pietra rinasceva nuovamente, e ciò voleva dire soltanto una cosa: pericolo. 

Allora era successo veramente, e sapeva che non era un buon segno, affatto. Quello era un allarme. Un Elfo come lui lo sapeva riconoscere bene.

 

Buio totale. Il Castello Sotterraneo era nero come la pece, dalle più profonde fondamenta alla cima della torre più alta. Ma il buio si affievolì. Dalla torre maggiore si accese un alone di luce che squarciò le tenebre. Da un piccolo baule usciva una luce, azzurra e dai riflessi d’oro. La quarta pietra, incastonata in un medaglione dorato, iniziò a bruciare. Il Lapislazzuli dell'Aria vibrava, risvegliatosi dal suo sonno profondo.   

 

Pericolo. Un nuovo pericolo. Il Rubino stava cedendo sotto il volere di quell'oscuro personaggio: egli non era la persona giusta, e le altre Pietre se ne erano accorte. Seppur lontane tra di loro miglia e miglia, il verde Smeraldo, l'iridescente Opale e l'azzurro Lapislazzuli avevano risposto alla richiesta di soccorso del rosso Rubino. Avevano riattivato la loro potente catena d'aiuto ed erano tornate in vita.

 

Una manciata di secondi, poi tutto fini. La catena tornò fredda e il bagliore cessò. Sedun capì: era allo scoperto. La più antica e potente catena di aiuto di Fennor era stata riattivata: adesso le pietre sapevano, erano vive. Sapevano che lui si era inserito nella trama del loro antico disegno, rubando il Rubino del Fuoco e tentando di piegarlo al suo volere. Adesso doveva essere estremamente svelto, doveva rischiare il tutto per tutto, entro la mezzanotte: tutto ciò era accaduto in pochi secondi, che erano bastati a risvegliarle. 

Vide il principino allontanarsi e scendere le scale, stordito. Come del resto era stordito Sedun. Appena il giovane e l'anziana balia voltarono l’angolo, il mago e il gobbo tornarono visibili. Presero un altro corridoio e iniziarono a scendere. Lo sfarzo del castello era visibile fin nei minimi particolari: era bellissimo, Sedun lo ammetteva. Ma nel giro di poco tempo tutto sarebbe cambiato.

“Lo so, cambierà. Cadrà. L’ho visto prima, nel vortice della Stanza degli Indovinelli. Warner, lo so, ho visto la mia vittoria. Poveri sciocchi. Non saranno le Pietre a fermarmi, agirò più velocemente ed astutamente di loro. Con questa ampolla si avvererà la mia profezia, ho visto anche questo. Quella pozione è malefica, è fatale. Nessuno rimarrà vivo!”, disse il mago in un ghigno di soddisfazione. "Tranne noi ovviamente!", aggiunse ridendo, notando lo sguardo impaurito del piccolo gobbo. 

L'ansia saliva e, per la paura che il piccolo involucro di vetro potesse cadere, la sua presa sulla fiala di vetro si fece più forte. Allo stretto contatto con la sua mano, Sedun avvertì quant'era gelida, sensazione che non raggiunse solo il tatto, ma anche il suo spirito: la malvagità di ciò che vi era contenuto era tale da poter essere avvertita anche senza che essa fosse utilizzata. E questo inebriava ancora di più il suo animo diabolico. 

Intanto la discesa continuò, fino a che non arrivarono alla fine della rampa. C’era un piccolo ballatoio, poi la scala continuava a scendere. Sulla parete alla loro sinistra si trovava uno specchio. Accanto ad esso c’era un candelabro: lo spostò verso destra, e lo specchio si spostò. Sedun conosceva troppo bene quel castello, e con esso la maggior parte dei suo segreti. 

“Sbrigati, entra!”, disse rivolgendosi al compagno.

Il passaggio segreto era ben tenuto, completamente rivestito di marmo, spoglio di ogni tipo di mobile, e totalmente buio. Si vedeva che era poco usato, e Sedun constatò che probabilmente neppure la famiglia reale ne era a conoscenza. Con un semplice schiocco delle dita, intorno a loro si creò un alone di debole luce rossastra, grazie a cui si fecero strada. 

Il tempo passava camminando nei tunnel segreti del castello, ma per sua fortuna arrivò presto nella stanza segreta verso cui era indirizzato quel passaggio. Il mago si sentì più tranquillo. Fino a che l’orologio rintoccò le undici, con un suono molto più lontano di quello che aveva annunciato le nove, facendogli capire che si era fatto tardi, e dovevano affrettarsi.

 

Squilli di trombe. Il ballo si interruppe. L’immenso salone del trono, pieno di persone, cadde nel silenzio. I riflessi dei fastosi abiti lunghi delle donne si specchiavano nel pavimento lucido di marmo ambrato, mentre gli eleganti uomini ammiravano fuori dalle enormi finestre a vetri la fitta neve, che cadeva incessante, e lo splendido panorama della Vallata bianca. I grandi lampadari di cristallo illuminavano la scena, mentre tutto era fermo, come in un dipinto: i tamburi iniziarono a rullare e le trombe a suonare una solenne e regale melodia. 

Dal portone sopra l’enorme scalinata che ornava il lato principale del salone, apparve la regina Sophia, con la piccola principessina Emil che seguiva, entrambe con un’aria fiera e trionfale. I loro abiti, come le decine di damigelle che passavano nel corteo, gettando in terra petali di rose, erano sfarzosi, lunghi e ricamati d’oro, dipinti di mille splendenti colori. Furono seguite da una schiera di numerosi cortigiani. Il corteo continuò sotto gli squilli delle trombe. 

La scena era imponente, e toglieva a tutti il fiato, finché non arrivò, in un candido abito bianco rifinito d’argento, nelle veci del re, il saggio consigliere di corte, Marlon Crell. In mano portava la Corona del Re di Fennor. Era magnifica, completamente lavorata in oro massiccio, intarsiata e finemente decorata, con incastonati smeraldi, seguiti da rubini, lapislazzuli e opali. 

Dietro di lui apparve il tanto atteso principe Jentred, con la sua aria malinconica, spezzata da un debole sorriso. Indossava un pregiato vestito verde, decorato con motivo opulenti, su cui si posava un lunghissimo mantello di pelliccia bianca, bordato d’argento e rifinito al colletto da fili dorati. 

Al collo portava un medaglione dorato, grande quanto un pugno, a forma di rosa dei venti, con incastonata nel mezzo una ovale pietra verde, scintillante. L'erede aveva un aspetto così regale che, se non fosse stato per la tristezza che riempiva il suo animo, sarebbe sembrato un vero Re di Fennor. 

Un applauso si levò dalla folla. Jentred si sedette sul trono in cima alla scalinata, mentre il vecchio e fidato consigliere di corte, con in mano la preziosa Corona, si posizionò dietro di lui. La cerimonia ebbe inizio.

 

Tutto era pronto, Sedun sentiva il suono roboante delle trombe in lontananza. Nella stanza segreta trovò il libro che cercava: adesso gli sarebbe bastato pronunciare la formula e il nome del luogo dove sarebbe voluto andare, e là vi si sarebbe materializzato, in un cerchio di nube scura. Era pronto. L’ampolla ribolliva: di lì a poco la maledizione avrebbe avuto inizio.

“Pronto, Warner?”

“Prontissimo, padrone!”

 

La prova iniziava. Si doveva prima di tutto accertare ufficialmente che Jentred era il vero ed unico erede al Trono di Fennor: questo sarebbe stato rivelato dal suo ciondolo.

“Rivela il tuo nome” disse il minuto consigliere di corte, in veste di cerimoniere.

“Jentredian Medrel Ravelcrow”, rispose il principe.

E dalla bocca nascosta tra la rossa barba di Marlon uscirono tre parole: “Rivela la verità”.

Fu così che Jentred portò la mano verso il collo e pose il suo dito indice sulla pietra verde. Senti un torpore espandersi in tutto il corpo. E così il medaglione iniziò prima a brillare e poi ad illuminarsi di una accecante luce verde. Ecco il segnale.

“La Pietra ha espresso la sua volontà: il principe Jentred è il Prescelto dello Smeraldo, il nostro nuovo Re. Inchinatevi dinanzi a Sua Maestà!”, concluse Marlon Crell, con gli occhi lucidi per l'emozione.

Un boato di clamore si levò dalla folla, seguito da un lungo applauso e da grida di gioia.

 

Fu allora che Sedun prese in mano l’ampolla di vetro e pronunciò le fatidiche parole. Il piccolo gobbo non conosceva l'oscura lingua degli stregoni e fu in grado di capire soltanto tre parole: "Salone del Trono".

 

Il clamore si spense. Una grande forza invisibile fece cadere a terra molte persone, creando un’area libera tra la folla. Tutti sobbalzarono, e cadde il silenzio. Apparve una nube scura, inizialmente di piccole dimensioni, ma che cominciò ad espandersi, fino a diventare una fitta nebbia che riempì il grande spazio vuoto. Quando essa si diradò, apparvero un gobbo ed un uomo. Tutti riconobbero la figura bianca cadaverica, rivestita di stracci neri, logori e sporchi. Riconobbero anche il suo tratto distintivo: una inquietante maschera di metallo che gli copriva il volto, all'infuori degli occhi, che sembravano iniettati di sangue. C’era chi piangeva, chi era svenuto, chi era sotto choc. Sedun Rosolf era lì. 

“Buonasera a tutti, e buonasera cari reali!”, esordì il mago.

“Cosa ci fai tu qui?”, rispose la madre di Jentred, la regina Sophia.

“Eppure lo dovreste sapere fin troppo bene, tu e il tuo maritino. Ah dimenticavo, non è qui con noi stasera!", disse Sedun ridendo. Nella sala il silenzio che regnava totale riuscì ad amplificare quelle perfide parole. La crudeltà di ciò che gli era appena uscito di bocca riguardo il sovrano recentemente deceduto risuonò di un'eco infinita. "O forse dovremmo chiederlo a tuo padre, cara Sophia? Lui potrebbe spiegarti molto bene il motivo per cui sono qui, stasera. Dov'è tuo padre, eh? Dov'è Ghendar? Dov'è il vecchio Re, il mio vecchio amico, l'uomo che ha tradito il suo popolo per cercare con me la gloria?"

Tutto taceva. Jentred non sapeva come reagire, era impietrito.

La regina trovò a stento la forza per rispondere: "Lo sai che è morto!"

"Questa buffonata raccontala al tuo popolo, sciocca!", rispose urlando Sedun, pieno d'ira. "Non mi meraviglio del fatto che il vostro popolo odi tuo padre così tanto: un Re tanto amato che tradisce la sua gente alleandosi con un mago oscuro per cercare la gloria eterna. Non fare finta di non udire le mie parole, donna. So che Ghendar è ancora vivo, e sono quasi sicuro che non si trovi molto lontano da qui. Potrebbe usare la sua magia per palesarsi adesso, no? Oppure è troppo vigliacco per mostrare il suo volto di rinnegato davanti alla sua famiglia e alla sua gente? Oppure ha troppa paura di me." 

Dalla bocca di Sedun uscì una risata metallica che fece venire i brividi a tutti i presenti. "Ma non è questo che mi importa, avrò modo di concludere la faccenda. Sappiate solo che senza di lui non avrei mai conosciuto i segreti di questo castello, consultato le sue mappe, visitato le sue stanze più remote e recuperato ciò che cercavo per annientarvi, una volta per tutte! Ah, la Stanza degli Indovinelli, sempre utile nei momenti di bisogno!" 

L'ira negli occhi rossi di Sedun crebbe, alimentata dalla soddisfazione che lo pervase, una volta estratta da una tasca l'ampolla di cristallo, esibendola al pubblico.

La regina Sophia, in lacrime, urlò: "Alla fine sarai tu a perdere!"

Il mago proseguì: "Zitta! La pagherete tutti. Finalmente adesso posso attuare il mio piano e scagliare la mia maledizione: ho le armi per distruggervi tutti!", commentò, indicando l'ampolla "Ho le armi per prendermi quel vostro maledetto medaglione e la vostra dannata Pietra!”, aggiunse l’uomo dal volto mascherato, voltandosi di scatto verso Jentred e osservandolo fisso, in un modo così intenso che il piccolo principe si sentì gelare: "Tu, piccolo stupido Re prematuro, tu hai ciò che mi serve e stasera sarà mio!”

Tutti tremavano per la paura. Jentred portò la mano al ciondolo, come per proteggerlo. Ma nella sua testa c'era il vuoto, non era capace di connettere i mille pensieri che vorticavano nella sua testa

"E così siamo alla resa dei conti. Ed io vincerò!", disse trionfante il mago. Sapeva che, versando il contenuto dell'ampolla fino all’ultima goccia, un potentissimo gas velenoso avrebbe investito tutti e ucciso all'istante chiunque l'avesse inalato. 

"Mio caro Warner, stammi vicino", si rivolse quindi al gobbo, che prontamente gli si avvicinò, tremante come una foglia. "Questa è la mia maledizione! E adesso...", aprì la fiala, "...diamo inizio alle danze!”

 

Jentred guardava la scena inerme. Come poteva essere? La sua intera famiglia spazzata via in un giorno. Guardò l’uomo, e provò odio verso di lui. Un odio irrefrenabile, che mai aveva provato in vita sua e che mai avrebbe pensato fosse possibile provare.

Intanto lo stregone aveva aperto la fiala e il liquido verde che ne usciva si tramutava in gas. Chi lo inalava, cadeva a terra. Orrore. Pianti. Disperazione. Non era la serata che tutti si aspettavano.

Jentred cominciò a sentirsi ribollire dentro, non sopportava quella scena. E quando il veleno colpì sua madre e la sorellina, che caddero a terra inermi ed indifese, il suo odio e la sua collera furono così grandi che...

 

Sedun rimase impietrito di fronte a ciò che accadde. Il medaglione con lo Smeraldo si illuminò talmente tanto da accecarlo, poichè stava guardando in direzione del trono dove sedeva il nuovo re. Inspiegabilmente, un raggio di luce verde, a fortissima velocità, partì dallo Smeraldo e colpì il mago, che si contorse urlando dal dolore. Tutto accadde in pochi attimi. L’ampolla cadde, e al suo interno rimase una sola goccia. Tutti si accasciavano a terra, in pochi riuscirono a fuggire dalle uscite del salone. Il gobbo scappò. Sedun, con un ultimo urlo straziante, si accasciò sul pavimento. La maledizione non si sarebbe totalmente compiuta! 

 

Lo Smeraldo aveva reagito alla volontà del suo possessore, lo aveva protetto e difeso da morte certa, e aveva annientato in un solo colpo il suo nemico. O almeno così sembrava.

Il corpo di Sedun giaceva a terra, orribilmente dilaniato dal raggio di luce, ma dal cadavere riverso a terra si levò una sorta di debole fumo grigiastro, da cui si levò una voce metallica talmente forte da poter rompere i timpani: "No! Tu, no! Maledetto! Non farlo, non portarlo via, anche lui è destinato a morire, in un modo o nell'altro! Sono io il solo che può vincere questa battaglia. Io!"

Jentred non capì a chi la voce del perfido mago si rivolgesse, fino a quando non sentì una mano afferrargli una spalla. Si voltò di scatto e vide alle sue spalle una figura alta, incappucciata, con il volto nascosto, che lo fissò per un millesimo di secondo. Ma ebbe il tempo di vedere i suoi profondi occhi blu e riconoscere chi fosse: era suo nonno Ghendar, il padre di sua madre, il Re Rinnegato. Il nonno che non vedeva da anni, il nonno che credeva morto. Ecco a chi Sedun aveva indirizzato il suo ultimo grido prima di scomparire, sotto forma di puro spirito, nel nulla.

Ghendar strinse ancora di più la presa sulla spalla di Jentred e, dicendo qualcosa che il principe non capì, lo teletrasportò fuori dal castello. Quella fu veramente l’ultima volta che il nipote vide suo nonno. 

 

Jentred capì di trovarsi fuori dalle mura del borgo. Era da solo, intorno a lui solo il buio, il freddo, l'aria gelida intrisa del suo dolore, della sua ira, della sua collera. Sentiva la pelle come bucata da mille aculei appuntiti; riusciva a stento a muovere le mani e i piedi. 

Pianse, fu l'unica cosa che riuscì a fare. Il tempo delle riflessioni, della vendetta, del compianto, non era quello: sarebbe giunto in futuro. Passarono pochi istanti, poi il giovane iniziò a scappare, scendendo il picco. Attraversò il paese, con i fiocchi di neve che gli bagnavano le labbra screpolate. Corse nella pianura desolata, verso le montagne ad est, verso l’unica via di uscita dalla Valle di Dothran: quella diretta ad Anadrien, la terra delle Creature Magiche. 

Una volta percorsa una distanza che sembrò infinita, si fermo per riprendere fiato. Il suo respiro era corto per via della fatica e dei singhiozzi, i polmoni doloranti per l'acuto gelo. Si voltò indietro. Ai suo occhi si presentò una scena disarmante: dalle finestre della reggia si propagava una luce verde, una nube di gas velenoso che si espandeva verso la cittadina di Ravelbow. Corse via, piangendo di disperazione e di dolore, questa volta senza fermarsi. 

Fu l’ultima volta che vide il suo castello. E fu l’ultima volta che vide la sua Vallata. Corse e corse ancora, verso est.

 

La neve cessò di cadere e la luna riapparve nel cielo. 

Una lacrima rigò la pelle rugosa della guancia del vecchio re. Ghendar, dalla cima della torre più alta del castello, osservò per un'ultima volta suo nipote scomparire in lontananza, nel buio delle montagne all’orizzonte. 

Era riuscito a salvarlo.

  
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