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Autore: Lantheros    06/04/2013    1 recensioni
Secondo ed ultimo sequel di Sidro Proibito.
Ritroverete le mane 6 calate in panni vintage e armate di pistole, una certa dosa di cinismo e anche qualche parolaccia. Se pensavate che uno zeppelin volante, un assalto notturno e combattimenti tra piombo e incantesimi fossero abbastanza... beh... non era che l'inizio.
L’ultimo capitolo, il nono, è stato suddiviso in quattro atti, poiché tutto avverrà in una singola notte (quindi sarà denso di avvenimenti).
Avviso che, a differenza degli altri, in questo Sidro è stata miscelata una cospicua dose di introspezione dei personaggi ad una pari quantità di azione, più una spruzzata di "vago e misterioso" perchè... insomma... stiamo parlando di un alicorno oscuro, dopotutto.
TUTTI i personaggi avranno il loro momento sotto i riflettori. Tutti brilleranno per qualcosa e commetteranno altrettanti sbagli. Perché, là fuori, è un mondo difficile, fatto di criminali e intrighi malavitosi.
Appariranno alcuni bg della serie canon ancora non visti, più qualche oc che spero vi saprà conquistare.
Genere: Azione, Drammatico, Parodia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Applejack, Nightmare moon, Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Non ne sono convinto.

Osservo il mazzo di fiori tra le mie zampe.

Tre petunie, dieci calendule e una bellissima orchidea bianca.

Alzo lo sguardo. C’è luce ovunque. Sembra che qualcuno abbia aumentato il contrasto di ciò che mi circonda.

E’ tutto così… vago… indefinito… Eppure questa luce accecante che filtra dalle finestre è così… così…

Bella.


Sono nel negozio di fiori. Oggi non ci sono molti clienti, per cui voglio dedicarmi in santa pace a questa composizione. Disfo il bouquet.

Sbuffo sommessamente.

Sono dietro al bancone con la cassa. La stanza è enorme, molto più di come me la ricordassi ieri. Ed è piena di fiori e altre piante ornamentali.

Normalmente non mi azzarderei ad usare il materiale in esposizione per composizioni personali… ma questi ho intenzione di pagarli, anche se non ho quasi un soldo.

Se lo merita…

Anzi…

Si meriterebbe molto di più.


Dispongo ordinatamente i fiori sul tavolo.

Mi gratto il mento.

Cavolo! Non può essere così difficile!

Dieci calendule, tre orchidee e… no.

Una calendula, dieci orchidee e… Cosa? Dieci orchidee? Stiamo scherzando? Non riuscirò a pagarne manco la metà.

Dannazione.

Sento il campanello dell’ingresso tintinnare.

Alzo lo sguardo e… la vedo.


Lei è lì.

Di fronte a me. Sorridente.

Un sorriso che farebbe sciogliere persino le pietre.

Mi sorride. La luce attorno pare intensificarsi.

Il mio petto… si muove. Sento un fuoco all’altezza del cuore.

E lei… Lei sorride.

“Ciao, Hound”, mi dice soavemente.

Farfuglio qualcosa senza senso.

Coraline resta sull’uscio, aspettando qualcosa.

“Beh? Rimani lì, così? E in questo modo con cui accogli i clienti?”.

“Eh??”, esclamo all’improvviso, “C-cosa? No! No…”.

Bravo scemo. Stattene inebetito davanti a lei. E’ così che le farai capire quanto è speciale…

“Allora?”, mi domanda.

“A-allora? Ah! Sì, io…”.

Racchiudo rapidamente i fiori in un mazzo sconnesso e glielo porgo, decisamente agitato.

Alcuni sono a testa in giù, altri spezzati e altri ancora con qualche petalo in meno.

Bravo scemo: bis.

Lei si mette timidamente una zampa sul muso e cerca di trattenere una risata.

“Oh, dannazione!”, esclamo seccato, “Io… cioè… questo…”.

“Poveri fiori…”, commenta, togliendoli delicatamente dal mio zoccolo e portandoli in un vaso di vetro con un dell’acqua, “Ecco. Mettili qui. Vivranno un po’ di più”.

Porta il suo sguardo verso il mio.

Per la miseria… i suoi occhi… risplendono come due pietre turchesi…

“Hound… preferisco quando vi ordinano dei fiori in vaso, sai? Non… non mi va che vengano strappati dal terreno, per poi marcire dimenticati dopo un regalo…”.

Bravo scemo: ho perso il conto. Hai azzeccato proprio il regalo da farle, allora. Bel modo di festeggiare sei mesi assieme.

“Uuhhh… io…”, biascico imbarazzato, “Io… io non…”.

Lei… sorride. Io mi placo immediatamente. Mi sfiora la zampa con la sua.

“Ehy… Tranquillo, mio fulvo puledro… vieni con me…”.


Sbatto le palpebre. Siamo in un grosso giardino in centro.

Figure vaghe e indistinte passeggiano attorno a noi.

Il cielo è azzurro, con giusto qualche nuvola. La luce è molto intensa, proprio come nel negozio. Tutti i colori sembrano mille volte più brillanti: il verde dell’erba e delle foglie, la vernice delle macchine, gli abiti di Coraline e… l’azzurro dei suoi occhi.

“Vedi?”, mi domanda, “Guarda là”.

Scorgo alcuni puntini bianchi sul manto erboso. Lei mi tiene a braccetto.

“Uuhhh… Quelle sono… margherite?”.

“Esatto!”, afferma con gioia, “Non ti sembrano bellissime??”.

“Ah. Sì. Certo”dichiaro, poco convinto.

Il volto della mia compagna si fa imbronciato: “Ehy, non dire una cosa se non sei sincero! Non mi piace essere presa in giro!”.

“M-ma… io non ti sto prendendo in giro!”.

“Non sei sincero, Grey!”, e mi rifila una gomitata allo stomaco, dannata puledra.

Quanto mi piace.

“Non è che… che non sia sincero… Ma… ecco: tra tutti i fiori che potevo regalarti dal negozio in cui lavoro… insomma… le margherite?”.

“Sì!”, ribatte trepidante, “E’… è una cosa un po’ strana, in effetti! Tutti pensano sempre ai fiori belli e costosi: quei fiori che solo a vederli penseresti ad una bellezza indiscutibile… Ma… invece, le margherite… Loro quasi nessuno le considera... Al massimo strappano loro i petali sospirando frasi d’amore. Eppure sono comunque così belle… Nella loro semplicità… Le vedi? Il cuore giallo dorato… la corona di petali bianco avorio… Sono… perfette”.

Spostai il volto incredulo verso le piante in questione.

Erano davvero così speciali?

Le guardai meglio.

E quindi…

Capii.


Capii che, tra tutti i fiori del mondo, le margherite erano le più belle.

Non perché fossero dotate di trame sgargianti o profumi particolari.

Solo che… a lei piacevano. E tutto ciò che lei descriveva diveniva improvvisamente caldo e stupendo, per me.

Era come se ogni cosa che lei guardasse o toccasse… venisse poi infusa in un’essenza di tiepida seta.

Non saprei come descriverlo altrimenti…


“Dai… ora torna a lavoro”, conclude, cingendomi il collo e strofinando il muso sulla mia guancia.

Coraline… se non fossimo in pubblico ti avrei già ricoperta di baci e carezze.

“D’accordo… Allora… ci… ci…”.

“Sì. Ci vediamo stasera”.


    Sbatto le palpebre ed è notte.

La luce accecante non c’è più. Anzi. E’ tutto cupo e buio. Troppo buio, in effetti.

Apro la porticina condominiale, tenendo il regalo con una zampa.

Sono stanco: è stata una giornata lunga, o almeno così mi è sembrata, ma ora è finita.

Salgo le scale per il quarto piano. Dopo due gradini sono davanti alla porta dell’appartamento.

Prendo le chiavi dal cappotto e le infilo nella serratura.

Qualcosa non va.


La porta si apre cigolando. Non è chiusa.

Strano. L’avrà dimenticata aperta?

Poi noto una forzatura alla serratura.

Percepisco come una coltellata all’imboccatura dello stomaco.

Spalanco la porta.

“CORALINE!?”, urlo.

L’appartamento è buio.

Tutto è buio.

I mobili riversi per terra, vestiti e oggetti vari sparsi ovunque.

Ci sono decine di finestre, da cui vedo oscure nubi nel cielo scorrere a rapidissima velocità.

Mi sento pesante.

Respiro come se avessi appena finito una maratona.

“CORALINE!?”, ripeto.

La cerco. Apro la porta della cucina e sono nel bagno. E’ tutto rotto e spaccato.

Vago di stanza in stanza, ne percorro a decine, forse centinaia…

Finché scorgo il corridoio che conduce alla nostra camera da letto.

Galoppo forsennatamente, percorrendo il centinaio di metri che mi separa dalla stanza.

Entro.


Scorgo due figure scure contro la parete.

Una coppia di pony. Non li distinguo chiaramente… ma vedo benissimo i loro occhi, bianchi come latte.

Sembrano… spaventati, intimoriti… come se avessero appena vissuto… un incubo.

“Coraline?? Dov’è Coraline??”.

Noto una zampa sul pavimento, proprio dietro al letto.

Faccio il giro e…

La vedo.


Il vaso di margherite mi cade a terra, infrangendosi sonoramente.

Il corpo di lei giace esanime.

Gli occhi chiusi.

Le labbra serrate da nastro adesivo.




CROLLA.



TUTTO.



CROLLA.



Porto le zampe verso di lei.

La scuoto.

Non si muove.

E’ fredda.

Rigida.

Non c’è più una stanza.


Siamo soli, io e lei, nel buio.


“CORALINEEE!!!”.




Lei apre gli occhi di scatto, rossi come sangue.


*** ***** ***


    Anche Hound aprì gli occhi di scatto.

Non vide nulla, a parte una chiazza sfocata di fronte a sé.

Era disteso su qualcosa di morbido, presumibilmente un letto.

Per alcuni istanti riuscì semplicemente a non pensare a nulla.

Non ragionò, non si fece domande, non disse alcunché.

Le emozioni dentro di lui furono così travolgenti da lasciarlo in uno stato quasi larvale.

A poco a poco, tuttavia, i neuroni ripresero a funzionare, cercando di riequilibrare il rapporto mente/sentimenti, riportandolo perlomeno in pareggio.

Mosse qualche muscolo e, quando ruotò il capo, un fulmine di dolore lo investi per tutta la colonna vertebrale.

Strizzò gli occhi e digrignò i denti. Fu uno dei dolori più insopportabili che mai avesse percepito (e lui, di dolore, se ne intendeva abbastanza).

Si portò gli zoccoli alle guance e non riuscì più a riempire polmoni d’aria, tanto stava male.

Cercò di urlare.

Non ci riuscì.

Lentamente, molto lentamente, il dolore prese a diminuire, portandolo in uno stato dove riusciva perlomeno a ragionare.

Si guardò attorno: era in una stanza buia, scialba e decadente.

La carta da parati era quasi tutta staccata o ammuffita e le finestre bloccate con alcune assi inchiodate.

L’arredo era completamente distrutto o comunque inutilizzabile.

Contro il muro, appoggiati ad una sedia, riconobbe copricapo e cappotto color cammello.

    Si riportò le zampe agli occhi e sospirò profondamente.

Sentì quindi qualcosa di strano sulla fronte, qualcosa di ruvido.

Una benda?

Sì, con ogni probabilità si trattava di una benda.

Ma che diavolo era successo?

L’ultima cosa di cui avesse ricordo fu… fu…?

Si sforzò di portare ordine nei propri pensieri: lui era il Segugio di Counterlot, il mastino celeste, il terrore di tutti i crim…

Aspetta.

No…

Gli avvenimenti riaffiorarono.

Non era più il Segugio… Non di Counterlot, perlomeno.

Lo avevano tradito.

L’incidente sullo zeppelin, l’ospedale, la fuga… la visita al dottore, la sbronza colossale… e poi.


Due occhi.


Due occhi color turchese, del tutto identici a quelli…


A quelli di…


“Rarity!!”, urlò, avvertendo subito dopo un’altra fitta.

“AH!! MERDA!!”, ruggì.

E si ricordò tutto: Counterlot, l’assalto, la battaglia, quel pagliaccio di Discord, fino a… Celestia.

Quelle parole… quel tono di voce.

Gli occhi brillanti dell’alicorno, simili a due smeraldi, che non smisero per un istante di fissarlo.

Per un momento, gli sembrò di rivivere quell’attimo… quella sensazione opprimente, come se qualcuno cercasse letteralmente di stuprarti e di fotterti il cervello con una trivella da cava arenaria.

Hound!!”, risuonò la voce di Celestia, “Quante anime innocenti sono morte, questa notte? Le hai contate? Pensi che i cadetti ne potessero qualcosa? Credi forse che i pegasi della Guerra Equestre siano morti per un nobile scopo?”.

Si strinse le tempie tra gli zoccoli, avvertendo un’incudine abbattersi dritta sul cranio.

Hai più morti tu sulle spalle che l’intero reparto d’esecuzione! Ovunque tu vada, non fai altro che portare morte e ancora morte! Prima è toccata a tua moglie e due poveri innocenti, poi a coloro che un tempo definivi criminali e feccia… E oggi è toccata a contadini, reclute ed ex-aviatori. Chi saranno i prossimi, Hound??”.

“Zittaaa…”, biascicò, con un filo di voce, a palpebre serrate, “Sta zittaaa…”.

RISPONDI, HOUND!!!”.

L’ultima frase lo investi come una scarica elettrica.

Lo stallone ebbe un sussulto e cadde sul parquet umido.

Le orecchie gli fischiavano e percepì un senso di nausea insopportabile.

    Tutto, attorno a lui, parve girare vorticosamente.

Si trascinò a gattoni per l’intera stanza, emettendo versi sommessi.

Sentì l’odore del pavimento: muffa, forse. Ed escrementi di chissà quale animale.

Raggiunse il cappotto.

Mise una zampa sulla sedia e, con immane sforzo, si tirò su.

Passò l’altra zampa nelle tasche interne, finché non trovò ciò che cercava: una fiaschetta di Whiskey non del tutto vuota.

Svitò il tappo e bevve avidamente il liquido, asciugandosi quindi le labbra col dorso dello zoccolo.

Un’altra fitta. Un altro urlo che non trovò sfogo dalla bocca.

Ripiombò sonoramente sul pavimento, facendo cadere sedia e indumenti.

“Basta… bastaaa…”.

Continuò a trascinarsi.

Spinse di lato una porticina, riuscendo appena ad alzare gli occhi, e si ritrovò in un bagno lurido.

Cercò di arrampicarsi lungo il lavandino. Era tutto incrostato e sporco di liquido nero.

Riuscì a mettersi in posizione quasi eretta.

Alzò lo sguardo e… vide il proprio riflesso in uno specchio danneggiato.

Era ricoperto di polvere, quindi lo ripulì alla bene e meglio con una zampata.


    Ecco cosa rimaneva… del Segugio di Counterlot.

Hound scrutò la propria immagine.

Vide un viso barbuto, occhi iniettati di sangue, profonde occhiaie e… nessun corno.

Una benda intrisa di sangue gli avvolgeva la fronte, facendo sbucare giusto qualche centimetro di garza, a ricoprirne i resti.

Rimase così, per alcuni secondi… finchè le forze lo abbandonarono… E Grey Hound, il traditore di Counterlot, cadde sulle piastrelle, privo di sensi.


*** ***** ***


    Una voce femminile gli rimbombò nelle orecchie.

“Grey!”.

Aprì gli occhi e tutto era confuso.

La sagoma di un pony dagli occhi azzurri era sopra di lui.

“Grey!!”, ripeté, con un riverbero surreale.

Quegli occhi…

“C-Coraline?...”, biascicò Hound, cercando di riprendersi.

L’immagine venne messa a fuoco: Rarity era riversa su di lui, con il volto preoccupato.

“Grey!! Svegliati, ti prego!!”.

“Cosa… dove… Pu-pupa?...”.

Lo stallone era di nuovo sul letto, nella stessa stanza di prima.

Si sentiva come uno straccio ma, perlomeno, la testa gli faceva meno male e il senso di nausea si era trasformato in vago sentore di vomito.

“Hound! Oh, grazie al cielo! Stai bene??”, gli chiese titubante.

L’unicorno bianco era vestito elegantemente, come al solito: qualcosa che contrastava in modo evidente con l’ambiente della camera.

Gli strofinò un panno bagnato sul viso.

“Ti… ti ho ritrovato in bagno, riverso sul pavimento…”, affermò a voce bassa.

Hound non disse nulla e cercò di tirarsi su, senza riuscirci.

“Ehy, campione… Stai fermo, non devi agitarti”, lo ammonì.

Il Segugio si stropicciò le palpebre: “E’ come se mi avessero infilato una granata nel cranio…”.

L’altra cadde preda di un certo dispiacere: “E’… è comprensibile, cucciolo”, lo rassicurò, passandogli una zampa sul capo, “Hai… hai passato un brutto quarto d’ora e…”.

“Che è successo?”, domandò all’improvviso.

“Come?...”.

“Quando abbiamo incontrato Celestia… io… io ricordo solo una cosa, prima che tutto si facesse nero…”.

“Ah… ecco…”.

“Ricordo chiaramente…”, continuò, “Grossi occhi verdi… un dolore lancinante alle tempie… e… e poi…”.

“Poi?...”.

Grey sorrise: “No, dev’essere stato uno dei miei incubi”.

Rarity si sedette accanto a lui: “Cosa… cosa ricordi?...”.

Il compagno si sforzò di riportare gli avvenimenti alla mente: “Io… ricordo… Era… era come se mi muovessi ma… osservavo la scena dall’esterno. Proprio come succede negli incubi. Ricordo… che… che avevo un’arma. Che la usai”.

La puledra non disse nulla, lasciando che lo stallone continuasse a parlare: “Mi ricordo che feci fuoco… Contro… Eh!”, sospirò ridendo, “Contro il dottor barbiere e… e poi puntai la pistola contro di te… Che stronzata, vero?”.

Ma il viso del pony dagli occhi celesti si rattristò leggermente.

Il muso di Hound si bloccò in un’espressione di incomprensione.

Rarity decise di spiegargli tutto, non senza una buona dose di coraggio: “Grey… Celestie è… era…”.


    La puledra gli raccontò ogni cosa, per filo e per segno.

L’inganno di Chrysalis, la loro cattura, la liberazione da parte di Octavia, la fuga, il piano di Discord, Luna, la lettere su Spike e l’intenzione del Governo Celeste di ritrovarlo ad ogni costo.

Grey ascoltò assorto le sue parole, divenendo sempre più serio a mano a mano che i dettagli venivano sviscerati.

“…E poi”, concluse la compagna, “Ti abbiamo portato qui, nell’abitazione abbandonata di Fluttershy… nella Neverfree Forest”.

Hound fece sprofondare il capo nel cuscino, puntando gli occhi dritti al soffitto.

“Qui almeno sarai al sicuro… non credo verranno mai a cercarti in una palude…”.

Lo stallone fece uno scatto in avanti, cercando di scendere dal letto ma la stanza attorno a lui ruotò, costringendolo a fermarsi.

“Anatroccolo!”, intervenne Rarity, ponendogli una zampa sulla groppa, “Non devi sforzarti! Hai… hai subito un duro colpo e…”.

“Dovresti andartene…”.

“Cos…”.

“Pupa, sarò schietto con te. Vattene. Subito”.

“Ah!”, sbottò impettita, “Stai fresco se speri che io ti lasci dopo che…”.

Il pony dal manto fulvo parve innervosirsi: “Se non te ne vai sulle tue zampe, ti caccio fuori io di persona”.

Anche Rarity divenne fumina: gli rifilò una zoccolata su un fianco emaciato, costringendolo a piegarsi in due dal male.

“Ma certo!! Guardati! Ti fai mettere al tappeto da una stilista! Voglio proprio vedere come mi sbatti fuori, scemo di uno scemo!”.

“Ah… dannata… dannata puledra… proprio… proprio come Cor…”.

“Come chi??”.

“Niente… Ascolta, baby”, continuò, cercando di prenderla alla lontana, “Non hai ancora capito?... Il Governo mi sta cercando. E sono dannatamente bravi nel farlo. Se troveranno me, faranno fuori chiunque mi stia attorno. Devi andartene”.

“No no no”, dichiarò decisa, “Non dire fesserie! Se vorranno venire, lo facciano pure! Non ho alcuna intenzione di scappare con la coda tra le zampe solo perché un manipolo di bastardi ti…”.

“Non è solo quello”, la interruppe, con voce spenta.

Rarity si avvicinò a lui: “E… cos’altro c’è, allora?...”.

Lo stallone cercò tutto il coraggio che aveva per pronunciare le parole seguenti: “Io… io sono stanco”.

“Beh, è normale, tigrotto. Sei stato ad un passo dal lasciarci le penne…”.

“No, pupa… io sono… stanco dentro…”.

L’altra cercò di confortarlo con un sorriso: “Ehy, non buttarti giù proprio ora… Le cose stanno andando più o meno bene. Applejack si sta organizzando per vendicarsi di Chrysalis, tu sei vivo, abbiamo dei nuovi alleati e…”.

Le zampe di Hound si serrarono attorno al viso dell’amata. La osservò intensamente.

“Io… io non sono più niente, donna…”.

L’unicorno bianco si intenerì e preoccupò al tempo stesso. Unì gli zoccoli ai suoi: “Ma cosa dici, Grey? Tu non…”.

“No. Tu non capisci. Io… non esisto più. Tutta… tutta la mia vita è stata una menzogna dall’inizio alla fine. Tutta. Mi hanno strappato il mio passato… il mio futuro… Dovevo essere un marito. Un padre. E mi hanno distrutto un sogno. Hanno tolto l’esistenza di chi mi era attorno… solo per trasformarmi in una macchina pronta a riversare la propria frustrazione su chiunque puntassero la zampa…”.

“Hound, ascolta…”.

La voce dello stallone crebbe di intensità, impedendole di intervenire: “E quando pensavo che quello fosse il mio destino… che stessi agendo nel giusto… ho scoperto che, in realtà, fu l’ennesimo inganno. L’ennesima bugia. L’ennesima presa per i fondelli. Anni e anni di convinzioni gettati nel cesso. Sai cosa vuol dire avere decine e decine di morti ingiuste sulle spalle?”.

“Ma… ma tu…”.

“No. Non lo sai. Ogni giorno… OGNI FOTTUTISSIMO GIORNO… io devo convivere con questo pensiero. L’idea che io li ho mandati qualche metro sotto terra, semplicemente premendo un grilletto. Molti erano davvero corrotti, è vero. Ma… tutti? Ormai non ne sono più convinto… E pensavo che, uccidendo Celestia, avrei perlomeno portato un po’ di giustizia in Equestria… Ma… evidentemente mi sbagliavo… Cos’altro poteva essere se non l’ultimo inganno?...”.

“No, Hound, ti sbagli!”, gli rispose con insistenza, “Tu hai commesso degli errori, è vero! Ma tutti lo fanno, prima o poi! E’ l’unico modo per capire ed è nostro compito porvi rimedio! E tu lo stai facendo! Lo hai già fatto! Hai… hai cercato la redenzione, hai investito le tue energie per togliere di mezzo Celestia, hai…”.

Il segugio distolse lo sguardo, amareggiato: “No, pupa. Non ho fatto niente di tutto ciò. Ho solo… seguito la mia rabbia… la mia vendetta… il mio egoismo. Ed ora… ora ci sei tu… i tuoi amici… e il Governo, comandato da un mutaforma, che vuole catturarmi. Vi sto mettendo tutti in pericolo, com’è sempre successo in passato”.

“Non è detto che le cose andranno come in passato! Ciò che è stato, è stato, ora dobbiamo guardare al…”.

Il segugio urlò con foga, facendola sobbalzare dallo spavento: “IO NON VOGLIO UN’ALTRA CORALINE SULLA COSCIENZA!!!”.

“Non… non ce la faccio…”, continuò debolmente, stringendosi le tempie, “Non… non ce la farei… preferirei morire che… che vedere di nuovo…”.

“Ma tu sei Grey Hound! Sei uno stallone eccezionale! Sei…”.

“No, donna… Io non sono più niente”, e sciolse lentamente le bende, rivelando il moncherino sporco di sangue rappreso.

Rarity si coprì il muso.

“Io… non sono… più niente… Non ho un passato. Non ho un futuro. D’innanzi a me ci sono solo gli Agenti pronti a farmi la pelle. Non sono… non sono nemmeno più un unicorno”.

“Hound, ti prego…”, farfugliò l’altra, scuotendo il capo e percependo le lacrime salirle agli occhi.

“No… basta. E’ davvero troppo. E tu sei unicorno come me… anzi… com’ero un tempo. Sai benissimo cosa significhi perdere il proprio corno. Un pony di terra non capirebbe. Ma tu… tu lo sai. E a me non rimane più niente. E l’ultima cosa che voglio… è metterti in pericolo. Per questo devi andartene”.

Alcuni rivoli salini le sciolsero parte del trucco. Strinse i denti e strillò: “IO NON ME NE VADO DA NESSUNA PARTE, HAI CAPITO??”.

“Va bene”, concluse, alzandosi dal letto, ciondolante, “Allora me ne vado io”.

“Cosa? Tu rimani qui!”.

“No”, e si mise dolorosamente il cappotto addosso, coprendo poi il corno (o ciò che ne rimaneva) con il cappello a tesa larga.

“Hound!! Tu non vai da nessuna parte!!”.

“Sai che lo farò”.

“Non se te lo impedisco!”.

Sapeva bene che Rarity avrebbe fatto di tutto, pur di fermarlo. Ma non poteva certo metterla ko solo per uscire di lì.

Così improvvisò: si diresse rapidamente verso l’uscita della camera e aprì la porta.

La puledra scattò per intercettarlo, un attimo prima che la porta si richiudesse.

Il segugio noto un asse sconnesso sul pavimento, lo raccolse e lo puntellò contro la serratura.

Rarity cercò di aprirla, avvertendo qualcosa che glielo impediva.

“Hound!!”, tuonò, “Hound, apri questa cazzo di porta!! Aprila!!”.

“Scusa, pupa”, le disse, dirigendosi verso l’uscio della casa, “Può darsi che io torni… o forse no. Vedremo…”.

“Hound!! Bastardo!! Se ti uccidono, giuro che t’ammazzo!!”.


Aprì la porta e la palude apparve ai suoi occhi, in tutto il suo odoroso splendore.

“Che posto invitante”, ironizzò, accorgendosi che non aveva manco una sigaretta nelle tasche.

Un tuono lontano e l’oscurità gli fecero capire che era notte… e che stava piovendo. La coltre di alberi e rampicanti, tuttavia, era così fitta da bloccare completamente la pioggia, convogliandola invece lungo la corteccia e le foglie. Tanto l’umidità del luogo bagnava più di quanto avrebbe fatto un acquazzone.

Gettò un ultimo sguardo alla catapecchia.

“Perdonami, Rarity…”.


*** ***** ***


    Il tuono, lo stesso che aveva udito Hound, venne appena percepito dalle orecchie di Applejack.

Era nel cortile della tenuta Apple, seduta su un ciocco di legno, con il muso rivolto al paesaggio notturno.

Nonostante fosse buio, le colline lontane erano ben visibili, soprattutto le luci di Ponymood.

Un lampo tra le nubi all’orizzonte le accese di viola per alcuni istanti.

Un boato profondo e appena udibile sopraggiunse dopo pochi secondi.

La puledra aveva il cappello appoggiato a terra: teneva uno zoccolo sotto il muso e stava assaporando una sigaretta. L’attenzione della gangster vagava nel vuoto del paesaggio, assorta in chissà quali pensieri.

Aspirò e la punta della cicca si illuminò di rosso. Sentì i polmoni bruciare leggermente e poi espulse il fumo dalle narici.

Un altro fulmine. Un altro tuono sommesso, a interrompere momentaneamente il brusio degli insetti notturni.

Degli zoccoli calpestarono l’erba dietro di lei. Non sapeva chi fosse ma nemmeno le importava, così aspettò che il pony si avvicinasse.

    Octavia posò il copricapo accanto al borsalino dell’amica e prese posto su un sasso vicino.

Poggiò i gomiti sulle cosce, puntellandosi poi il mento sugli zoccoli anteriori.

La coppia rimase taciturna per lunghi minuti, scanditi solo dai rumori del temporale lontano e alcune folate di vento che sapevano di pioggia.

Le fronde degli alberi oscillarono, producendo il tipico suono di foglie in movimento.

“E’ un bel posto qui”, disse la musicista, rompendo il ghiaccio.

Applejack osservò le lunga fila dei meleti perdersi nell’oscurità: “Sì. Sì, è un bel posto”.

“Ho sempre amato gli ambienti di città, a dire il vero. Però devo dire che questa campagna è molto… rilassante”.

L’amica rise debolmente e gettò la sigaretta a terra, spegnendola poi con la zampa: “Beh, se vieni nel periodo di raccolta delle mele, vedi come lo troverai tutt’altro che rilassante”.

“Immagino. Ma ogni luogo ha i suoi momenti di pace e di subbuglio”.

La padrona della tenuta sorrise con amarezza: “Già. Come oggi. Hanno fatto un bel casino. E per poco non ce l’avrebbero fatta sul serio. Infiltrati… Chi lo avrebbe mai sospettato, in così breve tempo?”.

“Sono stata una stupida”, ammise Octavia, mantenendo un’espressione neutrale.

“No, tu hai fatto la cosa giusta. Sei rimasta a difendere la mia casa e la mia famiglia. E’ una cosa che ripago, anche col sangue se dovessi. Sappilo”.

“Metà dei miei sottoposti era formata dagli agenti di Chysalis. Avrei dovuto accorgermene in tempo”.

“Così come Chrysalis avrebbe dovuto aspettarsi gli agenti discordanti tra le proprie fila. Dai… E’ andata bene…”.

“Sì… Ma ce la siamo vista brutta. Se non fosse stato per Macky, io…”.

“…Macky??”, domandò esterrefatta.

L’altra si ricompose, arrossendo leggermente sulle guance: “Sì… cioè… t-tuo fratello. Big macintosh. Se… se non fosse stato per lui…”.

“La vecchia rompiballe mi aveva accennato qualcosa sulle vostre zozzate! Quindi non aveva bevuto troppo!”, esclamò, senza nascondere un ampio sorriso.

“C-cosa?? Zozzate??”, berciò imbarazzatissima, “Ma!... Quella vecchia spara più vaccate dalla bocca che piombo dalla lupara! Non… non è successo niente…”.

Applejack sorrise maliziosamente: “M-mh…. E… quel banjo? Perché ce lo hai tu? Era di mio nonno…”.

“Il… il banjo è…”, farfugliò.

L’amica arancione le lanciò continui sguardi di supponenza, finché Octavia cedette.

“Oh, eppiantala!!”, sbottò, “Ho solo… io…”.

“Ok, ok, ho capito. Non volevo metterti in imbarazzo”.

“Non ero in imbarazzo”.

“Sì che lo eri”.

“Cambiamo discorso?”.

“Ok… Di che parliamo?”.

La compositrice era disposta a tutto pur di non tornare più sull’argomento.

Si girò ed osservò rapidamente i dintorni, inquadrando infine il capanno dei trattori della tenuta. Il portone era aperto e l’interno illuminato: Rainbow Dash si trovava sotto uno dei veicoli, con una cassetta di attrezzi accanto. Twilight le era seduta accanto e stava dicendo qualcosa, con una foglietto sotto al muso.

“Mh”, bofonchiò il pony grigio, “Parlami un po’ di loro”.

“Loro?”, chiese Applejack, girandosi a sua volta, “Intendi… i miei amici?”.

“Sì. Mi pare vi conosciate abbastanza bene. Quindi… è da molto che state… sì, insomma, che collaborate?”.

“Beh… Dipende”.

L’attenzione si spostò su Dash, che emerse dal trattore con il volto sporco di grasso. Nonostante fosse unta e sudata, sorrideva di compiacimento.

“Rainbow la conosco da un sacco di tempo, molto prima che iniziasse a disinfestarmi i meleti. In verità la conoscono in molti, da queste parti. E’ un asso del volo ed ha combattuto fieramente durante la Guerra Equestre”.

“Sì vede che premiavano le teste calde, in guerra”.

“Può essere”, ammise, “Ma la verità è che, se dovessi aver bisogno di una canna da fuoco in più, vorrei che fosse RD ad usarla. Mi fido totalmente di lei. E’ una testa di cazzo, vero… però… Ha coraggio da vendere”.

“O forse è semplicemente avventata. Beh, che mi dici del dottor barbiere?”.

Le due osservarono Twilight: l’unicorno continuava a parlare incessantemente, fornendo direttive al pegaso su cosa smontare, cosa avvitare e persino l’esatto taglio di chiave da usare.

“Lei la conobbi soltanto quando venne divulgato il Decreto Celeste. Eravamo con l’acqua alla gola: non potevamo più vendere sidro e la distilleria venne confiscata, con tanto di marchio governativo. Provammo a vendere le sole mele ma non ci fu mercato. Stavamo colando a picco. Così papà… cioè”, si corresse, “Così la famiglia decise di trovare soluzioni… alternative… e, dopo un po’, entrammo in affari con Twilight. La cosa era semplice: noi fornivamo l’alcol, lei lo correggeva in modo… particolare, lo girava agli Speakeasy e si prendeva una quota sulle vendite”.

“Un accordo di affari, insomma?”.

“Sì ma poi ci conoscemmo meglio, come puledre intendo. Io la aiutai con alcuni… tizi che le stavano dando fastidio… tra cui Grey Hound…”.

“Ma pensa…”.

“Ci scambiammo alcuni favori, finché non ci trovammo a combattere assieme sopra lo zeppelin dei FlimFlam Brothers”.

    Gli occhi delle due finirono quindi all’ampia finestra a piano terra. Le luci del salotto erano tutte in funzione: Pinkie smanettava al banco degli alcolici e serviva allegramente i tirapiedi di Discord.

“E… e la schizoide?”, chiese, con un malcelato sorriso di felicità.

“Pinkie fu il… diciamo… distributore più redditizio che trovammo. Il suo locale, il Sugarbooze Corner, era un vero ricettacolo di soldi. Aveva una clientela discutibile, è vero, ma quando si tratta di far denaro, non è che controlli quanto puzza il sedere di chi compra”.

“Sì ma… io l’ho vista in azione… E… insomma, non guarda in faccia a nessuno. L’ho vista abbattere avversari multipli, schivare pallottole e il tutto senza schiodarsi quel… quel sorriso…”.

Octavia rabbrividì al solo pensiero. O forse era stato il vento?

“Pinkie è sempre stata un po’… strana. E la cosa è peggiorata da quando ha iniziato a farsi i cocktail personali, in mezzo a quelli dei clienti”.

“Pinkie Pie ha problemi d’alcol?”.

“Pinkie Pie è SEMPRE sotto alcol. Forse non la vedi o non ci fai caso ma ingolla periodicamente qualsiasi cosa tenga nella propria fiaschetta”.

“Eppure non sembra ubriaca…”.

“Credo funzioni al contrario. Fintanto che beve, è solo scema, folle e pericolosa. Quando smette… beh… meglio che tu non lo scopra”.

“Ok…”.

“Vediamo…”, borbottò l’amica con le lentiggini, “Ah, eccola!”.

Fluttershy era appollaiata sul tetto della tenuta, con il fucile di precisione incollato al muso.

“Che sta facendo?”, chiese Octavia, perplessa.

“Credo si stia… allenando”.

“Allenando?”.

“Sì. Senti?”.

Cadde un tuono lontano.

La musicista sgranò gli occhi: “Ehy… vuoi mica dirmi che…”.

“Ogni volta che si manifesta un lampo, lei conta i secondi… e poi spara all’unisono con il tuono. Visto che il temporale è lontano, sta usando un fucile di piccolo calibro. Un 22, credo”.

Lampo.

Fluttershy contò nella mente.

Tuono: il cane si abbatté sull’innesco.

La campana di Ponymood, ad un chilometro di distanza, emise un rintocco e qualcosa la scheggiò leggermente.

“Non… non male”, commentò l’amica grigia, pensando in realtà a quanto diavolo fosse fenomenale… Sparare a quelle distanze e in mezzo al vento di un temporale ormai prossimo… Non da tutti.

Applejack riprese a raccontare: “Lei ha combattuto nella Guerra Equestre assieme a Rainbow Dash. Erano negli Angeli della Morte”.

“Li conosco di fama. Uno degli squadroni più terrificanti che mai si fossero visti. Così almeno dicono…”.

“E dicono il vero”, sogghignò l’altra, “Era la squadra che veniva sempre schierata in prima linea. La prima ad entrare e l’ultima ad andarsene. Conteggiarono il maggior rapporto morti-uccisioni di tutti gli squadroni celesti”.

“Fatico a credere che quel pony mansueto fosse uno degli Angeli…”.

“Un tempo era molto più… come dire? Dinamica. Poi… perse un cadetto in battaglia, un cadetto a cui era molto affezionata”.

“Mh. Penso di capire”.

“La ritenne una propria responsabilità e, da allora, sembrò quasi impazzire dal dolore. Venne congedata un mese prima della fine della guerra e mandata in recupero presso l’Iron Will Medical Center. Quando ne uscì… non era più la stessa. Era scorbutica, scontrosa e beveva giorno e notte, isolata nella vecchia casa nella foresta”.

“Vedo che siete tutti soggetti raccomandabili”.

“Quando affrontammo i FlimFlam Brothers, venne a salvarci il culo e tanto mi basta. Capii che, quando c’erano gli altri di mezzo, la gattina gialla sapeva ancora graffiare”.

“A proposito di catapecchia… Rarity è la dentro con Grey Hound?”.

“Sì. Penso che lì saranno al sicuro”.

“Secondo me le avete fatto il torto più grande del mondo a mandarla in quel buco di culo!”.

Entrambe risero con foga. Applejack cercò di parlare: “Ah! E’ vero! Mi immagino la sua faccia!”.

“E pensa a cosa dirà!”, buttò lì Octavia, cercando di farne l’imitazione in falsetto, portandosi una zampa alla fronte, “Oh! Ma è terribile! Assolutamente indecente! Manderò un esposto per direttissima al sindaco! Devono far bonificare le paludi e spedire le mie scarpette nuove in lavanderia! Hound, caro? Ti spiacerebbe stringermi il corsetto, mentre sono occupata a impomatarmi il muso con la cipria?”.

Le due lanciarono veri e propri schiamazzi, placandosi dopo qualche minuto.

La compositrice si asciugò una lacrima: “Uhh… no dai… seriamente… Che ci fa una stilista in squadra?”.

Applejack si schiarì la voce e cercò di non ridere più: “Lei… lei è sempre stata un unicorno di alta classe, con agganci fin nelle più alte sfere sociali”.

“Tutto lì? Anche io ho conoscenze”.

“Sì”, disse l’altra, con sguardo saccente, “Ma tu non hai il suo fascino. Il suo carisma. Rarity può arrivare personalmente dove tu giungeresti solo con un esercito. In più gestisce traffici illegali di armi sottobanco e conosce alcuni incantesimi niente male”.

“Vi conoscete bene?”.

“In realtà non andiamo sempre d’accordo. Lei insiste col dire che sono una contadina brucafieno e io la ritengo una fighetta da cabaret”.

“Anche Twilight pensa una cosa simile. Però aveva usato parole diverse, l’ultima volta, in effetti…”.

“Lei iniziò con una piccola bottega di abiti ed espanse rapidamente il proprio business, grazie alle proprie doti… come dire… naturali?”.

“Intendi dire…”.

“Non mi fraintendere. Rarity è un pony di principio. Non si infilerebbe nel letto di nessuno, se non fosse per amore”.

“E tu che ne sai?”, domandò scettica.

“So che preferirebbe tagliere le palle di chi ha davanti, piuttosto che farsi anche solo toccare da qualcuno che non gli piace davvero”.

“Tipo… Gery Hound? Cioè… ancora non riesco a capacitarmi. Grey Hound con rarity?? Ma ti rendi conto?”.

“Puledra mia”, la derise l’amica, estraendo un’altra sigaretta, “Tu ti sei presa una sbandata per uno zotico grosso come un armadio a tre ante e che sa a malapena contare”.

“Ma che centra??”, farfugliò seccata, “Macky… Macintosh è carino… taciturno… misterioso. Coraggioso… forte… mhh…”.

“Ehy?... Torna tra noi…”, le disse, passandole una zampa davanti al muso.

L’altra rinsavì.


    Applejack le allungò una cicca.

“Non fumo, grazie”, reclinò con garbo.

AJ si accese la propria con uno zippo, parlando a denti serrati: “Cos’è? Non ti piace la marca?”.

“No. Non mi piacciono in generale”.

“Sarà. E dimmi”, continuò, soffiando una nuvoletta dalle labbra, “Ora parlami un po’ di te”.

“Di… di me?”, chiese interdetta.

“Sì. Insomma… non si incontra tutti i giorni una violoncellista che si diletta in combattimento, criminalità organizzata e per di più alleata con un pezzo da novanta come Discord”.

“Oh beh”, minimizzò, “Ad ognuno il suo… no?”.

“Non vuoi parlarne?”.

“No… no, è che io…”.

“Guarda che se non vuoi parlarne non è un problema”.

Applejack si rimise ad osservare di nuovo il paesaggio, con sguardo intenso e concentrato.

Octavia, tuttavia, sembrava piuttosto irrequieta: rimase in silenzio per alcuni minuti, poi iniziò a picchiettare gli zoccoli tra loro, a dondolare le zampe dal sasso e, infine, cedette.

“Io ero… ero una contabile”.

L’amica bionda sgranò gli occhi e si voltò lentamente verso la puledra: “…Tu… cosa??”.

“Hai capito bene”, farfugliò rapidamente, “Contabilità. Fogli, calcoli e altre scartoffie”.

“Questo spiega il tuo modus operandi…”.

“In realtà ho solo seguito le orme di mio padre… Fosse stato per me… non… non avrei di certo…”. E si ammutolì.

“Beh? Continua! Cosa avresti fatto, sennò?”.

Octavia si strinse le zampe anteriori tra le cosce: “Ecco io…”.

Applejack mosse il muso in avanti e sollevò le sopracciglia, spingendola a vuotare il sacco.

“Io… avrei tanto voluto… avere un mio negozio… di… insomma: una pasticceria”, concluse, estremamente imbarazzata.

Il pony arancione tornò ad osservare il paesaggio, quasi non avesse sentito nulla.

“E’… è un’idiozia, lo so…”.

“No”, rispose, con volto estremamente serio, “Non esistono sogni idioti. Nessun sogno è idiota”.

“Sì ma…”.

“Niente ma. I sogni sono quello che ci portiamo dentro. Quello che desideriamo davvero. Non esistono sogni idioti…”.

Ci fu un altro attimo di silenzio, interrotto da Applejack: “E come mai non hai coltivato questo tuo desiderio?”.

“Non è che non ci abbia provato. Ma… ecco… Io non volevo fare la contabile, che era poi il mestiere di mio padre, e di sicuro aveva visto in me grandi potenzialità. Provai, per un certo tempo, a lavorare in qualche piccola bottega di dolci… ma… semplicemente ero una frana, ai fornelli. Pensa che”, aggiunse ridendo, “Una volta riuscii persino a scambiare la farina con il pan grattato! Quei muffin sembravano carta vetrata!”.

La puledra dagli occhi verdi sorrise: “E la musica?”.

“Continuai per un paio di anni la mia carriera da contabile. E… una sera… mentre tornavo a casa sfinita, vidi che davano uno spettacolo nel teatrino in piazza. Una compagnia itinerante: corde, qualche ottone e, dulcis in fundo, una fisarmonica suonata da un vecchio pony rugoso”.

“Il complesso del secolo…”.

“Non giudicare solo dalla premessa. Ero scettica ma non volevo tornare subito a casa e mi avanzava qualche bit in tasca, così decisi di tentare. E… se non fosse stato per quello… forse non sarei nulla di ciò che sono ora”.

Applejack la prese in giro: “Intendi in senso buono o cattivo?”.

“Piantala. Quei tizi suonarono in un modo indescrivibile… Quando i crine si mossero sulle corde… qualcosa mi entrò nell’anima… Quella… quella melodia… quelle note… Era come… come se mi trovassi su una piccola barca di legno, che seguiva i moti ondosi di un fiume dal tragitto impossibile…”.

“Uao. Musicista e poeta…”.

Octavia non sentì nemmeno la frecciatina, impegnata com’era a descrivere quel ricordo ancora così vivido: “Poi si aggiunsero gli ottoni e, quella fisarmonica triste… struggente… straziante…”.

“Mhh… non sono un’esperta di musica ma… violini, ottoni e… una fisarmonica?”.

“Tu non hai idea di cosa avesse composto quel gruppetto di artisti. Per la prima volta in vita mia… piansi. Piansi a dirotto, come una bambina. Non riuscivo a trattenere le lacrime. Era come se mi avessero fatto esplodere una bomba nel petto. Tutto… tutto era pura emozione”.

L’altra finì la sigaretta, la spense e tornò ad osservare il cielo solcato dai lampi distanti, senza smettere di ascoltare l’amica.

“Poi… sempre quella sera…”, riprese sorridendo, “Un pony un po’ anziano… molto elegante… si avvicinò a me. Aveva il manto viola scuro, una barba grigia ben curata e vestiva con abiti di classe. Mi chiese perché piangessi ed io… tra i singhiozzi… gli spiegai ogni cosa. Temetti una reazione avversa e lui, invece… mi mostrò meglio il suo volto. Solo in quel momento notai che i suoi occhi erano arrossati e le guance un po’ arruffate. Non ero stata l’unica. Fu allora… che conobbi Octav Deep Synphony”.

“Ne parli come se fosse molto importante, per te…”.

“Lo era”, ammise, “Lui si offrì di darmi lezioni di musica serali, quasi ogni sera. In cambio mi chiese soltanto una zampa per sistemare alcuni conti per un piccolo appartamento in cui viveva. Sembrava ricco ma, in realtà, navigava in bruttissime acque. Comunque… fu con lui che scoprii il mio talento per il violoncello. Mi ricordo ancora… le lunghe nottate passate insieme… seduti uno accanto all’altra, con i nostri strumenti… a suonare in fantastici duetti. Il mio strumento, in realtà, era di recupero! Ma andava bene lo stesso. Lui, invece, aveva un bellissimo violoncello cesellato, con tanto di nome inciso sopra. Roba da collezione”.

“E… come per tutte le belle storie, immagino…”, sussurrò Applejack, presagendo il peggio.

“Già… come tutte le belle storie, anche quella era destinata a finire. Una sera mi recai da lui, per le lezioni di routine… e… e lo trovai nel bagno, privo di vita. C’erano alcuni fori nelle piastrelle del muro e… sangue. Quando lo vidi… non saprei dire cosa provai. Non rimasi scossa… non mi disperai come mi sarei aspettata. Sentii solo… un blocco in gola. Come un bolo che non voleva saperne di scendere. Andai nella sua camera. Era tutto sottosopra. Sul letto, aperto e un po’ strappato, vi era un grosso fascicolo pieno di scritte: l’assassino doveva averlo sfogliato di gran fretta. Lessi”.

Un tuono più forte risuonò per la campagne e il vento si intensificò. Il temporale si stava avvicinando.

“Dal documento capii. Deep Symphony era un ladro. Tutto quello che aveva in casa, dai quadri accatastati all’argenteria… tutto era stato trafugato. Tutto… tranne il suo violoncello”.

“Mh. Un duro colpo, immagino…”.

Octavia scosse debolmente la testa ed Applejack notò gli occhi dell’amica farsi umidi. Il suo labbro tremò.

“Poi… nell’ultima… nell’ultima pagina… vidi una scritta… che… che attestava un ordine che avrebbe dovuto fare di lì a poco. Una cifra esorbitante. L’acquisto per… per un violoncello. E… e accanto alla scritta… era…. era stato scarabocchiato rapidamente… -per Octavia-“.

La musicista tirò su con il naso e cercò di ricomporsi: “Spostai il fascicolo… e sotto di esso vi era un bel coltello in argento. Lo afferrai, sentendo un dolore incontenibile salirmi dal ventre. Alzai lo sguardo… e allora lo vidi. La lama mi riportò l’immagine riflessa di un sicario alle mie spalle: evidentemente era rimasto zitto zitto ad aspettare il momento giusto. Non so cosa successe. Non so perché agii in quel modo. Sta di fatto che mi girai di scatto e l’oggetto volò via dalla mia zampa, come se fosse stata una farfalla. Una farfalla che si piantò dritta nel suo braccio. Il tizio emise un urlo e cadde a terra, unitamente ad una pistola. Calciai via l’arma. Lui cercò di divincolarsi. Presi il mio vecchio violoncello e glielo sfracassai sul cranio, come un maglio da carpentiere. Quello non voleva saperne di crepare, così lo garrottai con le corde dello strumento. Fu… la mia primissima vittima”.

Il pony dai crine dorati sorrise con malizia. Conosceva bene quella sensazione: “Il primo non si scorda mai, eh?…”.

“Già. Poi fuggii. Presi il violoncello di Symphony, una modesta quantità di denaro che trovai nel suo portafogli e… semplicemente scappai. Non tornai mai più a casa. Non rividi mai più mio padre”.

“Perché non tornasti?”.

“La verità? Non lo so. Non lo so davvero. Paura? Paura che mi scoprissero? Che cercassero me, per arrivare alla mia famiglia?... Confusione mentale? Follia? Non lo so. Ma scappai. Presi il primo treno della stazione che trovai e partii verso una meta sconosciuta. E così giunsi a Manehattan”.

“La grande città”.

“E anche un grande schifo, per chi, come me, era poco più di uno sbandato. Ero una puledra giovane, senza casa, con giusto un po’ di soldi e un violoncello. Non mi si prospettava un avvenire molto roseo. E infatti… non lo fu affatto. Cercai impiego ma trovai solo proposte assai poco entusiasmanti. E, se permetti, se proprio devo darla via a pagamento, preferisco farlo in posti rispettabili. Così… tirai a campare come potevo. Il denaro finì presto, prosciugato da affitti assurdi per un semplice monolocale. Cercai persino di suonare per strada. Sfoderai l’intero repertorio che avevo imparato con Deep. Ma… ma quello non era il suo salotto, bello e confortevole. I passanti… i passanti non erano Deep… con il suo sguardo gentile e rispettoso… lo spirito caldo e scintillante. A nessuno fregava nulla di arte o musica”.

Si sentì uno sparo appena accennato. Fluttershy aveva sbagliato una cadenza tuono-proiettile.

“Mi rimasero pochissimi soldi e decisi… di fare una cosa. Portai il violoncello da un mastro artigiano, che mi permise di aggiungere due semplici lettere, dopo quelle in firma. Octav divenne Octavia”.

“Quindi i tuoi ultimi soldi finirono in mano ad un artigiano?”.

“Sì. So che non capirai ma…”.

“No… ti ho già detto che queste cose io le capisco…”.

“Ok… anche perché… è vero: con quel gesto mi giocai gli ultimi pasti caldi. Iniziai seriamente a patire la fame. Una notte, mi ricordo, stavo camminando in viottolo schifoso, al buio. Mi trascinavo pesantemente il violoncello, quasi fosse il peso con catena di un carcerato e… e poi… non capii più nulla. Vidi solo il duro asfalto farsi sempre più vicino e impattare dolorosamente contro il mio muso. Ero allo stremo. Svenni. E… quando ripresi i sensi… Lui era lì”.

“Discord?”.

“Sì. Mi ritrovai su una branda di un appartamentino piccolo e disordinato. Discord era seduto ad un tavolo microscopico, in boxer e canottiera, mangiando cereali al latte come un pozzo senza fondo”.

Applejack si grattò la chioma, perplessa.

L’amica continuò a raccontare: “Mi rifocillò, mi fece fare una doccia calda (cosa che manco vedevo da mesi) e mi ridiede il violoncello, senza nemmeno un graffio. Quindi… mi chiese se mi sarebbe interessato diventare una sorta di suo… aiutante. In realtà lui usò il termine -compitore di malefatte debitamente occultate- ma il concetto è chiaro già di suo. Mi disse che si stava recando a Ponymood in cerca di fortuna. Aveva un piano, per la testa, qualcosa che aveva a che fare con il Decreto Celeste da poco emanato. Di nuovo, non so perché accettai. Forse ero solo stufa di essere nessuno. E, dopotutto, l’opzione era andare con lui o tornare in strada. L’esito è quello che sai. Impiegammo quasi un anno prima di partire per la vostra città, anno che passai a perfezionarmi e in cui svolsi impeccabilmente dozzine di compiti per il draconequus. Imparai l’arte del combattimento e divenni ben presto una figura temuta e rispettata… specialmente quando seppi che Grey Hound si stava interessando alle nostre malefatte”.

“E poi sei arrivata da noi”, commentò Applejack.

“Già”.

“E ti sei fatta prendere a calci nel culo da un pony rosa”.

“Ehy!”, puntualizzò con fermezza, “Non mi ha mai sconfitto realmente!”.

“Vero. Sennò saresti morta”.


    “Bene”, esclamò quindi la puledra dagli occhi viola, “Ora posso dire di conoscervi tutti un po’ meglio. Beh. Quasi tutti…”.

Applejack capì dove voleva arrivare e tentò di sviare il discorso: “Non c’è molto da dire su Macintosh. O forse dovrei chiamarlo… Macky?”.

“Macintosh potrò conoscerlo più tardi… magari di persona. Ora mi piacerebbe sapere qualcosa di più su colei che ha organizzato l’affondamento dei FlimFlam, che ha consolidato un quasi-monopolio dell’alcol in Ponymood, assaltato una città fortezza e ne è fuggita indenne”.

L’altra non parve gradire quella parole: “Non sono una tipa molto interessante. Il mio è un passato noioso”.

“No. Prima mi hai fatto quel bel discorso sui sogni. Lo so che in campagna siete tutti un po’… uhm… tardi… Però ti garantisco che chiunque saprebbe fare due più dure. E poi… mi hai accennato di tuo padre, per un istante”.

Applejack si mise il borsalino in testa: “Non ti sfugge niente, eh?”.

“Come hai detto tu, però: se non vuoi parlarne…”.

“Ti annoierei”.

“Ne dubito. Vedi… in realtà non me ne frega molto di sapere chi ti cambiava il pannolino da piccola. E’ che… c’è una cosa, di te, che non capisco…”.

“Cosa?”, domandò incuriosita.

Octavia si sforzò di essere chiara e parlò con una certa lentezza: “E’ che… Tu hai avuto i tuoi problemi con la legge. Hai una tenuta, parenti, un’attività. Quando vi siete accorti che stavate colando a picco, siete ricorsi a misure un po’ drastiche ma forse necessarie. E questo lo capisco. Avete tolto di mezzo i concorrenti scomodi e fatto valere i vostri diritti all’organizzazione corrotta. E anche questo ok. Però…”.

“Dove vuoi arrivare?”.

“Quando… quando Celestia vi ha catturate... O meglio: quando Chrysalis vi ha ingannate… e… dopo essere fuggita da Counterlot, lasciandoci quasi le penne… Perché?... Perché non ti sei fermata?”.

L’amica corrugò leggermente la fronte e non disse nulla.

La compositrice continuò: “Avresti potuto scappare e andartene. Lasciar perdere Chrysalis, riprendere la tua attività o, addirittura, ricominciare da zero. Perché insistere? Non hai nulla da guadagnare. Puoi solo perdere. Perdere la tua vita. La vita dei tuoi cari. La tenuta. Perché continuare questo gioco pericoloso?... A quale beneficio intestardirsi fino all’ultimo nel contrastare la mutaforma?...”.

Il gangster con le lentiggini inarcò leggermente la schiena, puntando il muso verso il terreno.

Lo sguardo era intenso, anche se indecifrabile, e gli occhi si muovevano in punti casuali sull’erba, come se stesse cercando le parole per una risposta molto importante.

Sospirò e abbassò leggermente le palpebre.

L’interlocutrice ne percepì il disagio e si affrettò a puntualizzare: “Vabbè dai, non imp…”.

“Sono una stronza”.

“Eh?”.

“Sono una stronza, va bene?”, ammise, con voce atona, “Sono una lurida egoista. Hai perfettamente ragione. Avrei potuto fermarmi. Avrei potuto smettere quando ancora ne avevo l’occasione. E invece… ho continuato… di mia spontanea volontà”.

Applejack mise le zampe anteriori dietro alla schiena, usandole come supporto sul terreno.

Gettò la testa all’indietro, spandendo i crine e facendo cadere il cappello.

Sorrise ed osservò il cielo nebuloso.

“E’ curioso, sai? Ho fatto proprio come mio padre. Ovvero… quello che mi ero promessa mille volte di non compiere mai. Ho cercato di salvare la tenuta e la mia famiglia spingendomi in un terreno ancor più pericoloso. E… proprio come successe a lui… ora non posso più uscirne”.

“In che senso?...”.

“Arrivi ad un punto…”, continuò melanconicamente, “In cui vieni inghiottita dal meccanismo. In cui tutto ciò che prima ti sembrava illecito, amorale o sbagliato… diventa improvvisamente il tuo mondo, la tua natura, il tuo… modo di pensare. Io… io avrei potuto fermarmi. Ma non l’ho voluto. Per cosa? Per la mia tenuta? Per Applebloom? La nonna? Big Mac? Forse… Certo, non avere Chysalis tra i piedi gioverebbe alla sicurezza di tutti. Ma hai visto la sua sortita di questo pomeriggio, no? Eri lì. Ho di nuovo rischiato di… farli amazzare… e… e tutto perché…”.

La puledra chiuse gli occhi e deglutì: “…Tutto per… per me. Per la mia vendetta. Per… per il piacere di… di…”.

“…Di dimostrare a tutti che sei la regina sulla scacchiera. E non il pedone. Vero?”.

Aplejack si voltò verso l’amica.

“Io so di cosa parli”, continuò il pony grigio, “Lo so benissimo… Io non ho legami. Non ho una tenuta da difendere, parenti a cui voler bene… Ci sono solo io. E basta. Posso mettere a rischio la mia vita tutte le volte che mi pare. Perché… adoro quello che faccio. E, secondo me, noi due siamo molto simili. La differenza è che tu possiedi ancora qualcosa che potresti perdere. La tua strada verso il tuo sogno si può macchiare del sangue di persone a te care. I sacrifici a cui potresti andare incontro potrebbero coinvolgere non soltanto te…”.

In quell’esatto istante, le parole di Zecora le risuonarono nella mente: “Nulla volevi eppure molto hai ottenuto. Sei giunta fin qui e solo tu l’hai voluto. Ti sei costruita un ponte di morti, per cercare di scrollarti il peso che porti. Potresti fermarti… eppure non vuoi. Prosegui nel cammino e chiedi aiuto a noi. Aiuto desideri e aiuto avrai, se è ciò che richiedi… ma davvero sei pronta sacrificare tutto ciò che possiedi?...”.

Una strana sensazione di disagio le schiacciò il ventre.

“AJ?”, chiese Octavia, “Stai… stai bene?”.

“Sì, io… sto bene”, e si alzò.

“Ehy, dove vai?”, domandò l’amica.

Una folata di vento le investì entrambe.

“Sta arrivando il temporale. Meglio tornare dentro”. La padrona di casa si allontanò a zampa spedita.

La musicista raccolse il cappello e la osservò per qualche istante.


Fluttershy esplose l’ultimo colpo della scatola, giusto in tempo per l’arrivo delle prima gocce di pioggia.

Lontano, proprio sotto il campanile, il parroco uscì dalla chiesetta e alzò gli occhi al cielo.

“O Celestia vuole ancora farsi sentire…”, commentò solennemente, “Oppure ho di nuovo esagerato col Vin Santo…”.
   
 
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