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Autore: Dulcamara_KR    06/04/2013    1 recensioni
Un urlo, un tonfo, la pesantezza dell’etereo.
Le unghia.
Percepivo quelle unghia che incisive palpavano la pelle delle mie ginocchia attraverso il bruciante ventre del mio involucro materno.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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~Le sein du Lotus éthéré

Un urlo, un tonfo, la pesantezza dell’etereo.
Le unghia.
Percepivo quelle unghia che incisive palpavano la pelle delle mie ginocchia attraverso il bruciante ventre del mio involucro materno.
La mia casa, il mio rifugio, sì come una cella dalle soffici catene che il flusso del tempo enfatizzava, incrementava perpetuamente, piacevolmente.
Quel grembo carezzevole si accostava amabilmente alle floride carni immature ch’esso accudiva, trascinato da quelle dita generatrici che giacevano laddove le mie cieche pupille non erano capaci di approdare. 
Impalpabile, il sole irrideva quei miei reclusi occhi che avvinghiavano esitanti nient’altro che il visivo vuoto.
Eppure, un barlume della sua luce giungeva scarlatto al mio corpo, raccolto in un sanguigno liquido rossastro che salvifico defluiva in quelle mie flaccide arterie, valicando le esili costole che costruivano fiaccamente il mio petto.
Non ero che un infante, e come tale bramavo instancabilmente il fremito di un’umida pelle pervasa dalla vivida letizia che una madre offre al proprio fanciullo, l’esultante benessere che lo schiudersi di floreali petali assopiti sollecita.
Ambivo alla cattura di quello sguardo famigliare, sino a liquefare i miei occhi nella sua clemente e armoniosa sostanza.
Agognavo di congiungere le mie braccia ai fianchi cedevoli che carezzevolmente scivolavano sulle sue anche, giovare di quella nobile essenza di cui mi sarei nutrito con perseveranza, coltivando l’innato sorriso di naturali rampicanti maternamente intrecciati.
L’accostarsi al mondo tangibile con lo splendore dell’innocenza, il fiducioso gesto di dipingere un immaginario dai colori fertili, fulgidi, appagati e l’idilliaco e puerile impulso navigatore cibavano con propensione l’ingenua aspirazione di un bambino.
Io, un bambino. Io e la mia nuda aspirazione.
Il tepore di quelle dita mi penetrò sin dentro quei miei sottili pori minuti, picchiettando esasperatamente come un esorabile flusso di docile pioggia dalle gocce deformabili, tenui, malsanamente taglienti.
La Pioggia non la vidi quel dì, ma ne riconobbi vividamente il suono, il battito fremente.
Lei c’era, aspettava instancabilmente.
Mi aspettava.
Mi risucchiò nel turbine demolitore di sorrisi, i cui vitrei rami deformarono il delirio della mia incontaminata fantasia.
Lentamente, Ella si dissolse.
La pesantezza dell’etereo squarciò irrimediabilmente il gioco delle mani che agguantavano fiduciosamente le umide pelli del cordiale involucro protettivo.
Era dunque capace di proteggermi?
Un urlo, un tonfo.
 Il mio stomaco si contorse alla percezione di un colpo rovente che parve deformarmi le ossa, che parve disfarsi del morbido moto vitale delle mie carni acerbe.
Esalai un distorto gemito soffocato.
In quell’istantaneo suono gutturale fui capace di ascoltare la mia voce, agganciata al tremolio di un animo vacillante che fuggiva inquieto sotto una volta di meteoriti incandescenti.
Diedi un colpo al vigoroso guscio inarcatosi alla mia presenza.
Lo ripetei, in un tormentato e ostinato gesto tendenzialmente schizofrenico, malato.
Mi ammalavo dell’angoscia a cui la mia ingenua integrità mai fu capace di accostarsi.
Mi pervase incurabilmente; come un cancro, privandomi dei limpidi sguardi benevoli che porsi sotto il cuscino della coscienza in un esauriente gesto di protezione, di preservazione.
Fallii.
Fallii, reiteratamente.
Soffocai.
Un brusco gesto mi scaraventò sulla parete sinistra di quella capsula arroventata che si chinava minaccevole sulla mia esile figura.
Afferrai irrimediabilmente i miei stessi fragili pugni che parvero frantumarsi in vile polvere di cieli inattesi, di impalpabili sagome decadenti che la sabbia desertica scolpiva nel vento.
Mamma, salvami. Voglio stare con te.
Un urlo, un tonfo.
Repentinamente, un varco interminabile si aperse e fui straordinariamente capace di dischiudere le palpebre dinanzi un bagliore che parve ardermi in un fuoco di brutali verità.
Un urlo, un tonfo.
Il volto di mia madre, sfuggevole quanto illusorio.
La vidi. Quel soave sorriso le dipingeva le sottili labbra con fare grottesco.
Un sorriso.
Un altro.
Lei, angelica, ilare; una sakura dischiusa.
Lei, aspra, astiosa; un pugnale.
Sorrisi.
Io, un loto etereo.  



Note:
Le sein du Lotus éthéré
: (In francese) Il grembo del loto etereo.
Sakura: (In lingua giapponese) Fiore di ciliegio.






~ Angolo dell'autore
Il primissimo testo originale pubblicato. La natura complessa di questa tematica mi ha reso la stesura alquanto complessa e tortuosa, ma il significato vivido e cosciente ch'esso racchiude mi ha condotta alla sua conclusione. 
Lo ammetto, le mie capacità di scrittura sono strettamente limitate e di un carattere del tutto scadente. 
Ciònonostante, spero vivamente che il concetto di questo viaggio alla scoperta delle aspre avversità dell'esistenza possa afferrare i vostri occhi scrupolosamente osservatori, ed in primis, il vostro animo.
   
 
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