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Autore: Nemainn    08/04/2013    4 recensioni
Non viste e dimenticate, agli angoli delle strade, ci sono sono storie che aspettano di essere raccontate. Storie di come si possa perdere chi è un padre, per poi capire come si possa trovare una ragione per andare avanti.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Memorie -

 

Quando la pioggia cade così, sottile, fine, simile alla nebbia, il mondo perde i suoi contorni.
Si sfumano, come sciolti, in questa aria appiccicosa di acqua e smog.
Guardo il vapore del mio fiato e di quello del fiato di tanti altri, guardo la gente che passa e mi guarda, vergognandosi di vedere me e chi mi sta accanto, e mi chiedo ancora una volta perché.
A dire la verità, ora, a distanza di un paio d'anni, il dolore è sfuocato, meno pressante e più lontano. I ricordi fanno meno male, anche quelli felici, paradossalmente, sono venati di dolore. Il caldo di una casa accogliente, le grida di una madre che però sai che ti ama. Il complice affetto di un padre.
Mi avvolgo meglio nello sbrindellato sacco a pelo e mi stringo al vecchio Florì steso accanto a me in questo angolo riparato.
Lui è Rumeno, è arrivato qua in Italia perché sperava di rivedere e ritrovare il figlio e di trovare un lavoro.
Sua moglie era morta e lì in Romania non aveva più nessuno e neppure più nulla da fare se non morire di fame. Quindi ha preso il suo vecchio zaino militare, si è un militare dell'esercito rumeno in pensione, ed è venuto qua, a cercare il figlio sceso in Italia molti anni prima troncando i rapporti con i genitori e che non si è mai più fatto sentire, scomparendo nel nulla.

"Si avvisano i signori passeggeri che L'Interregionale delle 02.15 è in ritardo di 20 minuti...."

La voce registrata che attraverso gli auto parlanti da' l'annuncio è distante e fredda.
Stasera fa un freddo tremendo, umido, un gelo che striscia attraverso gli abiti e ti si appiccica addosso.
La stazione ci offre il riparo dei suoi corridoio e delle sue tettoie e io e Florì, come sempre, e come tanti, ne abbiamo approfittato.
Ci siamo incontrati quando io avevo appena perso tutto, tutta la mia famiglia era morta.
Avevo sedici anni e odiavo il mondo alla maniera dei sedicenni. Nulla di strano. Avrei potuto andare a vivere da mia zia ma non volevo, non volevo quella donna così simile e così diversa da mio padre. Non volevo la pietà del suo sguardo su di me come al funerale, il peso del suo dolore, la condanna delle sue aspettative. Non volevo vivere con quella donna che mi guardava continuamente con gli occhi colmi di dolore, ne avevo abbastanza del mio, non potevo sopportare anche il suo.
Allora me ne andai, in quella giornata di fine febbraio ho preso il sacco a pelo e ho imboccato la strada che portava lontano dal mio paesino, e mi sono trovato a Milano. Senza lavoro, senza soldi, senza una vera speranza, senza nulla.
Poche settimane dopo la mia follemente coraggiosa e stupida partenza ero decisamente affamato e depresso, stavo seriamente pensando di tornare da mia zia con la coda tra le gambe seduto in un angolo dietro il Mac vicino alla stazione centrale.
Ne avevo passate molte e credevo di non farcela più, non sapevo che era un buon posto per ottenere un panino. Non sapevo che la porta sul retro del Mac, in quel vicolo maleodorante e cieco, si apriva e ne uscivano i ragazzi che ci lavoravano con sacchi neri pieni di panini ancora caldi ma che per legge non potevano più essere venduti ma solo buttati. Loro li lasciavano lì, casualmente, fingendo di non sapere chi portava via i panini, e chi arrivava lì affamato mangiava a quattro palmenti. Se arrivava in tempo.
Florì mi si era avvicinato con un panino, e nel suo italiano stentato ma con un sorriso da amicone aveva cominciato a parlarmi di suo figlio, di come lo cercava da anni inutilmente ma senza demordere.
Un colpo di tosse violenta e spasmodica interrompe i miei pensieri.
Florì accanto a me accartoccia il suo fragile corpo di sessantenne, che ne dimostra quasi ottanta, in un accesso di tosse che lo piega, mozzandogli il respiro.
Gli stingo la mano, è tutta la famiglia che ho adesso. È il padre che mi ha regalato la strada, non sopporto l'idea che stia così, che possa morire, che anche lui scivoli via dalla mia vita.
La tosse non finisce, spasmi secchi, violenti, che gli rubano le forze ormai scarse e il poco fiato. Vedo che le sue labbra e lo straccio che usa come fazzoletto sono sporche di sangue rosso, brillante, terrorizzante. In preda al panico gli stringo la mano sul braccio troppo magro.
"Florì! Ti prego fatti portare all'ospedale! Non vedi che stai troppo male? Almeno stanotte starai al caldo!" Lui scuote la testa, gli occhi grigi sono come sempre fieri e severi, padroni della situazione anche in quel momento.
"No Al, non ho documenti, mi portano a Romania!" Una lacrima che subito nascondo nasce nei miei occhi. So che non sarebbe così, ma lui non ha mai voluto sentire ragioni, tutto quello che secondo lui potrebbe farlo riportare al suo paese è automaticamente proibito.
Dopo due anni che vivo con Florì tra la stazione e il metrò, nell'invisibilità, nella Milano in cui non esisti, non credevo di poter ancora piangere. Da pochi giorni sono maggiorenne e non potrebbero farmi nulla. In teoria non avrei più bisogno di lui e di questa clandestinità ma non è vero. Lui è un padre, mio padre, per me.
Mi gratto al limite della disperazione i capelli incolti ma abbastanza corti, non so che fare. Non so come spiegare a quest'uomo orgoglioso, fiero e risoluto, più dignitoso di molti uomini per bene, che non lo voglio perdere.
La tosse di Florì sembra calma ora ma so che si sta trattenendo per amor mio, per non spaventarmi ancora di più.
Poi mi guarda, vedo chiaramente il suo viso chiazzato dal sangue e gli occhi infossati cerchiati di nero, la pelle tesa come su di un teschio.
I suoi occhi mi studiano e soppesano, mi tengono inchiodato al suo sguardo, che diventa improvvisamente dolce come una carezza.
Mi mette una mano sulla spalla e scuote la testa. Non parla, non ha più fiato, e usa le sue poche forze per comunicare con me. Si punta il dito al petto e scuote la testa. Più volte, finché non mi costringe a capire.
Solo allora piango.
"Non morirai cazzo, non morirai!"
Non ha fiato, è di nuovo piegato in due dalla tosse, il suo fragile corpo si sta spezzando sotto la furia di una malattia che non conosco e che lo ha consumato in silenzio fino all'ultimo.
La stazione grigia, il rumore assordante dei treni e i passi frettolosi dei pochi che sono qua a prendere un treno e che ci sorpassano velocemente, di fretta, senza fermarsi a guardare due barboni, sono informazioni che la mia mente non registra, ora per me c'è solo Florì.
Mille e ancora mille giorni vorrei vivere con lui che mi racconta della sua Romania, della sua famiglia, di suo figlio che non ha mai cessato di cercare e amare.
Ma un ultimo stanco fremito e quell'aquila fiera smette di solcare il cielo cadendo tra le mie braccia.
Piango, senza emettere un solo fiato.
Ho sentito il mio cuore che si rompeva, il meccanismo dentro guastarsi e incepparsi.
So cosa devo fare; me lo ha detto tante volte e io non volevo mai ascoltarlo. Ma in quel suo modo gentile mi costringeva sempre a dargli retta.
Prendo il suo zaino e prendo quello che mi può servire tra i suoi pochi averi, e trovo la vecchia foto di suo figlio.
La tengo, se mai lo troverò gli dirò che pezzo di merda è stato e quale affetto immeritato abbia avuto da suo padre.
In un attimo ho piegato il sacco a pelo, messo tutto nello zaino e mi sono allontanato da Florì lasciandolo avvolto nel suo sacco a pelo slavato e liso, nel suo sudario di solitudine e abbandono. Niente domande da parte di nessuno, solo il grigiore spento che precede l'alba a circondarmi tra mura altrettanto grigie e fredde.
Cammino sotto la pioggia, il floscio e fradicio cappello di Florì ben calcato sulle orecchie, vecchio e sformato ma ancora pieno del ricordo di chi prima lo indossava con grande amore e cura.
Il sole, poi la notte e poi di nuovo il sole.
Quante volte?
Ho girato senza quasi nessuna sosta, senza meta, spezzato dal dolore della perdita.
L'anima persa e il corpo sempre più debole e in fiamme mi trascinavo lungo strade che non conoscevo. Non so dove sono, che zona di Milano è, ma direi che in un quartiere così elegante non ci sono mai stato.
Un piccolissimo parco con poche panchine sotto gli alberi spogli e malati, due piccoli vialetti che si incrociano e un lampione intermittente e solitario.
Metto lo zaino sulla panchina riparata da una piccola tettoia pensata più per il sole che per il mal tempo e liberando le spalle spezzate mi infilo nel sacco a pelo.
Voglio dormire un po', almeno un po'.
In questi giorni, solo, nessuno mi ha disturbato, neppure i soliti che cercano di abbordarti. Forse non me ne sono semplicemente accorto, non lo so.
Gli occhi mi si chiudono mentre sento la dolorosa mancanza al mio fianco, la buonanotte mormorata da una voce salda e profonda.
La luce mi ferisce gli occhi e il mio stomaco brontola come la sirena di una fabbrica, non mi ricordo neanche se ho mangiato in questi giorni, ma mi accorgo che il sonno mi ha aiutato a tornare lucido, ad accantonare almeno in parte il dolore. Perché è sempre lì, pronto a prendermi e divorarmi con fauci fameliche.
Non è neanche giorno, la luce che mi ha svegliato è il lampione che ha deciso di tornare a funzionare.
Sorrido e sto per rimettermi a dormire quando mi accorgo che un ragazzo di circa sedici anni è seduto ai piedi della panchina, stretto in un giubbotto che una volta doveva essere stato bello e costoso.
Lo osservo, mi ricorda me in quello che sembra essere stato un altro tempo, tanto tempo fa, ma davvero sono stati solo due anni fa?
Mi passo la mano sulla barba nera e vorrei tanto farmi una doccia bollente, mangiare un pasto caldo, dormire in un letto. Soldi per un lusso simile, almeno per tre o quattro notti, li ho.
L'eredità di Florì...
"Tu che ci fai lì?" Sobbalza come se lo avessi schiaffeggiato e limpidi occhi castano dorato mi fissano in un volto sporco segnato dalle lacrime.
Si alza di scatto facendo la faccia da duro e io sorrido, attento però a non farglielo vedere.
"Quello che ci fai tu!" La voce è bassa, il timbro dolce, la tonalità di un ragazzo molto più giovane dell'età che sembra avere.
"Non penso sai? Io sono qua a dormire e non si dorme seduti ai piedi di una panchina." Mi siedo e gli porgo la mano."Alan, piacere di conoscerti"
Mi squadra sospettoso e poi fissa la mia mano. Beh è solo una mano ma sembra che non sappia se può stringerla o no.
La tengo ferma e alla fine la afferra.
"Io sono Cr...Roby." Rido e lui sembra offeso.
Alzo le mani in un gesto di scherzosa resa e annuisco.
"Bene Roby," se vuole che lo chiami così per me quello è il suo nome "vuoi mangiare?" Il suo sguardo si illumina e prima che mi possa rispondere gli ficco in mano un pacchetto di crakers, tutto quello che ho. Ma io so come si fa a non mangiare per un po' gestendo la fame, il pulcino lì sembra non mangiare da secoli invece.
"Grazie" e subito li divora famelico e quando li finisce guarda con rammarico la plastica vuota.
Mi guardo attorno e vedo che è meglio cambiare aria, comincia a muoversi un po' di gente anche se è ancora buio e non è il caso che in quello che sembra un bel quartiere come questo due barboni si facciano troppo vedere, specialmente se uno dei due ha la faccia di un minorenne scappato da casa.
"Andiamo, seguimi." Io mi avvio, se è anche solo un po' furbo mi seguirà ma la scelta deve essere solo sua. Lo fa', ma mi guarda in un modo che definirei cagnesco.
"Non ho bisogno del tuo aiuto, è già un mese che mi arrangio da solo!" Sì, sì, è per questo che sembri uscito da una centrifuga, penso. Ma mi limito ad annuire.
"Si vede." Poi lo squadro bene, è magro ma non tantissimo, quindi in qualche modo si deve essere arrangiato, ma come?
"Si! Si vede! Me la sono cavata alla grande.." Qui la sua voce prende una inflessione quasi dolorosa, vedo nei suoi occhi la vergogna e non chiedo nulla. Forse so come se la è cavata, anche io me la cavavo così prima di conoscere Florì.
Un dolore acuto mi artiglia il cuore a quel pensiero. Ma ora quella specie di pargolo dipende da me, penso, e accantono la mia sofferenza. Che si sia sentito così Florì?
Ero forse io la ragione che lo spingeva ad andare avanti? Prendersi cura di me?
Sorrido mestamente e non parliamo più per un bel po' mentre lui continua a seguirmi fedelmente, una specie di cucciolo.
Ho un pensiero, un'idea, e spero mi vada bene, che la fortuna mi assista.
Un ristorante dove il padrone, spesso, in cambio di una mano a lavare i piatti o per altri lavori, ci ospitava a dormire nelle stanze del personale, se erano libere, ci dava da mangiare e qualche soldo.
Camminiamo per ore e alla fine attraverso una serie di vicoli e sbuco sul retro del locale e lo vedo buttare l'immondizia, aspetto che mi veda. Lulle mie labbra spicca un mesto sorriso e appena mi vede mi saluta con la mano facendo segno di venire avanti. E' pakistano e il suo vero nome non lo so dire bene, così lo chiamo Kal.
"Ciao Alan! Dove è Florì?" Il mio sguardo si adombra, sapevo che me lo avrebbe chiesto ma ho bisogno di un posto dove stare per un po' di giorni.
Penso capisca dal mio sguardo che qualcosa non va, era anche suo amico e glielo devo dire.
"È morto quasi una settimana fa Kal, la sua tosse ha vinto." Io ho gli occhi bassi ora, e l'uomo piccolo e scuro annuisce mentre sul suo viso passa la mano cupa del dolore.
"Era un uomo forte, un guerriero. Ora sarà felice con il suo Dio.” annuisce mesto “E lui chi è?" Indica il pulcino spaventato ma con la faccia da duro subito dietro di me.
"Un amico, si chiama Roby"
Lo guarda quasi per un tempo infinito, cercando qualcosa nei suoi occhi, cercando forse un motivo di diffidenza, ma non lo trova. Vede solo tanta paura e tanta fame dietro a quella espressione dura che però non inganna nessuno. Alla fine annuisce più a se stesso che a noi due, sovrappensiero.
"Ho proprio bisogno di una mano con il locale, stiamo facendo le pulizie d'autunno, stiamo imbiancando e cose simili e ho bisogno di una mano, vi va?" Annuisco con un sorriso di ringraziamento
"Certo Kal!" Il pulcino sta per parlare ma una gomitata ben assestata lo induce al silenzio, mi guarda e fortunatamente si fida di me.
Lavoriamo sodo, ma solo dopo aver mangiato tanto e al caldo.
Poi a fine giornata quando le schiene sono rotte mi da' la chiave della stanza che io e Florì avevamo sempre usato e una pacca sulla spalla, una lacrima brilla all'angolo dei suoi occhi.
"Era un brav'uomo"
"Era il migliore" rispondo.
Roby non capisce, forse gli parlerò di Florì prima o poi, ma non ora, non posso, e poi non so se capirebbe.
Apro la porta di legno in cima alle strette scale, la stanza è nel sottotetto. Un materasso matrimoniale appoggiato a delle assi per terra con su un piumone e un piccolo bagno con una lavatrice arrugginita e malandata, infine una doccia dal vecchio piatto sbeccato chiusa da una tenda di plastica con qualche macchia di muffa. Uno spazio minuscolo e basso, ma una piccola reggia per me.
"Possiamo davvero usare questa stanza?" Roby la guarda estasiato. Felice. E lo capisco, dopo che hai dormito per strada quella piccola stanza è veramente una reggia senza paragoni. Finalmente posso lavarmi, lavare i vestiti, dormire in un letto e al caldo e senza spendere, anzi, guadagnando.
"Si, e vai pure per primo a fare la doccia ma non usare tutta l'acqua calda, io devo sistemare delle cose." La porta del bagno non esiste e assieme a Florì non era mai stato un problema, le prime volte usciva dalla stanza, poi semplicemente era come se ci fosse nella stessa stanza un mio stato un caro amico o parente e non provavo nessun imbarazzo.
Il pulcino senza un briciolo di pudore si spoglia davanti a me rivelando un corpo pieno di lividi e candido, alcuni segni ormai sbiaditi di bruciature mi fanno accapponare la pelle. Ma cosa nascondeva il suo passato?
Lo guardo e lo trovo bello, poi sospiro e mi metto a riparare le vecchie scarpe ereditate da Florì, sono decisamente più calde di quelle di Roby e dovrebbero andargli bene.
I pesanti scarponi che erano stati di Florì sono tenuti con meticolosità. Specchio di lui. Era scrupoloso e quanto più pulito era possibile e mi aveva insegnato il suo modo di essere.
Mi mancava tremendamente. Sospirai di nuovo e vidi il pulcino uscirsene dalla doccia piena di vapore con l'aria di un gatto che aveva appena mangiato la panna, con una tale evidente soddisfazione da mettermi allegria.
Si asciuga con un asciugamano che ha trovato nel bagno e vedo che sotto il velo di sporco che li aveva incupiti ha i capelli castano chiaro, corti e lisci. E mi ricredo sulla sua età. Deve avere realmente sui sedici anni, anche se non ha ombra di barba o di peluria di troppo, quasi completamente glabro.
"Che hai da guardare?" Lo fisso negli occhi dorati e sorrido.
"Pensavo che devi avere sedici anni più o meno, o sbaglio?" Mi fissa un po' sorpreso e annuisce.
"Ci hai azzeccato!"
"Ora tocca a me." Mi tolgo gli strati di vestiti e assieme ai suoi li metto in lavatrice, poi mi guardo allo specchio e mi accorgo di sembrare molto più vecchio con tutta quella barba. Mi rado assaporando la sensazione della pelle liscia del viso e poi prendo la forbice e do una regolata ai capelli decisamente troppo lunghi per i miei gusti. Poi mi guardo per un lungo istante.
Dimostro i miei diciotto anni anni senza barba, i miei occhi neri come il carbone però sono vecchi, non sembrano davvero i miei, e i capelli altrettanto neri mi aspetterei quasi di vederli pieni di fili bianchi, ma non ce ne sono. Poi entro nella doccia e mi sento in paradiso.
Esco che l'acqua calda è finita, con un enorme sorriso soddisfatto stampato sulle labbra mi asciugo velocemente, mi metto una vecchia maglia pulita a maniche lunghe e mi infilo dentro il piumone. Il pulcino è già addormentato e spengo la luce con un sospiro.

 

Oggi è festa, non lavoriamo per Kal e ci rotoliamo nel letto assonnati e pigri.
"Alan, ma te quanti anni hai?" Dividiamo la stanza da una settimana e si è sempre fatto gli affari suoi, non mi ha mai chiesto nulla di personale.
Come ho fatto io del resto, se vuole parlare mi racconterà lui di sua spontanea volontà quello che si sentirà di dire.
"Diciotto, pulce" Se prima lo chiamavo tra me e me pulcino ora per tutti è diventato pulce. Lui non se ne lamenta, anzi, sembra piacergli.
"Non sembra quando hai la barba, sembri un vecchio." Rido e gli tiro un calcio da sotto il piumone, ma lui si scansa ridendo.
"Senti chi parla, il piccolo pulce!" Lui scrolla le spalle, e mi fissa. Sembra soppesarmi, riflettere, e io lo lascio fare.
"Perché mi hai portato con te? Non avevi e non hai nulla da guadagnarci." Rifletto, il motivo vero non lo so, ma ho in mente tanti piccoli motivi.
"Un po' perché mi ricordi me due anni fa, un po' perché so che Florì lo avrebbe fatto." E un po', aggiungo tra me e me, perché sei bello. Ma questo è meglio non dirlo, non c'entra poi molto con la vita che faccio, se voglio una scopata di certo non posso rivolgermi al mio compagno di sventure, mi sa che perderei la sua fiducia.
Pensavo mi avrebbe chiesto di Florì, ma credo capisca che la ferita è ancora troppo fresca, troppo dolente, troppo intima e profonda per poterla condividere.
"Raccontami di te due anni fa, come mai sei finito così?"
"Sei curioso pulce..." Arrossisce fino alla radice dei capelli e mi volta le spalle mugugnando qualcosa tipo vaffanculo nel cuscino. Allora rido e girandosi mi guarda arrabbiato. "Su pulce, mi sembri un poppante quando fai così, non ti ho mica detto che non ti rispondo!"
"Sì, va beh..."
"I miei sono morti quando avevo sedici anni, incidente aereo. Non volevo vivere con mia zia, allora ho preso la strada per Milano, tutto qui."
"E poi che hai fatto?" Sospiro. Un tempo che Florì mi aveva fatto dimenticare con il suo affetto paterno. La strada dove assieme ad altri ragazzi e qualche travestito, battevo. Le retate della polizia. Alcuni di noi picchiati quasi a morte e nessuno sapeva mai nulla.
"Ho fatto quello che si ritrovano a fare quasi tutti. Sai di cosa parlo giusto?" Pulce trattiene il fiato in un mezzo singhiozzo, si chiede come lo so, mi guarda quasi spaventato. "Poi ho incontrato Florì e quando alla fine mi sono fidato mi ha portato via con lui."
Il silenzio cala per un po' tra noi mentre fuori un temporale invernale si sfoga sulla città in tutta la sua rabbia.
Ripenso al dolore e all'umiliazione di quei giorni.
All'iniziale esaltazione per i soldi facili. Al freddo della notte, ai sedili di macchine tutte uguali, ai cazzi di cinquantenni tutti uguali.
Tutti o quasi bravi padri di famiglia.
Al dolore del corpo e dell'anima e la spossatezza di essa.
"Alan, ma come... come..."
"Come lo ho capito?" Annuisce, serio. Gli occhi dorati puntati come preziose monete brillanti e luminose nei miei, scuri come la notte più buia.
"Semplice pulce, iniziano quasi tutti così, e mi sa che tu hai avuto anche delle brutte avventure a giudicare dai lividi."
"Era un pazzo credo, alla fine mi ha scaricato in strada; ero mezzo morto di paura e di dolore. Ho cominciato a correre e me ne sono andato da lì. Dopo una settimana ho incontrato te. Ancora non so perché mi sono seduto lì vicino..." Parla piano riempiendo le frasi di pause. Sembra assorto, non veramente qua.
Mi si avvicina come a cercare protezione o forse conforto, non lo respingo, lo circondo con un braccio e mi metto ad accarezzargli la schiena con gesti lenti, da amico e fratello.
Per ora va bene così, tutto va bene così per ora.
Poi chissà come andrà a finire, non credo farò il barbone per sempre. Se posso mi piacerebbe lavorare. Ora non rischio più di andare dalla famigerata zia Rosa.
La sua testa si piega e va a mettersi nell'incavo della mia spalla.
Sì, per ora va bene così.

 

 



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