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Autore: La Mutaforma    08/04/2013    3 recensioni
Quanta tristezza hai dovuto affrontare, amico mio? Quanto valgono adesso le tue fughe, il tuo imbarazzo?
Dov’è l’amore?

Feliciano pianse più forte, perché tanto Ludwig era dietro di lui e non poteva vederlo.
O forse perché era solo un bambino, e per i bambini non c’è vergogna a piangere.  
Qualcuno ha creato il mondo, bello come niente. Ci ha regalato il cielo, le stelle, il sole, il mare, la musica. Abbiamo inventato l’amore.
Eppure ci facciamo la guerra. 
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Chibitalia, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Lovino quando arrivò a Piacenza chiese che giorno fosse.

Era il 6 giugno, del 1866.

Pensò che con tutta probabilità era il più giovane dei soldati italiani.

Imbracciò il fucile con orgoglio. L’esercito italiano si era diviso in due parti a quanto aveva appreso in quei difficili mesi di preparazione. Il capitano del suo esercito, un certo Alfonso La Marmora , aveva deciso di mantenere il blocco alle fortezze del Quadrilatero. Sarebbero partiti da Piacenza e si sarebbero diretti verso Mantova.

Siamo settantamila. Sono fiducioso.

L’altra parte dell’esercito era stata affidata ad un certo Ernico Cialdini, con l’obbiettivo di avanzare verso il Veneto.

Poi era stata organizzata la Marina… la bellissima flotta italiana.

Gli austriaci non hanno speranza.

Lovino si spolverò la camicia rossa da ex garibaldino e fece passare la cinghia del fucile sulla spalla, in modo che gli attraversasse il petto.

Era un nuovo giorno. Un giorno in cui valeva la pena continuare a vivere.

 

Feliciano seguiva le sorti della sua patria da lontano, ricevendo numerose lettere da suo fratello. A volte anche Gilbert inviava delle missive, ma erano indirizzate a Ludwig e spesso ad Ungheria.

La ragazza aveva racimolato un consistente fascio di lettere, ma non le leggeva mai se non da sola. Le leggeva prima di andare a dormire e poi le nascondeva.

Era ansiosa e agitata, tuttavia cercava di mostrarsi aperta e comprensiva con i più piccoli Feliciano e Ludwig.

Avevano bisogno del suo sostegno, della sua sicurezza da adulta.

Ma in verità la guerra la agitava. La lontananza di Prussia la feriva. Era lì, ancora a Berlino, e lei non poteva smettere di sognarlo, di immaginare le colline dove giocavano da piccoli, l’albero sotto il quale si distendevano per dormire, per guardare il cielo, e immaginare il loro futuro.

Ma quando si è bambini il futuro non corre più lontano del domani e le loro giornate erano sempre uguali, sempre perfette.

A volte, quando era sola e preparava il the, piangeva.

Piangeva perché aveva paura che fosse troppo avventato. Da bambini toccava sempre a lei fasciargli le ginocchia sbucciate e le mani scorticate.

Lascia che curi le tue ferite, Gilbert. Lascia che io ti ami come allora.

 

Un’altra cosa che la agitava molto era la presenza di Ludwig. In quegli anni si era molto affezionata al biondo ragazzino, però aveva paura di quello che sarebbe successo se Austria lo avesse scoperto.

Cosa ne sarebbe stato di lei?

Cosa ne sarebbe stato di Feliciano?

A volte ci pensava. Poi chiudeva gli occhi e scuoteva la testa, per non pensare più.

Era sufficiente non pensarci di giorno. I suoi sogni –i suoi incubi- erano abitati solitamente da Gilbert.

Sospirò, e prese una sorsata di the.

In casa non c’era nessuno, per cui si erano barricati nella stanza dove avevano nascosto Ludwig. Lui e Feliciano stavano sdraiati sul pavimento, il più piccolo disegnava, il biondo invece leggeva “Il Visionario” di Schiller.

Lei invece se ne stava un po’ a bere il the, un po’ ad osservare il foglio bianco su cui il suo cuore tanto desiderava scrivere i tuoi pensieri a Gilbert.

Gli aveva scritto un blocco di lettere. Non gliele aveva mai inviate.

Feliciano si voltò verso di lei e si sedette ai suoi piedi per mostrarle il suo disegno: una riproduzione accurata di piazza San Marco.

“Cos’hai Ungheria?”

Lei sorrise, lieve “Sto bene, Ita-chan”

“Sembri triste! Vuoi che ti canti una canzone?”

Ludwig si voltò alzando gli occhi dal suo libro, incuriosito.

Inorgoglito da quegli sguardi ammirati e curiosi, Feliciano prese fiato e cominciò a cantare una canzone veneziana.

La biondina in gondoleta

L'altra sera g'ho menà:

Dal piacer la povereta,

La s'ha in bota indormenzà.

La dormiva su sto brazzo,

Mi ogni tanto la svegiava,

Ma la barca che ninava

La tornava a indormenzar…

Ungheria lo interruppe ridendo e battendo le mani.

“Oh, Ita-chan, il dialetto veneziano è così buffo!”

Ludwig aveva uno sguardo impassibile “Non ho capito quasi nulla a dire il vero”

Il piccolo italiano dai capelli rossi si sedette accanto a lui, sorridendo ampiamente.

“Sei mai stato a Venezia, Ludwig?”

Lui scosse la testa.

“Devi venirci. C’è la laguna, e ci sono i ponti… quando ero piccolo guidavo le gondole. Oh, se tornerò mai a Venezia mi piacerebbe tanto fare di nuovo il gondoliere! E tu verresti con me, Ludwig? E tu Eliza? Verrete tutti, vero? Ci divertiremo a Venezia! Ci andremo per il carnevale! Costruirò delle maschere ad entrambi!”

Ludwig e Eliza si scambiarono uno sguardo stanco e rassegnato, poco fiducioso. Poi lei sorrise di nuovo annuendo lievemente col capo.

“Sì Ita-chan. Staremo tutti insieme”

Feliciano ci credeva davvero. Feliciano non aveva mai smesso di sognare.

 

Lovino riaprì gli occhi, dopo tanto tempo.

Così tanto che credette di essere morto.

Mentre il torpore dello svenimento scemava, un cieco dolore pulsante lo inchiodò a terra anche quando provò ad alzarsi.

Voltò la testa per quanto gli bastava senza farsi male.

C’era un uomo, alto e grosso. Quello che notò di lui furono per prima cosa i baffi folti e la camicia rossa.

“Chi sei?” chiese il ragazzino con voce soffocata.

L’uomo si voltò verso di lui.

“Credevo fossi morto. Mi chiamo Saverio. Aspetta, ci penso io a te, ragazzino” si avvicinò e lo aiutò a poggiare la schiena contro il tronco di un albero. Lovino trattenne a stento un gemito di dolore.

“Forse è meglio che ti cambi la fasciatura”

L’uomo sciolse il bendaggio che gli costringeva la spalla. Il ragazzino spalancò gli occhi. Lo aveva medicato con… con.. il tricolore?!

“Perché lo stai facendo?! Non lo sai che la nostra bandiera è sacra?!”

“La tua vita è più importante di un fazzoletto, qualunque cosa esso rappresenti. Preferiresti morire dissanguato?”

Lovino non rispose. Aveva paura della morte. Molta.

“Come ti chiami?”

“Lovino”

“Quanti anni hai?”

“Quindici”

L’emorragia gli aveva procurato un gran giramento di capo, e una forte nausea.

“Da dove vieni Lovino?”

Il ragazzino sospirò. “Sono nato a Napoli, cresciuto a Madrid e sono tornato in Italia per la rivoluzione. Ho preso parte alla spedizione dei mille. E sono stato in Aspromonte”

“Dov’è la tua famiglia Lovino?”

“L’unico che si sia preso cura di me adesso sarà in Spagna, o chissà dove. E mio fratello… il mio fratellino è a Vienna…”

L’uomo strinse forte il bendaggio sulla sua spalla. Lovino accarezzò a malincuore il bel tricolore come una medaglia al valore.

“Dimmi la verità, Saverio, cos’è successo?”

“Siamo stati sconfitti. Molti sono scappati, i più sono morti, quelli che vedi qui intorno. Il sogno è finito, ragazzo mio”

Se Lovino fosse stato meno orgoglioso, avrebbe pianto. Aveva combattuto, aveva rischiato di morire, e avevano perso.

Dov’era suo fratello? Dove si trovava lui? Perché tanta vergogna gli cadeva addosso?

“Che giorno è, Saverio?”

“E’ il 26 giugno, Lovino. Ci troviamo a Custoza. Davvero non ricordi?”

“La testa mi fa troppo male. Cerca nella mia borsa, dovrebbero esserci carta, una penna e dell’inchiostro. Scrivi una lettera a mio fratello Feliciano. Te la detto io, però tu scrivi, io credo di non potere”

Saverio gli sorrise sotto i folti baffi e gli accarezzò i capelli neri.

“Stai tranquillo, ragazzo, vedrai che te la caverai”

Poi tutto divenne buio. Buio come quella notte in Aspromonte.

Così buio che continuava a non ricordare niente.

Nel buio, Lovino credette di piangere, e chiamò il nome di Antonio.

 

La lettera arrivò con alcuni giorni di ritardo.

Feliciano era sconvolto e preoccupato, e nulla poteva consolarlo.

“Mio caro fratello, ti porto notizia del mio fallimento. Questo è una sconfitta che brucia, perché il sogno italiano era così vicino, fratellino adorato. Prendi nota e ricordatelo bene quando il tuo padrone ti ordinerà di lavare per terra: il 24 giugno dell’anno 1866 l’esercito austriaco ha sbaragliato i tuoi fratelli italiani. E tra questi, ci anche sono io. Quasi vivo, quasi morto. Ti avevo promesso di non rischiare troppo, ma la foga era troppa, e credo di essersi esposto al fuoco nemico. Ho un proiettile austriaco nella spalla, fratello. Fa tanto male. E fa male pensare che tutto questo dolore è inutile, che non mi aiuterà a farti tornare a casa. Ho incontrato una persona, Saverio, è un ex garibaldino, repubblicano come me, e ora scrivano. Non ce la faccio a scrivere da solo. Si sta prendendo cura di me. Dice che mi salverò, se la ferita non si infetta. Non voglio morire senza vedere l’Italia unita. Ma forse non posso fare tutto io.

In caso accada il peggio, ti prego di inviare una lettera a Madrid da parte mia. Per ora non vorrei che Antonio si preoccupasse troppo per me.

Abbi fede nell’Italia, Feliciano. Persano è a capo della marina italiana. C’è ancora molto per cui sperare, fratello. Non abbandonarla mai, la speranza.

Il tuo amato fratello, Lovino”

 

Ungheria lo aveva fatto sedere sulle sue ginocchia; gli accarezzava i capelli rossi, lo cullava e gli sussurrava vecchie nenie ungheresi, ma nulla sembrava tranquillizzarlo.

“Hey, Feliciano, non piangere” sussurrò lei tra i suoi capelli sentendolo singhiozzare “Si tratta di tuo fratello, Lovino! Ti ricordi cosa ha fatto Lovino, no? Ha conquistato l’Italia, ha creato un regno! Un proiettile non lo fermerà di certo. E poi ha qualcuno a prendersi cura di lui, no? Vedrai che presto riceveremo sue notizie. Tu torna a sperare, non perdere mai la speranza, cosa ti ha detto?”

Feliciano tirò su con il naso, rassegnato, e annuì col capo pur poco convinto.

“Sento dei passi!” fece lei soffocando un grido. Ludwig rispose nascondendosi d’impulso sotto l’ampio letto. Appena in tempo, prima che qualcuno aprisse con foga la porta.

Eliza saltò in piedi, stringendo in braccio il ragazzino.

Era Austria, accompagnato da un corazziere austriaco.

“Austria-san…”

Lui le buttò ai piedi un fascio di lettere. Quando le riconobbe spalancò gli occhi.

“Lo sai cosa sono queste?”

“Austria… io…”

“Lo sai cosa è successo appena pochi giorni fa?! A Custoza. Siamo in guerra, Ungheria. E tu scambi informazioni con i nostri nemici? Lo sai che la Prussia non attende altro che un momento di debolezza per far crollare l’Impero?!”

La voce dell’austriaco era imperiosa e crudele, e Ungheria che era sempre stata tanto fedele e legata a lui avrebbe voluto piangere. Feliciano, terrorizzato, si nascose dietro di lei, tra le pieghe della sua gonna arancione che stavolta non avrebbe potuto proteggerlo. 

“Portala via!” comandò Austria con voce ferma, mentre il corazziere la afferrava per le braccia per trascinarla con sé. Feliciano dovette staccarsi dalla sua gonna, trattenendo a stento le lacrime e la paura. Cadde seduto, senza la forza di piangere.

Ungheria scalciava e di dimenava, ma era troppo provata dal capovolgimento di quegli eventi. Ebbe solo la forza di voltare indietro i suoi occhi verdi verso Feliciano, prima che la porta si richiudesse davanti a lei.

I minuti che seguirono furono troppo veloci.

Eliza fu trascinata a lungo, finché non ebbe più la forza di dimenarsi e riaprì gli occhi.

Riconobbe le scale buie delle segrete. Austria era lì, con una torcia in mano.

Vogliono… rinchiudermi?

Fu trascinata malamente lungo gli stretti e bassi gradini che le ferivano i piedi. Il corazziere la lasciò, solo perché potesse cadere con il viso sulla pietra. Poi fu risollevata da terra, troppo stanca per opporre resistenza.

Quando la portarono alla sua cella successe qualcosa.

“Ma questa cella… qui… perché la porta è distrutta?!”

Ungheria aveva gli occhi gonfi, ma pur non vedendo immaginava l’espressione furibonda del padrone. Il corazziere le lasciò il braccio su cui avrebbe potuto contare i segni delle sue dita e la ragazza cadde sulle ginocchia, esausta e in lacrime.

“Tu!” Austria si rivolgeva al soldato, quella volta “Tu non avresti dovuto occuparti di lui?”

“Ma signore, eravamo tutti occupati con la guerra!” si difese debolmente il soldato. Austria lo afferrò per la giubba blu e lo spinse indietro. Quindi tirò dal taschino un mazzo di chiavi e aprì la porta della cella: era vuota.

“E’ scappato! E’ scappato! Ma non può essere fuggito da solo” si voltò verso Ungheria e le tirò i lunghi boccoli castani per costringerla a guardarlo “Tu! Sei stata tu a farlo scappare?”

La ragazza non aveva nemmeno la forza di muovere la lingua. Austria le lasciò i capelli.

“Però nelle lettere Gilbert non faceva parola di tutto ciò. Che senso ha? E comunque, quel ragazzino era troppo indebolito per rompere una porta da solo…ma… perché non ci ho pensato prima?”

Ungheria inorridì al pensiero che il suo padrone avesse pensato a Feliciano.

Si aggrappò al suo mantello, gridando e piangendo.

“E’ stata colpa mia, sono stata io! Lascia stare Ita-chan, non ha fatto niente di male!”

Bastò uno strattone; tutto si scurò prima che Eliza sbattesse il viso sulla pietra.

Sentì un lieve torpore. Fu come morire.

Ma faceva troppo male per essere morta.

Avvertì qualcosa muoversi nelle ombre. Il gocciolare umido del sangue che le bagnava il viso. Sentiva il suo odore di ferro, amaro come la vita.

Poi cominciò a sognare.

Gilbert? Sei tu? Sei tornato da me?

Sì. Sono sempre stato con te. 

   
 
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