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Autore: O n i c e    09/04/2013    3 recensioni
Regnava l’oscurità, ma non per lui. Regnava il silenzio, ma non per lei. Gli occhi e le orecchie della Setta erano lì, insieme.
«Non finirà oggi. Non per gli Assassini.» disse Altair con voce profonda.
«Ma per noi sì, vero?» si stupì nel sentire nuovamente la sua stessa voce.
«Conosci già la risposta». Le sollevò il cappuccio sorridendo mestamente.
La Mela. Essa li avrebbe distrutti, se già non l’aveva fatto.
Genere: Avventura, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Malik Al-Sayf , Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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II
La lince del deserto



 

 
 

Quattro anni dopo

Un’aquila volteggiava solitaria nel cielo azzurro e terso di fine luglio mentre le sue grida si confondevano con il clangore metallico che proveniva, diverse decine di metri più in basso, dallo spiazzo sterrato e circolare posto ai margini di un piccolo villaggio tra le aride colline del deserto palestinese, a quattro giorni di cammino da Gerusalemme.
Due figure stavano combattendo già da qualche ora in mezzo all’arena improvvisata. L’uomo, vestito di bianco con una fascia rossa stretta in vita, si avventò con forza sulla sua avversaria che parò il colpo con abilità, ritrovandosi però leggermente sbilanciata, il suo maestro ne approfittò per farle uno sgambetto, facendola crollare a terra e puntandole la punta della spada alla gola. «Ottimo Nadirah, quello di oggi lo definirei il miglior allenamento degli ultimi mesi.» si congratulò con il fiato grosso rinfoderando la spada e porgendole una mano. «Non è facile farmi stancare.»
«Come sei modesto.» gli rispose, anch’ella con il fiatone, afferrando la mano del vecchio. «Però devi ammettere che non sei più quello di un tempo.» scherzò.
«Razza di insolente! È questo il rispetto che porti al tuo caro maestro?» la rimproverò con lo stesso tono scherzoso. La ragazza rise afferrando da terra la spada che le era scivolata di mano mentre era ruzzolata sul suolo e la infilava nel fodero che le pendeva al fianco destro.
«Abbiamo già finito?» chiese vedendo il vecchio scavalcare la cinta e dirigersi verso la modesta abitazione costruita con mattoni essiccati.
L’uomo si voltò osservandola impassibile, ma la giovane ormai lo conosceva abbastanza bene per capire che era rimasto stupito dalla sua domanda. «Ah Nadirah, tu sei giovane, ma come hai detto tu questo povero vecchio non ha più l’età per sostenere ore e ore di allenamento. Se vuoi però puoi allenarti un po’ da sola, torna qui prima del tramonto, per quell’ora sarà pronta la cena. Sii puntuale perché devo parlarti.»
«Certo maestro, a dopo.» annuì la ragazza inclinando il capo e voltandosi per raggiungere di corsa la stalla.
Devo parlati”, chissà che avrà in mente… Pensò mentre, dopo aver preso arco e faretra, montava sulla sua cavalla grigia e con un fischio chiamava i due levrieri persiani del vecchio maestro.
Si va a caccia!
 
Nadirah aveva un talento naturale per il tiro con l’arco: aveva una mira infallibile, grazie alla vista acuta e all’udito estremamente fine riusciva a scorgere da notevoli distanze i suoi bersagli. La caccia la usava come allenamento cercando di colpire le prede in movimento da sempre più lontano.
Era stato il suo maestro a regalarle il suo primo arco, ricordava ancora i suoi primi e inaspettati successi quando colpiva i bersagli disposti in cerchio attorno a lei.
“Immagina che siano i tuoi nemici, manda a segno più in fretta che puoi”, così le aveva sempre ripetuto e lei l’aveva fatto, diventando ogni volta più veloce e precisa, fino a raggiungere il livello a cui era arrivata, nessuno era più abile di lei nel raggio di cento miglia: neppure gli arcieri di Salāhal-Dīn, da sempre considerati i migliori, erano al pari di lei.
“Ho saputo che tuo padre era un ottimo arciere, sono certo che saprai eguagliarlo” le aveva detto una volta il maestro.
“Era anche migliore come spadaccino, voglio che m’insegniate a diventare come lui” aveva ribattuto lei pronta. Erano passati diversi anni da quel giorno, ma lo ricordava ancora alla perfezione. Ora quella ragazzina spaurita che aveva accolto come una figlia –che gli ricordava così tanto la sua, scomparsa quindici anni prima,- non esisteva più: aveva lasciato il posto a una giovane donna dall’aspetto elegante come quello di una regina, ma dalla grinta di una leonessa.
Negli anni in cui l’aveva allenata, giorno dopo giorno l’aveva preparata a quello che sarebbe stato il suo destino, l’aveva istruita al meglio, insegnandole tutto quello che sapeva, affinché fosse pronta ad affrontare la sua vita, nuovamente da sola.
Quel giorno era giunto e Nadirah era pronta, lo era da tempo ormai.
Il vecchio salì le scale che conducevano alla terrazza della casa e scrutò l’orizzonte: il sole stava calando e tutt’intorno colorava il paesaggio di calde tinte arancioni; inspirò profondamente e si beò di quella vista, poi i suoi occhi, riparati dalle folte sopracciglia ormai ingrigite e contornati da una fitta rete di rughe, scorsero all’orizzonte la figura inconfondibile della sua allieva che tornava dalla caccia.
Si accomodò sulla sgangherata sedia di legno e accarezzò distrattamente la testa del grosso felino dalla pelliccia rossiccia che si era acciambellato al suo fianco. L’animale facendo le fusa si strusciò sulle sue gambe e poi si avviò giù per le scale.
L’uomo sorrise mesto ripensando alla figlia: il caracal, conosciuto anche come lince del deserto, era considerato come l’essere che incarna lo spirito dei morti, e lui era certo che in quel felino che anni addietro aveva trovato, ancora cucciolo, davanti alla propria casa albergava l’anima di sua figlia, della sua adorata Aidha.
Sentì la porta di casa aprirsi e la voce della sua allieva risuonò tra le pareti. «Eccomi a casa maestro!» annunciò il suo arrivo accompagnata dai guaiti dei cani e dal soffiare irritato del felino acciambellato su uno sgabello.
«La caccia è andata bene vedo.» osservò una volta giunto al pianterreno.
«Già, qui ho due tordi e fuori c’è una lepre selvatica.» spiegò, fiera del suo bottino.
Il maestro avanzò nella stanza e prese dalle mani della ragazza i due volatili. «Dammi, ci penso io a pulirli, tu va’ a sciacquarti e poi torna qui e apparecchia per la cena.»
«D’accordo.» disse prima di poggiare l’arco e la faretra sul tavolo e correre fuori, diretta al pozzo.
«L’arco e le frecce!» le urlò, ma Nadirah era già lontana. Scosse la testa sorridendo, quanto gli sarebbe mancata quella ragazza. Si chiedeva spesso cosa sarebbe successo se avesse insegnato anche a sua figlia a combattere: forse non sarebbe stato necessario fare tutto ciò che stava facendo ora.  
La cena trascorse tranquilla. Nadirah raccontò di com’era andata la caccia e delle tecniche che aveva utilizzato per scovare le prede grazie ai levrieri. Il suo maestro l’ascoltava attentamente, riflettendo e valutando, nelle parole della sua allieva, quanto fosse pronta ad ascoltare ciò che aveva da dirle. Riusciva a cogliere semplicemente dal tono o da come tendeva o aggrottava i muscoli del suo viso quanto fosse in ansia e rosa dalla curiosità per sapere ciò che l’uomo aveva da dirle. Nadirah era ormai come un libro aperto per lui, un libro su cui lui aveva scritto tutto ciò che ora lei sapeva: molto, ma non abbastanza. C’era ancora qualcosa che lei doveva apprendere e che lui non sarebbe mai stato in grado di insegnarle…
Per un attimo all’uomo mancò il coraggio di dirle la verità, fu un istante, ma sufficiente per fargli perdere quella sicurezza e impassibilità che lo aveva sempre caratterizzato: tutti al villaggio lo temevano e lo rispettavano, per questo si era guadagnato l’appellativo di “saggia lince del deserto”: mai si era mostrato incerto, timoroso o insicuro di qualcosa, mai fino a quel momento.
«Nadirah, bambina mia…» iniziò, accorgendosi degli occhi attenti che la ragazza aveva posato su di lui. «sappi che quello che sto per dirti mi causa un tremendo dolore.» continuò percependo la sua allieva trattenere il respiro. Con un tonfo sordo il caracal era saltato sul tavolo a fianco di Nadirah, come a voler essere partecipe anche lui di ciò che il maestro aveva da dirle.
«Quattro anni fa ti accolsi qui come fossi mia figlia, ti ho amata come una figlia e ti ho insegnato tutto ciò che so, ma è giunto il momento che le nostre strade si dividano.» pronunciò lentamente, in modo che Nadirah potesse assimilare tutte le informazioni. Gli si strinse il cuore nel vedere il volto della ragazza trasformarsi in una smorfia di delusione e rabbia: cosa le stava facendo? In quello sguardo rivide le stesse emozioni che lui con fatica era riuscito a cancellare dagli occhi di lei.
«So che mi odierai per questo, ma è giusto che sia così…»
«Perché?» lo interruppe, quasi ringhiando. Non si era mai permessa di interrompere il suo maestro mentre parlava, ma ora era proprio fuori di sé.
«Nadirah io ti ho dato tutto, ma tu devi lasciare questa casa. Ti prego di accettare ciò che ti sto offrendo.»
«E cioè cosa? Non ho nulla maestro, a parte te.» sbottò.
L’uomo prese un profondo respiro. «Nadirah, io in questi anni nei miei insegnamenti indirettamente ti do dato gli indizi necessari perché tu possa trovare la giusta via.» le rivelò. Lei lo guardava stranita, non riusciva a capire di cosa stesse parlando il suo maestro.
«Non pretendo che tu comprenda ora, ma un giorno capirai. Ora voglio solo che tu prenda questo.» le disse porgendole un ciondolo a forma di A stilizzata. «Lo riconosci vero?»
Nadirah annuì. «Ma non capisco, perché vuoi che lo tenga io?»
«Prima, mentre attendevo il tuo ritorno sono salito sul tetto osservando l’orizzonte: ti ho vista arrivare, ma ho visto anche altre due figure a cavallo.» spiegò.
«Io non ho visto nessuno.»
Il maestro ridacchiò. «Questa è un’abilità che non posso insegnarti. In ogni caso sappi che stanno venendo qui per me, sono qui fuori da un po’ e tra poco entreranno. Quando sarà il momento voglio che tu starai già galoppando via da qui.» la pregò alzandosi e prelevando una boccetta di ceramica dalla credenza.
«Ma…»
«Niente ma, avanti abbracciami ora, come farebbe una figlia con il proprio padre.» le disse amorevolmente e Nadirah obbedì, abbracciandolo come non aveva mai potuto fare, se non da bambina, con il suo vero padre.
«Dove andrò?» chiese dopo che si furono sciolti dall’abbraccio.
«Il tuo cuore conosce già la risposta.» le comunicò prima di stappare la boccetta. «Avanti vai ora.» la incitò.
Nadirah lo osservò con le lacrime agli occhi. «Addio, Fahd.» lo salutò, pronunciando per la prima e ultima volta il nome del suo maestro. Si chiuse alle spalle la porta che conduceva alla stalla un attimo prima che il suo maestro ingoiasse in un solo sorso il veleno.
Fahd vide i due assassini irrompere nell’abitazione qualche istante prima che il buio lo avvolgesse spegnendo anche il suo ultimo pensiero: Nadirah era in salvo.
Galoppava nel freddo della notte diretta verso la sua meta.
“Il tuo cuore conosce la risposta”
 Gerusalemme.









 

  
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