Barst
rimase altri due giorni, giorni che spese totalmente sul mio corpo
con uncini, lame, ferri, fruste e mezzi del genere.
Durza non
mancò mai a nessuna delle sessioni, anche se si limitava a
stare
nell’ombra come una minaccia silenziosa. Mi diede comunque un
senso
di sicurezza saperlo pronto ad intervenire in mio favore,
accompagnato da scrupoli che Barst sembrava non avere e che in
effetti non mi sarei mai aspettata nemmeno da lui.
A tratti lo
sentivo sussurrare incantesimi di guarigione che impedissero al
funzionario del re di uccidermi. Perché in effetti mentre
nelle
torture lo Spettro era metodico e preciso, esperto, Lord Barst era
rabbioso e violento. Durza si premurava di farmi sfiorare la morte,
ma trattenendomi, lui colpiva a casaccio, sperando di procurarmi
più
dolore possibile e spingermi a parlare.
I due bisticciavano in
continuazione, ma dato che quelle liti parevano avere come scopo
quello di stabilire chi fosse il migliore, non mi toccavano e mi
limitavo a godermi la scena.
L’ultimo giorno, poco prima di
partire, Barst discese nella mia cella e mi fece legare al tavolo
delle torture. Durza arrivò poco dopo e si ritirò
silenziosamente
in un angolo.
Sentii a malapena le mani dell’uomo che mi
afferravano un piede -da quando non avevo più gli stivali il
gelo mi
faceva spesso perdere la sensibilità in quel punto del
corpo- ma
sentii chiaramente il dolore acuto che mi procurò quando mi
strappò
l’unghia dell’alluce con una pinza. Alluce, illice,
trillice,
pondolo e minolo. Poi passò all’altro piede. Il
sangue che mi colò
sulla pelle mi parve bollente.
«Consideralo un regalo d’addio»
mi sibilò rabbiosamente. «Il tuo comportamento
verrà riferito al
re, Spettro» aggiunse ad alta voce.
Durza avanzò nel cono di
luce creato dal braciere. «E allora mi auguro che farai
presente la
mia indiscussa abilità, Barst. Come avrai avuto modo di
notare ho
fatto tutto il necessario, ma senza risultati».
«Ti sei
rifiutato di lasciarmi agire come volevo, com’era ordine del
re e
questo basterà a renderti colpevole di
insubordinazione».
Lo
Spettro inarcò un sopracciglio, per niente turbato.
«Notevole».
«Fossi in te non riderei più di tanto. Galbatorix
odia perdere tempo. Non esce mai dal suo castello perché
deve
concludere la sua ricerca, quindi lascia ai suoi luogotenenti il
compito di fare il suo volere in Alagaësia. E tu ti sei
dimostrato
incapace anche di questo piccolo incarico. Ultimamente stai perdendo
colpi, a lui non piacerà».
«Non sono il leccapiedi del mio re
quanto te, questo è sicuro. Ma non osare svalutare i miei
meriti, ti
giuro che la mia natura potrebbe rivelarsi piuttosto spiacevole in
questi casi».
«Non penserai veramente di spaventarmi
così».
«Io
non penso, so» ribatté Durza, aggiungendo
un’ulteriore conferma
alla mia ipotesi sulle sue capacità di lettore di anime.
Barst
divenne paonazzo. «Non sei altro che uno schiavo delle ombre!
Cosa
si prova ad avere degli spiriti che ti comandano a bacchetta? Non so
nemmeno se sto parlando con un essere solo o con altri cento
adesso!»
Gli occhi di Durza divennero di ghiaccio. «Vattene»
disse, parlando così lentamente da parere sul punto di
scoppiare.
«Vattene prima che ti dimostri quanto sono padrone della mia
volontà
e ricacci il consiglio dei miei spiriti, che mi suggeriscono di non
inimicarmi il re».
L’uomo spinse orgogliosamente il mento in
fuori. «Non finisce qui. Rivedrai presto la mia faccia,
Durza».
Lo
guardai andarsene impassibile. Io certamente non avrei dovuto
rivederlo, probabilmente non avrei nemmeno mai più sentito
parlare
di lui.
Ancora non potevo sapere quanto mi stessi sbagliando e
quanto il nome del conte avrebbe avuto effetto nella mia vita
futura.
«Finalmente soli, Elfa».
Feci una smorfia. «Mi stai
corteggiando, Durza?»
«Vedo che sentire altri offendermi ti
rinvigorisce». Mi guardò maliziosamente.
«Ma si possono fare cose
interessanti rimanendo soli, Elfa, te lo assicuro».
«Taci»
riuscii solo a dire, aspramente.
Annuì in direzione dei miei
piedi. «Barst mi ha tolto il progetto che avevo intenzione di
realizzare durante la prossima settimana».
Gettai un’occhiata
alle mie dita grondanti di sangue e feci una smorfia disgustata.
«Mi
restano le mani».
Durza fece un sorrisetto. «Da quando mi dai
suggerimenti? E poi non c’è nulla da strappare
dalle tue unghie,
ci pensi già abbastanza da sola, quando sei
nervosa».
Accolsi
con fastidio quell’osservazione. «Non pretendere di
conoscermi».
Lo Spettro mi sciolse dalle catene sorridendo
sinistramente. «Non so nemmeno il tuo nome, tanto per
cominciare».
«E non lo saprai mai, tanto per
concludere».
Appoggiai la punta del piede destro a terra, ma non
appena ci feci pressione delle stilettate di dolore si diffusero per
tutto l’arto.
Durza mi guardò con una luce giocosa negli occhi
di sangue, le pupille assottigliate dalla luce del braciere
«Potrei
ridarti le unghie in cambio del tuo nome. Tanto cosa vuoi che ne
sappia della vostra società elfica?»
«Perché mai vuoi saperlo
con tanto interesse?»
«Conosco i nomi di tutti gli uomini e le
donne che lavorano al mio servizio. Odio rivolgermi alla gente
chiamandola “Tu”, “Soldato”,
“Cameriera”, “Stalliere”,
“Elfa..”»
Mi alzai in piedi con decisione, ignorando il
dolore. «Tanto me le strapperesti di nuovo, le
unghie».
Lo
Spettro tormentò una catenella d’argento che
teneva intorno al
collo. «Vero. Ma sappi che verrò a sapere tutto
prima o poi, che tu
collabori o meno. Ho i miei mezzi. Intanto so
cos’è il tatuaggio
che hai sulla spalla. Si chiama Yawë ed è un
simbolo di
riconoscenza presso i vostri reali. Quanto bene hai fatto per
meritare un simile onore da parte del vostro sovrano, piccola
Elfa?»
L’ironia della situazione mi costrinse a ricacciare un
sorriso. Se solo avesse saputo che ero la figlia della regina..
«Non
sono piccola. E la nostra inutile conversazione si conclude
qui».
Ridacchiò, afferrandomi per un polso mentre mi conduceva
all’uscita. «Se voi Elfi siete tutti
così algidi e noiosi non mi
stupisce che Galbatorix abbia intenzione di sterminarvi».
«Barst
pareva pronto a giurare che il re ammirasse profondamente il mio
popolo».
A quel punto Durza scoppiò a ridere rovesciando il capo
leggermente all’indietro, gonfiando i tendini del collo e
spalancando la bocca irta di denti aguzzi. Uno spettacolo spaventoso,
nonostante la risata fosse palesemente sincera, calda. Potevano gli
Spettri ridere così?
«Potrei sentirmi ferito nei sentimenti. Hai
creduto a lui e non a tutte le mie promesse di
libertà!»
Bloccai
i miei muscoli facciali prima che si distendessero in un sorriso. La
sua allegria era stravagante. «Non gli ho creduto nemmeno un
istante». Entrai nella mia cella e lo Spettro mi
lasciò il polso.
«Ma perché hai voluto che tacessi tutto a
Barst?» chiesi,
recuperando tutta la mia serietà. «Me ne sono
accorta sai. Tu non
volevi che io mi lasciassi sfuggire nemmeno una più piccola
informazione di fronte a lui, eppure il vostro padrone è lo
stesso.
È così importante per te essere la persona che
dirà a Galbatorix
ciò che vuole sapere? Riceverai una ricompensa o
cosa..?»
Durza
mi posò un indice sulle labbra, bloccando le mie parole.
«Vorrei
tanto prolungare questa chiacchierata Elfa, ma ho da fare. Ti dico
solo questo: non è detto che io riferirei direttamente al
mio re
come un cagnolino obbediente chiaro?»
Se ne andò, lasciandomi
piuttosto basita. Misi insieme le sue ultime parole e quelle che mi
aveva rivolto la settimana precedente.
«Non pretendo che un
servo di Galbatorix capisca».
«Allora può darsi che con il
tempo riuscirò a capire».
Mi sedetti sul mio giaciglio.
Durza non pareva molto entusiasta di dichiararsi servitore di
Galbatorix. Ma allora perché era al suo servizio? Quali
erano le sue
vere intenzioni?
Scossi la testa. Non l’avrei mai saputo e
probabilmente non dovevo nemmeno interessarmene.
Lo Spettro parve
voler dedicare il resto della giornata al risposo perché non
si fece
più vedere. Così sfruttai quella piccola tregua
per immergere i
piedi nell’acqua gelida del catino, che mi diede sollievo
immediato. In effetti era così fredda che quasi non sentivo
più i
piedi.
Il comportamento del mio nemico degli ultimi giorni mi
aveva colpita e non poco, anche se una parte di me rifiutava di
ammetterlo. Non avrei mai creduto che potesse avere la decenza di
muoversi in mio soccorso, che fosse solo per ripicca verso Barst o
per impedirgli di racimolare informazioni che a quanto pareva non
voleva che arrivassero al sovrano.
Grazie alla sgradevole visita
del conte, ero io ad avevo raccattato informazioni interessanti: I
sostenitori del re erano divisi tra loro e quindi vulnerabili;
Galbatorix restava veramente chiuso nel suo castello a compiere
chissà quali sacrileghi studi come si mormorava tra la mia
gente;
Durza sapeva leggere i sentimenti, a quel punto non c’erano
più
dubbi.
Riguardo all’ultimo punto potevo solo azzardare qualche
ipotesi. Gli Spettri e gli Spiriti erano le creature più
misteriose
di Alagaësia insieme ai Draghi. Non si era mai sentito di uno
Spettro che si fosse lasciato studiare. I loro segreti nascevano e
morivano con loro, cose che avvenivano difficilmente entrambe; la
maggior parte degli Spettri creati avveniva per errore, da maghi
inesperti o troppo ambiziosi e gli spiriti prendevano il sopravvento
sulla loro coscienza. Ucciderli era ancora più difficile,
anche se
Ajihad vantava la discendenza diretta da un uomo delle tribù
desertiche che era riuscito a sterminare l’intera famiglia di
uno
Spettro e a sconfiggere e fare sparire lo Spettro stesso. Ma nei suoi
racconti leggenda e realtà si intrecciavano con evidente
trasporto,
al punto che era impossibile distinguere quanto di ciò che
narrava
fosse vero.
Mi resi conto di essere probabilmente la creatura con
più conoscenze sugli Spettri in tutta Alagaësia.
Chissà come
aveva fatto a diventare uno Spettro. In effetti prima di diventare il
Durza che conoscevo io doveva essere stato un comunissimo mago
umano..
Mi concessi di gioire per tutte le informazioni che erano
finite in mio possesso.
Sarei sopravvissuta a tutto quello e le
avrei riferite ai miei alleati. Se solo avessi trovato un punto
debole in Durza avrei potuto dare suggerimenti per come riuscire ad
ucciderlo. Non sapevo da quanto la sua presenza inquinasse la terra
di Alagaësia, ma doveva essere da parecchio dato che si diceva
che
fosse già un mago esperto quando aveva sostenuto il re nella
sua
ascesa al trono.
Ce l’avrei fatta! Qualcuno sarebbe venuto a
salvarmi. Ero comunque un anello abbastanza importante nella catena
delle forze della resistenza, non potevano essersi semplicemente
rassegnati alla mia morte.
Poi un pensiero viscido e triste si
insinuò nella mia mente e la mia flebile felicità
si incrinò
all’improvviso, come una casa dalle deboli fondamenta.
Non
sapevo esattamente cosa stesse succedendo fuori da quelle mura
ammuffite, ma la verità era che vita in Alagaësia
stava sicuramente
proseguendo a ritmi vertiginosi anche senza di me.
Anche senza la
gentilezza di Glenwing. Anche senza il sorriso di Fäolin.
La vita
era profondamente ingiusta.
Un male che non aveva nulla a che fare
con i dolori delle torture mi dilaniò il petto.
Fäolin.
Fäolin..
Oh
no! Non dovevo, non dovevo davvero. Eppure gli argini che ero
riuscita a impormi per tutto quel tempo, si ruppero. Prima una lieve
crepa e poi cedettero, di botto.
Fäolin.
Chiusi gli occhi e mi
lasciai travolgere dal suo ricordo. I suoi capelli così
biondi da
sembrare d’argento, lisci e lunghi fino alle spalle, raccolti
sempre in una coda bassa; la sua pelle delicata; i lineamenti
aristocratici; i grandi occhi blu, profondi come solo
l’oceano
doveva essere; le labbra morbide come petali di rosa, capaci di dare
vita a stupende melodie; le mani gentili e lisce, che riuscivano ad
intrecciare una ghirlanda di fiori nello spazio di tempo di pochi
battiti di cuore. Fäolin che mi baciava, Fäolin che
mi abbracciava,
Fäolin che mi ascoltava, che mi capiva, che mi accettava, che
mi
voleva bene.
Poi rividi il suo corpo disteso a terra, le palpebre
serrate, la bocca aperta in una muta richiesta di aiuto, la freccia
nera stregata dalla magia dello Spettro conficcata nella sua gola.
La
morte se l’era portato via e io non lo avrei rivisto mai
più. Mi
aveva promesso che ci sarebbe stato. Sempre.
Ma non aveva potuto
mantenere la parola e la sua assenza mi bruciava come un continuo ed
eterno groppo alla gola. Ispirai profondamente per trattenere le
lacrime e i singhiozzi.
Forse era così che si era sentita mia
madre alla morte del re Evandar. Era un dolore così profondo
da
cancellare ogni pensiero ed ogni speranza.
Io stavo cercando di
combattere, era vero. Ma per cosa? Per un futuro? Come potevo pensare
ad un futuro se anche solo l’idea di viverlo senza
Fäolin mi
pareva insostenibile? Come potevo guardare avanti e continuare a
sperare, quando il mio più forte pilastro si trovava nel
passato?
Così smisi di pensare, semplicemente. Mi abbandonai al
dolore e mi lasciai cullare dalla sua forza distruttiva. Lo avevo
rifiutato e ricacciato per troppo tempo e mi ero illusa di poterlo
sconfiggere semplicemente spingendolo nell’angolo
più recondito
della mia mente. Ma come il fiume che restituisce sempre le sue
vittime prima o poi, così aveva fatto il mio cervello. E il
dolore
non si era placato, no. Era marcito e si era accumulato. Dolore su
dolore, cataste su cataste di materiale in putrefazione. Non ero in
grado di contrastarlo, ero troppo, troppo debole.
Mi
arresi.
Affondai il viso nella coperta di lana del mio giaciglio e
cercai disperatamente il sonno. Quello era l’unico luogo dove
i
pensieri sbiadivano, fuori dal mio controllo, e i morti
vivevano.
Fuggii da me stessa, debole e vulnerabile come mai in
vita mia ero stata.
Mi venne la febbre. Un attacco feroce dal
quale non seppi difendermi e che mi confuse la mente al punto che,
nei miei vaneggiamenti e confuse visioni, mi parve di vedere per
l’ennesima volta l’occhio bianco dallo spioncino
della
porta.
Biascicai una serie di parole, inutili minacce ed
esortazioni a sparire.
Alla fine cedetti e mi addormentai.
Sognai
mille morti. Volti di uomini che avevo ucciso, che ritornavano dalle
ombre per sussurrare minacciosamente il mio nome, invitandomi a
raggiungerli, minacciando di venire loro stessi a prendermi.
Mi
svegliai più volte, fradicia di sudore e tremante.
[Durza]
Il
sole non aveva ancora sfiorato lo Zenit e Durza avrebbe avuto ancora
un bel po’ di questioni da sbrigare prima di potersi
concedere un
po’ di pace.
Lord Barst se n’era finalmente andato, doveva
smettere di preoccuparsi. Ma la minaccia che gli aveva lanciato quel
maledetto prima di partire continuava a tormentarlo.
Se avesse
riferito al re che le sue torture non erano sufficienti, Galbatorix
avrebbe potuto pretendere che l’Elfa fosse portata al suo
cospetto
per occuparsene lui stesso. E quello avrebbe rovinato tutti i suoi
piani.
Si sedette stancamente alla massiccia scrivania di legno,
afferrando di malavoglia il pacco di pergamene, che conteneva i
rapporti dei propri uomini sul territorio intorno a Gil’ead,
che
lui governava e gestiva per conto di Galbatorix.
Era stato quello
il premio che il sovrano gli aveva riservato per averlo aiutato ad
assumere il potere. Durza pensava di meritarsi come minimo di regnare
su una buona metà di Alagaësia, visto che senza di
lui Galbatorix
sarebbe rimasto solo un pazzo senza speranza. Lui lo aveva guidato
nel sottomettere il suo nuovo drago nero, senza di lui non sarebbe
mai riuscito a piegare al suo volere nemmeno uno dei cuori dei cuori
di drago che erano in suo possesso. Lui ci sapeva fare con le anime
degli esseri, era un potere che gli avevano dato gli Spiriti che
avevano fuso la loro coscienza con la sua, lo stesso potere che gli
permetteva di controllare il volere degli Urgali.
Già, anche
senza i suoi Urgali il re si sarebbe trovato parecchio in
difficoltà.
Meritava decisamente più della metà di
Alagaësia.
Unì le mani davanti al volto e tornò col pensiero
al
giorno in cui il re era riuscito a strappargli il giuramento che
ancora lo teneva vincolato a lui.
«Io so che stai cercando
disperatamente qualcuno che odi e che il tuo cuore gronda vendetta.
Una volta diventato re di queste terre, io potrò offrirti
ciò che
desideri su un piatto d’argento».
«E perché non subito?»
aveva chiesto lui, impaziente.
«Dovrai fidarti di me» era stata
la risposta. «Però ho bisogno di un paio di
garanzie..»
Le
garanzie si erano rivelate essere dei giuramenti di obbedienza che
lui, accecato dalla prospettiva di poter avere immediatamente la
propria vendetta, aveva impulsivamente accettato e
pronunciato.
Ovviamente il re non aveva tra le mani l’uomo che
lui stava cercando, aveva semplicemente sfruttato la sua debolezza,
lasciandogli la garanzia futura che, finita la guerra, lo avrebbe
certamente catturato.
Aveva trovato lui stesso l’uomo che gli
interessava, diversi decenni più tardi. Ma purtroppo si era
reso
conto della sua vera identità quando quello gli era ormai
sfuggito.
Lo aveva inseguito ed era riuscito solo ad ottenere una delle
più
cocenti sconfitte della sua vita, oltre che un graffio sulla sua
spada. Non aveva fatto nulla per eliminarlo dalla lama, lo teneva
lì,
in bella mostra, come monito alle sue azioni passate.
L’uomo in
questione non ce l’avrebbe mai fatta da solo, e in effetti
era
stata una donna misteriosa a favorirgli la fuga con la magia, tenendo
impegnato Durza. Aveva impiegato decenni per scoprire infine
l’identità di quella maga maledetta. Ma nel
frattempo il suo uomo
era riuscito a riparare presso i Varden e lì ancora viveva,
addirittura in vece di loro capo.
Durza pensò con disgusto che il
mondo non era nemmeno in grado di distinguere i cattivi, quando
quelli si nascondevano tra loro. E Ajihad e la sua famiglia erano
colpevoli di crimini orrendi, almeno quanto i suoi.
Sapeva di
essere spietato, ma tutto era sacrificabile per lui. La sua vendetta
veniva prima della sua stessa vita, lo doveva a se stesso. E a tante
altre persone.
I muscoli delle spalle e del collo furono percorsi
da uno spasmo. Quanto? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?
Se
all’inizio aveva accettato il comando del re nella speranza
di
poter raggiungere con facilità i propri obiettivi, ormai
aveva
perduto totalmente fiducia nelle sue vuote promesse.
Doveva essere
cauto. Prima di tutto avrebbe dovuto assicurarsi la fedeltà
del
cavaliere dei draghi che sarebbe nato dall’uovo azzurro che
purtroppo non era riuscito ad intercettare. Complottava da anni per
riuscire a prendere il potere che era in possesso di Galbatorix e non
appena avesse trovato il modo di svincolare dal suo giuramento,
cambiando il suo vero nome, avrebbe rovesciato il suo regno e si
sarebbe lui stesso impadronito del trono.
Era stanco di essere
sempre secondo ed inferiore a qualcuno. Il gusto dolce-amaro del
potere era troppo allettante per potervi rinunciare.
E se pensava
che era stato lui stesso a rendere il sovrano così forte
rischiava
di impazzire per la frustrazione!
Hillr bussò alla porta e lo
Spettro fu riscosso brutalmente dai suoi pensieri.
«Entra»
comandò brusco.
L’uomo era uno dei pochi bifolchi che lo
circondavano capace di leggere e scrivere, era lui che raccoglieva i
rapporti su pergamena, lui che lo sostituiva durante i periodi di
assenza. Era intelligente, capace e silenzioso, caratteristiche che
Durza stimava parecchio nei suoi servitori.
«Mio signore, ho qui
un altro rapporto».
«Di chi?»
Hillr gli porse un foglio di
carta piegato in quattro. «Dell’unica persona che
utilizza la
carta invece della pergamena, signore».
Lo Spettro fece un mezzo
sorriso. «Grazie».
L’uomo fece un rapido inchino e se ne
andò.
Durza si dedicò alla lettura di quell’ultimo
rapporto,
decifrando agilmente la grafia graziosa e minuta, scritta in un
codice noto solo a lui e al mandante, che avevano inventato tempo
addietro per potersi scambiare messaggi con la certezza che nessun
altro nel palazzo li avrebbe intercettati.
Durza,
Come
mi avevi chiesto ho interpellato il nostro ospite. Ho fatto
più
fatica del previsto a riuscire a farmi dire ciò che volevo,
è più
astuto di quanto credessi. Devo confermare i tuoi timori, il tuo
amico fraterno ha proprio intenzione di cercare di privarti di tutto
il potere che hai e di sminuirti di fronte al suo re.
Lo
Spettro sorrise del modo che utilizzava la sua spia per indicare Lord
Barst, che certamente suo amico fraterno non era, dato che si
odiavano cordialmente da quando si erano conosciuti. Aveva chiesto
alla sua spia di trovare un modo per estorcergli più
informazioni
possibili sulle sue future intenzioni, e lei c’era riuscita
benissimo. Era un’esperta in quello.
Non
ti sopporta proprio e ha intenzione di fare ricadere tutte le colpe
su di te, affermando che sei di polso troppo leggero e che non ti sei
impegnato a sufficienza nel trattamento dell’altra tua
ospite. Sta’
attento a ciò che fai.
Beh,
l’avvertimento era giunto un po’ tardi dato che
Lord Barst aveva
appena abbandonato Gil’ead furioso come un calabrone
stuzzicato. E
riguardo “l’altra tua ospite”,
cioè l’Elfa, stava
cominciando a rassegnarsi. Era testarda, terribilmente testarda. E
non avrebbe ceduto mai, ne era certo.
Se il re lo avesse ordinato,
avrebbe dovuto portarla al suo cospetto e lasciare che se ne
occupasse lui, con la forza infinita che i suoi Eldunarí
gli fornivano e la sua indiscussa abilità
nell’impossessarsi delle
menti altrui.
No, l’Elfa doveva dare a lui le informazioni che
custodiva come un’amante gelosa.
Gli era venuto un mezzo
accidente quando Barst si era dimostrato disponibile ad approfittarsi
di lei pur di riuscire a convincerla a parlare. Non era certo che la
volontà di lei avrebbe retto fino a quel punto, e se le
informazioni
fossero passate al conte, era come se fossero già nelle mani
del
re.
Per quello si era affrettato ad intervenire. Per quello e
perché non riusciva a tollerare un’azione simile.
Poteva anche
essere la creatura più spietata e priva di scrupoli di
Alagaësia,
ma le urla di sua madre quando i predoni li avevano catturati le
ricordava benissimo. E non si era mai sentito in grado di poter
compiere la stessa azione su una donna. Sapeva però che, se
si fosse
abbandonato alle voci grondanti di odio dei suoi spiriti, sarebbe
stato capace di fare qualsiasi cosa.
Durza serrò la mascella,
cercando di dominare la rabbia e l’impotenza.
Perché i suoi
piani parevano sempre destinati a fallire?
Doveva assolutamente
riuscire a muovere dei passi avanti dalla sua situazione. E il primo
e necessario era convincere l’Elfa a vuotare il sacco. E dato
che
né le parole melliflue né la tortura erano
serviti a granché,
avrebbe cercato di conquistarsi la sua fiducia.
Rise piano di se
stesso. Non sarebbe stato facile per niente, lei lo odiava con tutte
le sue forze e non sarebbe mai stata disposta a cambiare la sua
posizione. Doveva essere l’uomo che le aveva fatto
più male al
mondo.
Quella non era l’unica soluzione. Avrebbe sempre potuto
cercare di entrare nella sua mente, ma era restio a farlo
perché le
sue difese gli sembravano molto forti e perché lui,
nonostante
l’assistenza delle coscienze dei tre spiriti che abitavano in
lui,
non era molto abile in quei giochetti. La sua coscienza era piuttosto
controversa: una continua lotta tra lui e i suoi ospiti, che al
momento sbagliato potevano cedere per capriccio e eludere il suo
controllo. Era diventato molto abile a dominarli, ma talvolta
sfuggivano ancora al suo dominio, anche se lo avevano aiutato
parecchio ai tempi in cui aveva piegato le menti degli Eldunarí
per il suo re.
Non voleva rischiare di attaccare la mente
dell'elfa.
Eppure fu proprio ciò che si ritrovò a fare. Ma
non
subito e neppure quello stesso giorno.
Prima si perse a ricordare
i rari e brevi momenti in cui il viso di granito della sua
prigioniera assumeva qualche espressione, ricordandogli che in fondo
era una donna, viva, reale.
E poi pensò al momento in cui lei
aveva appoggiato il viso contro di lui -il naso freddo contro il suo
collo- subito dopo averla salvata dall’intento di Barst, solo
pochi
giorni prima, come se lui potesse nasconderla da tutti i mali del
mondo, lui che era la causa dei suoi. L’aveva sentita tremare
tra
le sue braccia, fragile come una foglia al vento. Per un assurdo
istante aveva desiderato veramente proteggerla da tutti i mali del
mondo. Più tardi aveva riso di se stesso e dei suoi stupidi
sentimentalismi. Lui e l’Elfa non potevano fare altro che
odiarsi e
lui sarebbe stato costretto ad ucciderla se lei si fosse rifiutata di
parlare. Anzi, per essere specifici avrebbe dovuto ucciderla anche
dopo che avesse parlato.
Ma in fondo a lui non importava nulla.
Non gli piaceva quella donna. Era l’esatta antitesi di
ciò che era
lui, rappresentava gli ideali che lui non avrebbe mai seguito,
l’altruismo che lui non avrebbe mai avuto.
Tutto ciò da cui si
era allontanato da lungo tempo.
Forse era per quello che non
riusciva a non provare una certa curiosità nei suoi
confronti.
Non
andò a torturarla quel giorno, non se la sentiva. I suoi
spiriti
invocavano sangue e dolore, ma Durza si chiuse in se stesso,
allontanando il fastidioso vociare delle creature.
Pensò che sia
lui che l’Elfa avessero diritto ad una pausa dopo la
liberazione
della funesta presenza di Lord Barst.
Tornò nella sua cella la
mattina dopo.
E la condizione in cui trovò la sua prigioniera
ebbe il potere di mandarlo nel panico più totale.
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Ciao a tutti e bentornati! :D
Allora, vi è piaciuta la narrazione con un po’ di pensieri di Durza? Spero di non aver fatto troppa confusione in quel punto, vi ho imbottiti di nuove informazioni.
Se c’è qualcosa di poco chiaro fatemelo presente, grazie ;)
Baci,
Lalli