~ 8°_ Bad
things happen for a reason ~
A Robs e Vals
Perché hanno
fatto in modo che non gettassi la spugna.
Vi voglio
bene ♥
Non
deve far male. Non deve farti male. Non lui. Non hai rapporti con lui, lui non
è nessuno, non è degno di nota, non è degno del tuo dolore. E per amor del
cielo non lasciare che vedano le tue lacrime, avrai tempo per versarne e
renderti ridicolo e patetico quando sarai da solo. Da solo. Sarai da solo...
Thad
continuava a fissare i tre compagni della Dalton dando l'impressione di non
aver colto a pieno il significato di quello che gli avevano appena detto.
Invece aveva capito fin troppo bene che cosa significassero quelle parole. Era
finito, ecco cosa voleva dire. Qualunque cosa ci fosse – o non ci fosse
stata fra lui e Sebastian, era finita e inspiegabilmente, nonostante tutte le
volte in cui si era lamentato di quella spina nel fianco, ora improvvisamente
non si era mai sentito tanto solo.
Jeff
gli si avvicinò e prima che Harwood potesse rendersene conto si era lanciato
tra le sue braccia, nascondendo le prime lacrime nell'incavo del suo collo; il
biondo lo strinse quanto più possibile a sé, accarezzandogli la schiena e
guardando Nick e Trent con occhi tristi.
«Posso
andare a dirgliene quattro anche ora, se vuoi», sussurrò poi all'amico, non
potendo sopportare oltre quelle lacrime, ma sentì Thad scuotere la testa,
ancora nascosta.
Ci
volle qualche altro istante prima che riuscisse a riprendersi del tutto,
nascondendo alla bene e meglio le ultime lacrime e sorridendo con gli occhi
lucidi.
«Tuttto a posto. È stato un attimo. Sto bene», li rassicuro,
sperando di riuscire a crederci anche lui. «Ora devo sul serio fare una doccia
e cambiarmi. Sarà giù per cena».
I
ragazzi capirono che stava chiedendo loro spazio e annuirono con un sorriso
prima di lasciare la stanza così che Thad potesse prendere un attimo fiato e
cercare di sistemare le cose nella sua testa. Non appena la porta si chiuse
alle sue spalle, Harwood si lasciò scappare un sospiro, sedendosi sul letto e
nascose il viso fra le mani. Avrebbe tanto voluto trattenersi, ma sapeva che
sarebbe stato solo peggio e che invece, se fosse riuscito a sfogarsi, magari
dopo sarebbe stato meglio e non ci avrebbe pensato. Si spogliò con lentezza –
non avrebbe dovuto dar conto a nessuno da ora in poi – e si trascinò in bagno,
sotto il getto di acqua calda che avrebbe nascosto le sue lacrime e difeso il
suo orgoglio.
Il
getto caldo lo rilassò, avvolgendolo nel vapore ed annebbiando ogni cosa,
dandogli la sensazione che per un po' avrebbe semplicemente potuto dimenticare
tutto e tutti, lasciarsi vivere senza doversi preoccupare di quello che gli
stava succedendo intorno. Fu in quel momento che una consapevolezza lo colpì,
forte come poche altre nella sua vita.
Non
avrebbe fatto il suo gioco. Non questa volta. Ormai Sebastian Smythe aveva
smesso di avere influenza sulla sua vita: aveva deciso di uscirne, bene.
Sarebbe stato per sempre e non ci sarebbe stato ritorno. Doveva essere così.
Uscì
dalla doccia con una nuova carica, di quelle che giungono alla fine e qualcuno
chiamerebbe forza della disperazione. Lui la chiama “voltare pagina”, o “darsi
pace” o quel che era. erano scuse, solo nomi che non significavano nulla, che
non potevano coprire quello che provava. Si sarebbe limitato semplicemente ad
ignorarlo, come si fa quando si scopre di avere una malattia, ma si decide di
far finta di nulla. Avrebbe mentito fino a che non sarebbe diventata la realtà.
Indosso
la divisa della Dalton, legò con un bel nodo la cravatta e mise su la giacca:
si sentiva così a proprio agio con quei vistiti, quasi fossero una seconda
pelle, un’armatura. Quasi come se con quelli addosso, qualsiasi cosa si sarebbe
risolta. Uscì dalla stanza senza badare al fatto che era da molto che non la
sentiva così silenziosa, e si incamminò per il corridoio, arrivando nella mensa
in pochi istanti, senza neanche prestare attenzione al percorso che aveva
fatto. Fu buffo pensare che l’ultima volta in cui era stato in una mensa era
letteralmente saltato in aria, ma quella constatazione non gli fece perdere la
carica, non lo rallentò. Arrivò al proprio posto, al tavolo con gli altri
Warbler, con un raggiante sorriso e fu accolto da tutti con un caloroso
applauso.
Tutti
tranne Sebstian. Thad abbassò il capo, un po’ in
imbarazzo, ma lusingato e quando lo rialzò, scoccò in se possibile ancora più
grande sorriso al suo ex-compagno di
stanza.
«Grazie»
disse, sedendosi «Non avete idea di quanto sia felice di essere qua. Smythe»,
sorrise ancora in sua direzione.
L’altro
fu così spiazzato da non rendersi affatto conto di aver ricambiato con un
leggero sorriso, di quelli che si fanno per abitudine e cortesia e ci volle
tutto il suo autocontrollo per evitare di chiedergli che problema avesse. Si
aspettava quanto meno una delle sue sfuriate, qualcosa sul “siamo compagni di
stanza, vorrà pur dire qualcosa per te”; mai avrebbe immaginato un viso tanto
cordiale ed una simile indifferenza alla cosa, come se per lui la sua presenza
– o assenza – non fosse affatto rilevante.
Meglio così, si costrinse a pensare In fondo era quello a cui stai lavorando e
per una volta Harwood non ti sta rendendo le cose difficili.
*
La
prima volta che aveva provato ad aprire gli occhi, la luce lo aveva ferito come
fosse una lama sottile; quindi ora stava fermo, completamente immobile,
cercando di capire dove fosse e come stesse. Frammenti di ricordi gli
attraversavano la mente regalandogli nient'altro che fitte laceranti alla testa
ed ebbe improvvisamente paura di cosa sarebbe successo se avesse anche solo
provato a muoversi.
«Kurt...
Kurt ti prego, dimmi che ti sei mosso, che riesci a sentirmi...».
Quella
voce. La conosceva, aveva qualcosa di così familiare da far male; eppure per
qualche istante parve tutto spento, come se non riuscisse a ragionare, a
mettere due parole di seguito e comporre un pensiero. Ma doveva sapere, doveva
ricordare, doveva capire chi fosse...
«Bla-a-ine...».
La
voce gracchiante, affaticata, diede finalmente voce a quell'istinto. Era
Blaine. Improvvisamente era Blaine. Il suo Blaine. Come aveva potuto metterci
tanto a ricordarlo? Tenne ancora gli occhi chiusi: muoversi gli faceva male e
voleva fare le cose gradualmente, capire prima se aveva davvero sentito la voce
di Blaine o era stato solo nella sua testa. Poi qualcosa cambiò. Una nuova
sensazione, diversa dal dolore o dal suono della voce: impiegò del tempo a
capire che cosa fosse e quando ci riuscì, ancora una volta si chiese come
avesse fatto ad essere così lento. Qualcuno stava stringendo la sua mano.
«Stavolta
ti ho sentito, sono sicuro di averti sentito... Ku-rt...».
Un
singhiozzo. Quello era un singhiozzo. Blaine singhiozza, probabilmente
piangeva. Perché piangeva?
«Che…
co-sa… è suc-cesso?».
Spalancò
gli occhi, come se improvvisamente sapesse di poterlo fare, di doverlo fare.
Spalancò gli occhi e il bianco della stanza lo ferì, facendogli trattenere il
fiato. Quando si concesse di espirare di nuovo, si accorse di avere qualcosa
alla base del nato, qualcosa di sottile, duro, che lo solleticava,
infastidendolo. Cercò di alzare una mano per togliere qualsiasi cosa fosse, ma
sentì l'arto destro tremendamente pesante e voltandosi vide un tubo che
arrivava fino al suo avambraccio.
«N-non
muover-ti». Di nuovo quella voce, di nuovo Blaine. «È la flebo, n-non puoi
toglierla».
La
voce gli tremava ancora a tratti e gli occhi di Kurt lo cercarono, sollevandosi
di poco, non senza sforzo, rispetto al punto del braccio che stavano fissando.
Eccolo lì, bello come sempre, come lo ricordava, gli occhi chiari che
brillavano per le lacrime, alcune delle quali stavano già scendendo sul viso, e
le labbra rosse distese nel sorriso tremulo di chi trattiene il pianto a
stento.
«Ciao...»,
gli sussurrò, cercando di sorridere e sentì il ragazzo prendergli di nuovo la
mano e stringerla nella sua con forza, quasi avesse paura che potesse scappare.
«Tu
non hai i-dea di quan-to sia felice al mo-mento...», singhiozzò Blaine, prima di nascondere il
viso tra le lenzuola bianche e cominciare a piangere.
A
Kurt mancò il fiato per la disperazione che sentiva nei gemiti del suo ragazzo
e nonostante pesasse quanto un blocco di cemento, ce la fece ad alzare il
proprio braccio e posare la mano sui suoi capelli, stranamente liberi dal gel.
Lo accarezzo, provando a dargli conforto per qualcosa che non era certo di conoscere:
doveva essere grave a giudicare dalla reazione del riccio.
«Che
cosa… è successo?», si azzardò a chiedere, ma la risposta di Blaine fu
interrotta dall’arrivo di Finn che, allontanatosi per prendere un paio di
caffè, non esitò a farli cadere per la sorpresa di vedere suo fratello sveglio
– proprio ora che aveva cominciato davvero a perderci le speranze.
«Kurt!»,
esclamò con voce strozzata, raggiungendo poi il letto del ragazzo «Dio, sei
sveglio!» e anche il suo volto si bagnò di lacrime, mentre gli prendeva la mano
– e lo avrebbe sicuramente abbracciato stresso se non fosse stato per il
sondino, la flebo e il pallore di Kurt che ai suoi occhi lo rendeva più fragile
del cristallo.
Dal
canto suo, il ragazzo avrebbe davvero voluto dire ad entrambi di smetterla di
piangere, che non ce n’era motivo perché stava bene, ma sentiva qualcosa
chiudergli la gola per cui si limitò a guardarli senza sapere che cosa dire.
«Credo
che», riprese a parlare Blaine, schiarendosi la gola roca per le lacrime «Dovremmo
avvisare i dottori… e magari anche Burt!».
Finn
annuì, uscendo dalla stanza non senza prima aver dato un ultimo sguardo dietro
di sé a suo fratello, quasi a volersi accertare che fosse davvero lì, sveglio,
e che non fosse solo uno dei suoi sogni. Quando il sorriso di Kurt si fu
impresso abbastanza nella sua mente da convincerlo che stava accadendo davvero,
riuscì a superare la soglia della porta e ad uscire in corridoio.
Blaine
invece rimase immobile, gli occhi fissi nel vuoto, quasi senza fiato. Il tocco
del suo ragazzo riuscì a stento a farlo tornare alla realtà.
«A
cosa pensi?», gli chiese Kurt, con quel cipiglio tra il curioso e il
preoccupato che lo caratterizzava tanto.
«Che
non ce l’avrei fatta se tu non ti fossi svegliato».
Blaine
si voltò verso di lui, gli occhi umidi ed un sorriso che stentava a rimanere
fermo. Stavolta il ragazzo non ce la fece a reggere quella vista e si sporse
quanto bastava per baciarlo: aveva come la sensazione che fossero passati
secoli dall’ultima volta che aveva sentito il sapore di quelle labbra sulle
proprie e il modo quasi disperato in cui anche Blaine si stava aggrappando a
quella sensazione gli fece capire che non doveva essere il solo a provare una
simile sensazione.
«Qualunque
cosa sia successa, mi dispiace», disse non appena riuscirono a staccarsi,
prendendolo per mano.
«Kurt!».
Burt
Hummel entrò nella stanza del figlio con una forza che il ragazzo non si
sarebbe aspettato. Non chiese scusa ai medici che lo stavano ancora visitando,
controllando i diversi valori sul monitor, né rivolse loro domande:
semplicemente camminò a grandi passi verso Kurt e lo strinse a sé, in un
abbracciò così forte che al giovane mancò il fiato.
«Ho
imparato la lezione, Kurt. Non azzardarti mai più a farmi uno scherzo del
genere!», gracchiò con voce roca e il figlio lo strinse con le lacrime agli
occhi.
«Mai
più», sussurrò prima di lasciarlo andare.
Gli
stessi medici parvero provati da quella scena e rimasero in silenzio,
attendendo che anche Carole lo abbracciasse e che la famiglia si ricomponesse:
volarono sguardi carichi di parole, di emozioni inespresse, fino a che Kurt non
ebbe finalmente il coraggio di chiedere che cosa gli fosse successo.
«C’è
stata un’esplosione, al McKinley. Ricordi che stavamo gareggiando per le
Regionali?», cominciò Blaine, seduto accanto a lui.
Il
ragazzo scosse la testa: gli ultimi ricordi erano così confusi che se solo
provava a recuperarli, una fitta alla testa lo paralizzava.
«Con
simili traumi è normale non ricordare gli ultimi eventi», spiegò loro uno dei
medici.
Kurt
stette a guardarlo per qualche istante, come se si aspettasse altro, poi tornò a
guardare la sua famiglia.
«E
gli altri? Stanno bene?».
«Niente
più di qualche graffio, tranquillo. Sei tu che ci hai fatto preoccupare. Hai
dormito per dieci giorni!», esclamò Finn, scompigliandogli i capelli e
ringraziando il cielo perché poteva vedere ancora una volta lo sguardo truce
che il fratello gli stava lanciando.
«A
tal proposito, Mr. Hummel, dovremmo scambiare qualche parola con lei».
L’uomo
guardò le tre persone in camice bianco mentre un brivido gli attraversava la
schiena. Suo figlio si era appena svegliato, stava bene: che cosa avevano di
tanto importante da dovergli dire?
«Qualcosa
non va?», sussurrò Carole: era un’infermiera, lei: sapeva per esperienza che un
discorso che cominciava in quel modo, raramente portava a qualcosa di buono.
Lo
sguardo fugace che uno dei medici lanciò al primario non fece che confermare i
suoi sospetti. Il più anziano sospirò: avrebbe voluto parlarne con i genitori
in disparte, ma dal momento che non sembrava esserci altra soluzione, decise di
mettere al corrente tutti nello stesso momento.
«Dai
primi controlli che abbiamo effettuato su suo figlio», cominciò, sempre
rivolgendosi a Burt «abbiamo rilevato un ritardo agli stimoli di tipo motorio
che interessano la parte sinistra del corpo. In particolare l’arto inferiore».
Improvvisamente,
a tutti parve come se l’aria della stanza fosse troppo poca. Finn avrebbe
voluto alzarsi per aprire la finestra, ma aveva la sensazione che si fosse mosso
anche solo di un centimetro, anche solo per un istante, sarebbe crollato tutto.
Improvvisamente, desiderò non aver ascoltato tutto e non riuscì a fare a meno
di spostare lo sguardo su Kurt.
Il
ragazzo, dal canto suo, non aveva emesso un fiato. In quel momento si stata
semplicemente concentrando sulla stretta con cui Blaine gli teneva la mano –
più forte non appena il dottore aveva smesso di parlare – e gli sembrava di non
poter fare altro. Non voleva sapere altro. Erano troppe informazioni in una
sola volta, troppe cose fuori posto perché potesse reggerle.
«Questo
che cosa significa?».
La
voce di Bart suonò quasi atona. L’uomo cercava di non mostrare nessuna delle
emozioni che lo stavano scuotendo: erano troppe e contrastanti, così diverse
che non avrebbe saputo trovare modo di mostrarle senza impazzire almeno un po’.
«Il
danno non è molto grave e soprattutto non è permanente. Quando si tocca il
cervello così in profondità, il rischio di simili complicazioni post-operatorie
è alto. Faremo altri accertamenti ed una nuova TAC, ma posso essere fiducioso
sul fatto che la fisioterapia risolverà completamente la cosa».
Carole
accarezzò la schiena del marito con un sorriso tirato ad allargarle le labbra,
mentre quest’ultimo annuiva appena, perso nei suoi pensieri. Finn riuscì a
spostarsi accanto al fratello, che però sembrava fissare il vuoto senza essere
realmente presente. Kurt non riusciva più neanche a sentire la stretta della
mano di Blaine.
*
Il boato è così forte che improvvisamente
crede di aver perso il senso dell’udito. Respira a fatica, senza riuscire a
capire che cosa lo circondi e il silenzio che ne consegue è improvvisamente
troppo perché possa reggerlo senza impazzire. Ha gli occhi chiusi: non vuole
vedere che cosa lo circonda, non vuole sapere che cosa è successo, perché
qualcosa gli dice che non ne verrebbe fuori nulla di buono.
Quindi sta fermo, senza vedere nulla, senza
sentire nulla. Immobile.
«Credevo fossi morto».
Quella voce, nel silenzio totale, pare
rimbombare come in una stanza vuota. Thad l’avrebbe riconosciuta fra tante e
forse è proprio per quello che fa male più di quanto avrebbe voluto. Si
costringe ad aprire gli occhi, soltanto per controllare che non sia
semplicemente la sua immaginazione e vederlo lì, con la sua impeccabile divisa
e un sorriso strano, cattivo sul volto riesce solo a peggiorare la situazione
«Sebastian», sussurra, facendo un passo
verso di lui.
Il sorriso dell’altro diviene, se possibile,
ancora più storpiato, come la smorfia di un cartone disegnato male. Lo
inquieta.
«Sei una sorpresa, Harwood. Sopravvivere,
deve essere stato un miracolo».
Che diavolo sta dicendo? Perché sta parlando
in quel modo? Fa ancora qualche passo nella sua direzione, fino a trovarselo di
fronte.
«Che cosa è successo?», chiede, senza
riuscire a staccare lo sguardo da quello del compagno di stanza – ex-compagno,
si corregge.
«Sono stupito, ecco cosa. Non avrei mai
detto che saresti stato tanto bravo da uscire vivo da un’esplosione. Ti dovrei
rivalutare?».
Thad vorrebbe seriamente gridare che nessuna
delle parole che Sebastian sta dicendo ha senso, ma qualcosa lo paralizza.
Improvvisamente, tutto intorno a lui è buio e persino il ragazzo, a pochi passi
da lui, sembra sparire nell’oscurità. Sussulta, la paura lo travolge in un
attimo e istintivamente, si aggrappa a Sebastian, come se fosse la sola cosa
sicura in quello scenario. Lo stringe quasi gli mancasse la terra sotto i piedi
e la testa comincia a girare tremendamente, mentre uno strano dolore alla
spalla gli toglie il fiato.
Che diavolo sta succedendo, ora? Chiude gli
occhi con forza, come a voler far sparire tutto semplicemente non guardando. Ma
è quello che sente a destabilizzarlo. Le dita affusolate di Sebastian stanno
stringendo i suoi polsi, costringendolo a lasciare la presa sulla sua schiena.
D’un tratto smette di opporsi a quella cosa, lascia semplicemente che Smythe lo
allontani da lui e lo guarda aspettandosi il colpo di grazia.
«Vattene».
Quella parola, quell’ordine, troppo
familiare ebbe il potere di riportare ogni cosa al posto giusto. A Sebastian
non importava nulla di lui. E lui non si sarebbe mai esposto tanto,
abbracciandolo stretto in quel modo. Che cosa gli era saltato in mente? Non c’è
nulla fra loro. Smythe era addirittura sorpreso – deluso? – dal fatto che fosse
ancora vivo…
Lo sguardo freddo del ragazzo,
la forza con cui gli stava stringendo ancora i polsi lo stavano ammazzando
lentamente
Thad
soffocò un grido nel cuscino senza rendersene davvero conto. Si sentiva
appiccicoso e le coperte lo stavano avvolgendo così stretto che si stupì di non
essere soffocato prima. Cercò di prendere fiato e tornare a respirare in modo
normale, ma ci volle più tempo di quello che voleva concedersi.
Un
incubo. Nulla di strano o inaspettato. Solo un incubo. Sospirò, girandosi e
cominciando a fissare il soffitto. Era troppo stanco per potersi permettere di
non dormire, ma più pensava a quanto avesse bisogno di quelle ore di sonno, più
faticava a riaddormentarsi.
Quella
si prospettava una notte tremendamente lunga e per quanto non sarebbe cambiato
molto, Thad sentì tremendamente la mancanza del respiro pacato e regolare di
Sebastian nel letto accanto al suo.
«Penso
di dover aggiungere un’altra cosa alla lista».
Nick
spostò lo sguardo dal soffitto alla testa bionda del suo ragazzo poggiata
contro il suo petto. Sorrise. Facevano quella cosa più o meno da quando erano
diventati compagni di stanza: avevano una lista, divisa in due colonne, su cui
scrivevano le cose che più amavano al mondo. La sola regola, tutto ciò che
scrivevano doveva prima essere stato sperimentato almeno una volta.
«Cosa
scriverai?».
«Che
amo passare la notte con la testa sul tuo petto ed il calore del tuo corpo
contro il mio».
Ancora
una volta il bruno si trovò a sorridere e strinse un po’ più a sé Jeff,
perdendosi nell’odore della sua pelle.
«Io
aggiungerò il magnificò profumo che hai», sussurrò, socchiudendo gli occhi.
«Mh… penso che aggiungerò anche te», continuò il mondo, alzando la testa stavolta per poter
guardare Nick negli occhi.
«Questa
dovrò copiarla, temo», fece l’altro, accarezzandogli il viso.
Una
parte di lui aveva stupidamente pensato che ora che si erano dichiarati, ora
che si erano messi in gioco completamente, le cose sarebbero state diverse. Che
ci sarebbero stati silenzi imbarazzanti e sguardi carichi di ansia, che sarebbe
stato difficile portare avanti una qualsiasi conversazione o prendersi in giro
come facevano di solito. E per un attimo, aveva creduto di aver ragione, quando
erano rimasti soli in camera, dopo aver salutato Thad ed essersi accertati che
avesse tutto ciò che gli serviva – o quantomeno tutto ciò che loro avrebbero
potuto dargli.
Jeff
si era seduto sul letto e lo aveva guardato come se non sapesse bene che cosa
fare. Anche lui si era seduto sul proprio, sfilandosi la giacca e trattenendo
il fiato per qualche istante.
«Non
dobbiamo per forza essere… così»,
aveva sussurrato il biondo, con un sorrisetto.
«Così…
impacciati?».
«Così
poco noi», si era alzato e in un attimo si era seduto accanto a lui,
prendendogli la mano «Questo non
cambia nulla e di certo non cambia noi due, Nicky».
E
lui aveva semplicemente sorriso, il petto si era gonfiato ed era riuscito di
nuovo a respirare. Perché Jeff aveva il potere di calmare tutte le sue
paranoie, di esserci e aggiustarlo semplicemente con la sua presenza.
Il
resto era trascorso come sempre: avevano visto un film, poi erano andati a
letto, ma avevano preso a parlare di così tante cose che si erano scoperti
svegli ad un orario indecente e alla fine Jeff era sgattaiolato nel suo letto
con una scusa che Nick in quel momento neanche ricordava. E gli stava bene,
perché averlo così vicino non era mai stato tanto bello. Si beavano
semplicemente della presenza l’uno dell’altro, delle carezze che di tanto in
tanto si facevano, dei sorrisi appena visibili nel buio e tanto bastava a farli
stare bene.
Poi
un rumore sfumò l’incantesimo, riportandoli alla realtà. Non lo riconobbero
subito, non finché non divenne più insistente. Qualcuno stava definitivamente
bussando alla porta e il verso di disappunto che uscì dalle labbra di Jeff fece
ridere di gusto Nick, prima di spostarsi con gentilezza, accendere la luce
dell’abatjour e andare a vedere chi fosse.
«Trent, se è per la faccenda degli insetti che si insinuano
nella tua testa, come è successo con Lady Morgana, sappi che-».
Smise
di parlare immediatamente, perché aveva aperto la porta e gli si era presentato
di fronte un Thad sconvolto come non l’aveva visto mai. Boccheggiò per qualche
istante, perché nonostante la poca luce, il pallore dell’amico era fin troppo
evidente, così come riusciva a distinguere il suono forzato del suo respiro.
«Jeff!»,
chiamò allarmato, passandogli un braccio intorno alle spalle e facendolo
entrare – quando anche l’altro vide il ragazzo, Nick non seppe più se aiutare
Thad o correre da lui perché divenne più pallido di quanto non fosse già
Harwood.
Fece
sedere il primo sul proprio letto e disse all’altro di prendergli un bicchiere
d’acqua. Jeff esitò per qualche istante prima di fare ciò che gli era stato
detto e riacquisire quel po’ di calma necessaria a coordinare pensieri e
movimenti.
Le
mani di Thad tremavano mentre reggeva il bicchiere e solo allora il biondo
riuscì ad essere abbastanza lucido da sedersi accanto a lui e tirarlo a sé in
un abbraccio.
«Qualunque
cosa sia, è passata», gli sussurrò, come ad un bambino - e il tremore di Thad, estesosi a tutto il
corpo, per poco non lo fece di nuovo andare in panico.
«Vuoi
parlarne?», continuò Nick, seduto di fronte ai due, senza ben sapere quanto
sarebbe potuto essere di aiuto.
«Avreste
preferito che fossi morto?», parlò finalmente Harwood, con un filo di voce.
«Sei
forse impazzito?!», gridò allora Jeff, spaventandosi sul serio, perché quella
era di certo la domanda più assurda che avrebbe potuto fargli. Anche il bruno
lo stava guardando con occhi sbarrati dalla sorpresa.
«Thad!
Non hai idea di quanto possa farci stare bene il fatto che tu sia qui con noi,
sano e salvo», disse, senza più poter resistere e spostandosi sul loro stesso
letto, dal lato opposto a quello del biondo.
«Lui lo avrebbe sicuramente preferito»,
continuò Thad, come se non li avesse neanche sentiti.
Smythe, ovviamente. Jeff sarebbe voluto
andare in camera di quello stronzo per prenderlo a pugni nel sonno. Nick ne era
certo e quasi istintivamente gli prese il polso, raggiungendolo da dietro la
schiena dell’amico – per ogni evenienza. Sterling gli lanciò uno sguardo
riconoscente, prima di tornare a concentrarsi su Thad.
«Lui non avrebbe preferito un bel nulla,
hai capito?».
«Hai
ragione. Neanche esisto per quel che gli riguarda».
Quelle
parole per Nick furono troppo. Prese l’amico per le spalle, con forza, e lo
fece voltare verso di lui.
«Thad
Harwood, stammi bene a sentire. Quell’idiota di Smythe ha già fatto troppo, per
i nostri gusti, quindi tu ora devi smetterla di dargli importanza. È uno
stronzo, lo abbiamo sempre saputo ed ora si sta definitivamente comportando da
tale. Non ti permetto di parlare così, di autocommiserarti in questo modo. Questo non sei tu, chiaro? E lui di
certo non merita il male che ti stai facendo. Quindi basta. Tutto questo
finisce qua».
Thad
lo guardò negli occhi, senza sapere che cosa dire. Sapeva che Nick aveva
ragione, sapeva che con tutto quello che era successo, Sebastian doveva essere
l’ultimo dei suoi pensieri e che non meritava un briciolo delle attenzioni che
gli stava riservando, considerati i suoi recenti comportamenti, eppure…
semplicemente non ce la faceva. Non riusciva a smettere di pensarci, di
preoccuparsi. E non sapeva spiegarsene il motivo.
«Io…
ho visto qualcosa. Per questo non
riesco ad andare oltre. Ho visto qualcosa», sussurrò e sembrò una confessione
fatta dopo una lunga meditazione.
«È
questo, quindi?», si infervorò Jeff «Ti ha minacciato? Hai scoperto qualcosa
dei suoi loschi piani e lui ti ha intimato di tacere? Di cosa si occupa?
Spaccio, rapine? Forse ha addirittura ucciso qualcuno e ha tenuto il cadavere
nella vostra stanza fino ad ora? Magari ha approfittato della tua assenza per
spostarlo e il cambio di stanza è solo un diversivo-».
Harwood
soffocò a stento uno scoppio di risa che contagiò anche gli altri due; almeno
Sterling poteva dire di essere riuscito a farlo ridere, anche solo per un po’.
«È
solo che… ho visto qualcosa, sul
serio, Jeff. In lui. C’era qualcosa prima se succedesse tutto questo, quando si
è impegnato con le nuove coreografie, quando si è scusato con le New Direction.
Semplicemente, non posso più guardarlo con gli stessi occhi di prima, perché
ora sono certo che ci sia qualcosa al di là del semplice essere stronzo. E voglio continuare a vedere quello che si
nasconde dietro tutta questa reticenza mascherata di sarcasmo e finta
cattiveria… Non posso più farne a meno…».
Ora
Jeff lo stava guardando dritto negli occhi, in silenzio, con un’espressione
seria che il ragazzo era abituato a vedere davvero di rado. Non disse nulla, bastò
fra loro quello sguardo per capire quanto Thad avesse imparato a tenere a
Sebastian, nonostante tutto. Nick, semplicemente, accarezzo la schiena
dell’amico con affetto, per poi stringerlo a sé.
«È
proprio cieco, eh?», gli sussurrò – e non ci fu bisogno di specificare il
soggetto.
*
Kurt
non pensava che ci si potesse stancare di essere semplicemente abbracciati.
Insomma, negli ultimi anni si era abituato ad essere stretto, oltre che da
Blaine, anche dai suoi compagni del Glee, eppure ora avrebbe solo voluto
mandarli tutti via, perché da quando era cominciato l’orario delle visite,
quella mattina, i ragazzi non smettevano di arrivare e lui doveva salutarli
tutti e sorridere ed essere gentile, quando invece avrebbe solo voluto
stringersi sotto le coperte e dormire.
Essere
stretto addirittura da Santana era stato assurdo – e almeno per una volta non
era stato il solo ad esitare in quel gesto. Brittany,
al suo fianco, aveva detto qualcosa riguardo l’immortalità degli unicorni e una
particolare linfa che avrebbe potuto farlo stare bene da subito, ma lui aveva
annuito senza prestare veramente attenzione a quelle parole.
«Ci
hai fatto prendere un bello spavento, Kurt!».
Oh,
perfetto: mancava solo Mr. Shue, sorridente e con i
capelli impeccabili, accompagnato da Ms. Pillsbury. Il ragazzo rivolse loro
l’ennesimo sorriso di circostanza – quello che a quanto pare accontentava tutto
– e si lasciò stringere con entusiasmo. Spostò lo sguardo sulla sola figura davvero
nuova in tutto quel quadro, la sola che gli aveva stretto la mano anziché
abbracciarlo. Cooper Anderson.
Finalmente
conosceva il fantomatico fratello del suo ragazzo e da quel po’ che l’aveva
osservato, non era proprio come lo aveva immaginato: se ne stava in disparte,
senza parlare con nessuno, semplicemente lanciando di tanto in tanto qualche
sguardo al fratello – come a volersi accertare che stesse bene – per poi
tornare ai suoi pensieri. Kurt immaginò che si dovesse sentire un po’ a disagio
tra tutti quegli sconosciuti. Incrociò il suo sguardo, mentre ci pensava –
stavolta stava fissando lui invece di Blaine e la cosa lo incuriosì per
l’intensità di quella occhiata. Sembrava provasse a leggergli la mente, come se
volesse sapere a cosa stava pensando in quel momento.
Lo
infastidì.
«Ti
ho portato una regalo», sentì dire da Emma e si costrinse a concentrarsi di
nuovo sugli ultimi arrivati. «Sono solo cioccolatini, ma magari ti fanno bene»,
continuò imbarazzata, mentre gli porgeva una scatola colorata.
L’istinto
agì prima della mente e Kurt mosse la mano sinistra verso la donna prima di
rendersi conto di quanto sarebbe stato difficile quel gesto. Il braccio si
fermò quasi subito, per l’impeto troppo leggero e tremò mentre lento ed incerto
raggiungeva la scatola. Il ragazzo non poté fare a meno di sentirsi gli occhi
di tutti puntati addosso e la cosa non fece che innervosirlo ancora di più
della situazione in sé: stupido braccio che non era in grado neanche di
muoversi.
Quando
ebbe appoggiato alla men peggio i cioccolatini sul ripiano accanto al letto,
cercò di nascondere il braccio sotto le coperte più svelto che poté, quasi potesse
eliminare il problema ed il disagio semplicemente coprendolo. A muovere la
gamba neanche ci aveva provato più dalla sera precedente, quando il
fisioterapista aveva provato a fargli fare alcuni esercizi: alle volte la
sentiva a malapena, quasi fosse addormentata e quando provava a spostarla, gli
sembrava di sforzarsi a vuoto, come se stesse cercando di alzare dei blocchi di
cemento. I medici gli avevano detto che era solo questione di tempo, che doveva
riabituare il cervello a comandare gli arti e che sarebbe andato tutto a posto
in qualche mese, ma lui non ci credeva. Ora come ora non credeva a nulla e a
nessuno e tutta quella gente, che ora lo fissava quasi fosse un alieno, non faceva
altro che aumentare il suo disagio.
Sentì
Blaine tossire, quasi volesse smorzare la strana tensione che si era
improvvisamente creata nella stanza. Se fosse stato per lui avrebbe
semplicemente mandato tutti via, ma non sapeva come – avrebbe richiesto energie
che in quel momento non aveva. Per questo si limitò a dissimulare il fastidio
cercando di spostare la conversazione su altro.
«Come…
come state facendo con la scuola? E il Glee Club?», chiese.
La
stanza rimase in silenzio ancora per qualche istante, prima che Mr. Shue prendesse parola e rispondesse, eliminando l’esitazione
dalla sua voce via via che aggiungeva parole al discorso.
«Le
lezioni sono sospese per ora: probabilmente la prossima settimana saremo pronti
a riprendere in alcuni stabili affittati finché il McKinley non sarà dichiarato
di nuovo agibile. Per le prove del Glee, una volta ripreso il ritmo scolastico
provvederemo a trovare una sede adatta».
Kurt
vide uno strano brillio negli occhi dell’uomo, quasi non vedesse l’ora di
riprendere la routine fatta di lezioni e prove, quasi ne sentisse un disperato
bisogno. Un po’ lo capiva: era rassicurante avere una routine da seguire,
giorno dopo giorno, senza stanze che esplodevano o gente che finiva in
ospedale. Avrebbe voluto riavere la sua con la stessa facilità.
«Quanto
tornerai anche tu sarà davvero tutto a posto», sussurrò Mercedes, guardandolo
con affetto.
«Se tornerò», si lasciò scappare il
ragazzo e di nuovo gli occhi di tutti furono su di lui – ottimo.
Li
osservò per qualche istante – Puck e Rachel sembravano sul punto di intervenire
per fargli qualche ramanzina, Mercedes e Tina invece avevano gli occhi lucidi e
gli altri lo guardavano semplicemente sconvolti. Blaine gli aveva stretto la
mano – quella destra, quella che poteva sentire bene – ma lui non aveva il
coraggi di spostare lo sguardo su di lui.
«Scusate»,
sospirò «Sono… sono solo stanco. Mi dispiace».
Alcuni
annuirono come se la risposta spiegasse tutto, qualcuno restò a guardarlo
ancora per un po’ e fra questi Kurt individuò di nuovo Cooper Anderson. Ancora
una volta lo fissava come se potesse leggergli dentro, come se sapesse
esattamente che cosa stava succedendo e aspettasse solo il momento adatto per
agire. Non voleva che agisse, non voleva parlarne – soprattutto non con uno
sconosciuto.
«Magari…
sarebbe meglio se ora andassimo e ti lasciassimo riposare un po’», propose Will
e per la prima volta Kurt fu felice di sentir qualcuno di loro parlare.
«Ci
vediamo più tardi, ok?», lo salutò Finn, con sguardo non del tutto sereno, e
così fecero tutti quelli dopo di lui, chi con sorrisi, chi con nuovi abbracci –
stavolta fu facile resistere, perché diminuivano anziché aumentare.
In
breve nella stanza rimasero solo i suoi genitori, Blaine e Cooper. Il maggiore
degli Anderson si avvicinò a fratello e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, poi
si scusò con i presenti ed uscì dalla stanza. Kurt non aveva alcuna voglia di
rispondere alle domande che, era certo, gli avrebbero posto, per questo si
voltò di lato, ignorando la presenza del suo ragazzo e chiudendo gli occhi.
Se ne andranno tra poco, se ne andranno tra
pochissimo… si disse, trattenendo il fiato.
Sentì
il bacio leggero di Blaine sul suoi capelli e pochi istanti dopo il rumore di
una porta che si apriva e subito richiudeva. Solo allora si concesse di
respirare di nuovo.
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Ebbene sì, chi non muore si rivede! Vi avevo detto che non avrei lasciato questa storia incompleta. Certo, ci ho messo mesi e mesi per scrivere il capitolo, ma alla fine eccolo! Insomma, tra esami e blocco dello scrittore davvero non vedevo come andare avanti… e poi, semplicemente, sono riuscita a scrivere #miracolo.
Ci tengo ancora a ringraziare Robs e Vals che mi hanno incoraggiata a continuare e non perdere le speranze. È soprattutto merito loro se questo capitolo è online!
Umh… per il resto, spero che la storia non vi deluda e che ci sia ancora qualcuno disposto a leggerla! Non dovrebbe mancare molto alla fine – 3/4 capitoli, credo…
A preso!
Alch ♥