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Autore: U N Owen    14/04/2013    1 recensioni
Dieci ragazzi si riuniscono a Dreadpeak Lodge, una lussuosa baita di montagna, ma non tutto andrà come previsto.
A cena, una voce rievocherà l'oscuro passato che li accomuna, per poi recitare un'inquietante filastrocca:
"Dieci piccoli indiani andarono a mangiar,
uno fece indigestione, solo nove ne restar
[...]
Solo, il povero indiano, in un bosco se ne andò,
ad un pino s’ impiccò e nessuno ne restò"

Ispirata a "Dieci Piccoli Indiani" di Agatha Christie, questa storia è scritta a quattro mani da U N Owen e Belfagor, il cui profilo è qui consultabile: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=51754
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 8

«Non ci pensate neanche» disse Eveline.
«Andiamo» la esortò Isabel «Siamo stati tutti perquisiti».
«Io non mi spoglio davanti a tutti»
«E se io e Robert uscissimo?» propose James, ormai seccato da quella faccenda.
Chiaramente infastidita, Eveline si sedette sul letto. Poi, finalmente, si arrese. «D'accordo, voi due uscite. E se scopro che qualcuno spia dal buco della serratura, ci sarà un omicidio che Onym non aveva previsto».
La sua stanza, al pari della sua persona, fu perquisita, ma non fu trovata nessuna siringa.
«Io ve l'avevo detto» commentò la ragazza in tono piccato, uscendo dalla stanza dopo essersi rivestita.
«C'è ancora una cosa da fare» ricordò Robert «Dovremmo prendere tutti i coltelli, le medicine e le sostanze tossiche che troviamo in casa e nasconderle».
Gli altri annuirono.
«James, se non ricordo male in soffitta c'è una cassaforte con delle armi, giusto?»
«Sì».
«Allora ci chiuderemo tutti gli oggetti pericolosi che troviamo».
«E la chiave?» domandò Alexis.
«Ho pensato anche a questo» rispose il ragazzo, come se fosse una cosa ovvia «Uno di noi terrà la chiave della cassaforte, e uno quella della soffitta. In questo modo, nessuno potrà accedere alle armi da solo».
«Io prendo quella della cassaforte» disse immediatamente James «Quando questa storia sarà finita, non vorrei dover chiamare un fabbro solo perché qualcuno di voi l'ha persa».
Non ci furono obiezioni.
«Se non avete nulla in contrario» disse Isabel «Io terrei quella della soffitta».
Anche in questo caso, nessuno si oppose. La raccolta degli oggetti fu lunga e snervante, nessuno si fidava a lasciare nelle mani degli altri coltelli da bistecca e confezioni di topicida. Alla fine, gli oggetti furono portati in soffitta e chiusi nella cassaforte. Quando finalmente Isabel ebbe chiuso la porta ed ebbe intascato la chiave, i cinque tirarono un sospiro di sollievo.
«Adesso» commentò James «Non ci resta che aspettare».

Nella sala si sentiva solo il rumore del vento che si era alzato e il ticchettio dell'orologio. La luce fredda del primo pomeriggio non rendeva la situazione meno inquietante. I cinque superstiti sedevano ciascuno alla debita distanza dagli altri, osservandosi a vicenda e cercando di nascondere la paura e il sospetto reciproco. Un tentativo inutile, dato che la loro situazione era fin troppo evidente a ciascuno di loro.
James, che in cuor suo avrebbe preferito agire, si agitava sulla sedia come se stesse per alzarsi da un momento all'altro, ricordando un animale tenuto in gabbia per troppo tempo. Isabel, seduta sul divano vicino alla porta, sembrava assorta nei propri pensieri, ma di tanto in tanto alzava lo sguardo come se avesse sentito un rumore sospetto. Dall'altra parte del divano, Eveline stava quasi rannicchiata, con le mani che tremavano. Seduto al tavolo, Robert cercava di leggere un libro senza troppo successo, visto che i suoi occhi saettavano spesso da una parte all'altra della stanza. In poltrona, Alexis cercava di darsi un contegno e di mantenere il controllo sulla situazione, ma si tradiva ogni volta che iniziava a tormentarsi una ciocca di capelli con le dita.
Avevano saltato il pranzo, dato che nessuno di loro voleva rischiare un avvelenamento. Tuttavia, poco dopo le 15, James sospirò e disse: «Non so voi, ma io mangerei qualcosa».
Celando la nausea, Eveline rispose: «Io passo».
«Io ho fame» disse Isabel in tono piatto e fece per alzarsi, ma Robert la precedette.
«Con calma» le ricordò il ragazzo «Credo sia meglio per tutti se vi seguiamo. Non vorremmo essere avvelenati per cena».
Isabel si limitò a scrollare le spalle. Una volta giunti in cucina, lei e James presero dei cracker da una confezione ancora chiusa nella dispensa e li mangiarono sotto lo sguardo attento degli altri. Masticarono meccanicamente, quasi controvoglia.
Una volta che furono tornati in salotto, Robert domandò: «Non temete che possa essere il vostro ultimo pasto?».
«Che vuoi dire?» chiese James, passando le mani sul maglione per togliere le briciole.
«La filastrocca. Cinque piccoli indiani un giudizio han da sbrigar, un lo ferma il tribunale, quattro soli ne restar. Il tribunale. Il prossimo potrebbe morire in un modo che ricorda un'esecuzione, e ad un condannato non si nega mai un ultimo pasto».
«Io escluderei l'iniezione letale» disse Eveline «Quella è già toccata a Dover».
«Ma ci sono così tanti modi per eseguire una sentenza» replicò Robert, che sembrava quasi divertito dalle varie possibilità «Fucilazione, decapitazione, sedia elettrica... è una questione di elasticità mentale. Ecco perché Dover non ce l'ha fatta».
«Ma che stai dicendo?» domandò Alexis, chiaramente infastidita da quell'individuo a cui piaceva fin troppo il suono della propria voce.
«Il nostro povero irlandese era intelligente, ma così poco brillante. Un criminale del calibro di Onym poteva coglierlo di sorpresa in qualsiasi momento, e così è stato. È molto semplice, in realtà. Ci sono parecchie menti che, per quanto si sforzino, sono destinate ad essere sommerse, e pochi individui nati per sopravvivere e raggiungere la cima. Non si può fare granché per cambiare la situazione».
Disgustata, Eveline replicò: «Mi sembra che l'Ottocento sia finito da un pezzo».
«Ma che strano, Eveline» fece presente Robert «Il tuo accento francese sembra scomparso da un po'. Forse dovresti andare a cercarlo».
«E voi dovreste ascoltare quello che dice questo imbecille!» L'esclamazione della ragazza colse gli altri tre di sorpresa. «Non fa altro che parlare di Onym, e non ne è spaventato! Anzi, lo ammira! E quando mai Robert ha ammirato qualcuno che non fosse sé stesso?»
Seguì un silenzio carico di imbarazzo, a cui Isabel pose fine dicendo: «Io questa volta non le do uno schiaffo, non l'ho mai sentita parlare in modo tanto sensato».
James soffocò una risata. Robert si limitò a dire: «In ogni caso, non ci sono prove per accusare uno di noi».
Come era successo dopo ogni momento di sorpresa o di discussione, cadde nuovamente il silenzio, ancor più pesante di prima. Dalle espressioni di ciascuno si poteva leggere che avrebbero preferito affrontare Onym in quel momento, anche a rischio delle loro vite, pur di non restare ulteriormente in quella stasi logorante. Tuttavia, nessuno si azzardava a prendere l'iniziativa.

Deboli. La parola risuonava nella mente di James dal momento in cui avevano trasportato il cadavere di Dover nella sua stanza. "Forse Robert ha ragione" pensò il ragazzo, riflettendo su chi era già caduto vittima di Onym. Ciascuno a modo suo, erano tutti deboli. Carl era un povero stupido, non sarebbe stato una vera minaccia neppure se fosse sopravvissuto più a lungo. Erin e Kurt non erano certo degli sprovveduti, ma quante volte li aveva visti esitare e tradire la paura nei loro sguardi! In fondo, era un bene che fossero morti, non avrebbero retto ancora a lungo...
Ma Desmond? Lui non aveva mai mostrato segni di cedimento. Un errore, forse? Una falla nel piano? No. Dietro quell'apparenza sfrontata, Desmond era un vigliacco. Messo sotto pressione, avrebbe parlato. E anche Dover: austerità e sensi di colpa, sicuramente instillati da quella cattolica di sua madre. Si era sempre chiesto se avesse mai parlato con qualcuno di quello che era successo a Wes, ma ormai era troppo tardi per avere una risposta. Un altro di loro assolto troppo tardi... Notando l'occhiata interrogativa che Eveline gli stava rivolgendo, James si rese conto di avere un mezzo ghigno divertito sul volto e pensò che fosse meglio pensare ad altro per evitare di attirare l'attenzione.
Si alzò, facendo sobbalzare gli altri, e accese la luce del salotto. Fuori, il sole stava calando.

Guardando le ultime luci del tramonto, Alexis sospirò stancamente. «Non possiamo restare fermi qui tutto il tempo» disse alzandosi «Rischiamo di perdere quel poco di senno che ci è rimasto. Credo che andrò in camera a darmi una rinfrescata».
Gli altri quattro si limitarono ad annuire.
La ragazza uscì dalla stanza e, dopo aver acceso le luci del corridoio, s'incamminò verso il piano di sopra. Mentre saliva le scale, esitando ad ogni cigolio della ringhiera, si sorprese di quanto velocemente stesse scendendo la notte. Questo la fece sentire ancora più in pericolo. Cercò di controllare il respiro, che nel frattempo era diventato affannoso.
Wesley... improvvisamente, il pensiero del ragazzo riaffiorò nella sua memoria. Perché proprio in quel momento? Non poteva distrarsi, con un assassino pronto ad agire ad ogni minimo segnale di debolezza. L'oscurità la metteva a disagio. Alla luce della luna, il volto di Wesley era pallido e dai riflessi verdastri.
Rabbrividì a quel ricordo. Raggiunse l'interruttore in cima alle scale e accese la luce, ma si rese conto di essere agitata quanto prima. Non riusciva a guardare dall'altra parte dello spigolo del muro. La luce artificiale e il silenzio la facevano sentire osservata, come se qualcuno l'avesse posta sotto la lente di un microscopio.
Questa sensazione la spinse a reagire. Alexis aveva avuto paura molte volte, ma aveva sempre trovato la forza di reagire. Anche se in pericolo, non si sarebbe lasciata cogliere alla sprovvista. Si fece forza e si voltò per imboccare il corridoio.

Un grido squarciò il silenzio del rifugio. I quattro ragazzi si alzarono e corsero verso il piano di sopra in tutta fretta. Erano a metà della scala quando le luci si spensero.
«Merda!» esclamò Robert «Dev'essere stata Alexis».
«Questo lo vedremo» commentò James «Forse è lei la prossima vittima».
Erano giunti in cima alle scale. «Da che parte proveniva l'urlo?» chiese Isabel.
«Non lo so» disse James «Dividiamoci».
«Oh no, non se ne parla!» rispose Robert «Non ho intenzione di perdervi d'occhio».
«Già, così ci puoi colpire quando più ti fa comodo».
«Ma sentitelo! Chi è che conosce questa casa meglio di tutti noi?».
«Ragazzi!» li zittì Isabel. Dopodiché annotò mentalmente: "Eveline è scomparsa".

Eveline stava perdendo il controllo. Convinta che al piano di sopra la attendesse una trappola, aveva lasciato il gruppo e si era diretta in cucina. Sapeva che, finché fosse rimasta sola, nessuno avrebbe potuto farle del male. Per buona misura, aveva anche recuperato il coltello che era riuscita a nascondere sotto un cuscino del divano.
Procedendo a tentoni, aprì la credenza e cercò un pacchetto di candele che aveva notato mentre James e Isabel stavano mangiando. Se solo fosse riuscita a trovare i fiammiferi...
La sue dita incontrarono una scatoletta con un lato ruvido. Sebbene le tremassero le mani, riuscì ad accendere la candela e ad inserirla in un bicchiere per evitare che la cera le colasse sulla mano. Anche se di poco, si sentiva più sicura. Non era più nel buio totale.
Improvvisamente, un rumore attirò la sua attenzione. Muovendosi nervosamente come un animale braccato da un cacciatore, la ragazza illuminò i vari angoli della stanza per cercare l'origine di quel rumore.
Qualcuno stava scendendo le scale. E si stava dirigendo verso la cucina.
In preda al panico, Eveline cercò di muoversi il più silenziosamente possibile verso la porta. Dove diavolo era finita la chiave? Aveva pensato di chiudersi nella stanza in attesa della luce, ma qualcuno aveva fatto sparire la chiave. Ciò nonostante, riuscì a non farsi soggiogare dalla paura. Non sarebbe rimasta ad aspettare l'assassino, non si sarebbe fatta mettere con le spalle al muro.
Avvicinò l'orecchio alla porta. Erano passi veloci e non accennavano a rallentare.
Eveline trattenne il respiro, il coltello pronto a colpire.
Ma chiunque fosse dall'altra parte non aprì la porta e si lasciò la cucina alle spalle. Eveline lasciò andare un sospiro di sollievo, poi decise che quello era il momento giusto per cogliere di sorpresa l'assassino. Si tolse le scarpe per non fare rumore e, dopo aver aperto lentamente la porta, uscì dalla cucina.

James non aveva fatto in tempo ad addentrarsi nel corridoio che Isabel e Robert erano spariti. Il ragazzo procedeva a tentoni, con il cuore in gola, illuminato solo dalla luce lunare, cercando la camera di Alexis. Aveva le pupille dilatate e respirava il più piano possibile. Anche se gli bruciava ammetterlo, aveva paura.
Finalmente, la mano urtò contro lo stipite. La porta era aperta.
«Alexis?».
Nessuna risposta. Che fosse una trappola? James stava per tornare sui suoi passi, quando scorse qualcosa. Debolmente illuminata dalla luce esterna, una persona era distesa sul pavimento.
«Alexis!». James si chinò sulla ragazza e cercò di percepirne il battito. Ma non ce ne fu bisogno: non appena le ebbe toccato il collo, la ragazza aprì gli occhi e gli rivolse uno sguardo di terrore.
«Stai lontano da me» disse, rialzandosi e allontanandosi il più possibile da James.
«Calmati».
«Sei stato tu, non è vero? Hai preparato una trappola in modo da restare solo con la tua prossima vittima!»
Prima che James potesse dire qualcosa, si sentì una voce dal corridoio.
«James! Alexis!». Era Robert.
«Sono qui!» gridò Alexis «Aiuto!».
«Ero sceso in cucina per cercare una candela» disse Robert, rischiarando debolmente l'ingresso della stanza con una candela appena accesa «Eveline non è da nessuna parte e Isabel mi ha seminato per le scale... cos'è quello?».
La luce della candela aveva appena illuminato un oggetto che pendeva da un gancio avvitato al soffitto. Era un lenzuolo bianco, sporco di una sostanza che aveva tutta l'aria di essere sangue.
«Ho aperto la porta della camera e me lo sono trovato davanti» spiegò Alexis «Ricordo di aver urlato e poi ho perso i sensi».
«Onym voleva che ci disperdessimo» concluse Robert.
«Allora dobbiamo ritrovare Isabel e Eveline» disse James «Ma, come prima cosa, dobbiamo riaccendere le luci. Il quadro elettrico è al piano di sotto».

Lentamente e in silenzio i tre scesero le scale, con la Luna come unica fonte di luce. Raggiunto il fondo delle scale, James li guidò verso il quadro elettrico, che si trovava in un corridoio accanto al salotto.
James, con mano tremante, alzò il pannello di plastica, ma si bloccò.
«Cosa stai aspettando, idiota?!» lo esortò Alexis, sussurrando.
Ma lui esitò ancora. Poi disse «Però è strano. Non mi pare manomesso. E' solo... spento. C'è la levetta principale abbassata.»
«Vorrei ricordarti che lo spegnimento è programmabile.» aggiunse stizzito Robert «Potrebbe averlo fatto chiunque.»
«Infatti. Tutti ci siamo allontanati almeno una volta. Ora, ti vuoi dare una mossa, o aspettiamo che spunti il sole?»
Infine, con lentezza esasperante, alzò la levetta.
Le luci si riaccesero. Contemporaneamente si udì un curioso rumore provenire dalle parti della cucina. Forte, crepitante. Delle scariche elettriche. I tre ragazzi corsero immediatamente in quella direzione e si introdussero in cucina. Uno strano odore dolciastro aleggiava nell'aria.
Due particolari attirarono la loro attenzione. Le tre statuine rimaste sul tavolo e la porta della dispensa aperta.
Subito dopo Alexis gridò d'immenso orrore. Di nuovo.
Un'orribile visione si era loro presentata: Eveline giaceva sul pavimento in una pozza d'acqua, immobile, a pochi centimetri di distanza dall'ennesima statuina di porcellana infranta. Dei cavi erano stati estratti da una presa della corrente e adagiati nella pozza, proprio accanto a Eveline, la guaina rimossa. Delle scosse crepitavano ogni tanto. Era morta fulminata.
Robert, con voce flebile e sguardo assente, si limitò a mormorare: «Un lo ferma il tribunale... la sedia elettrica...»


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Nota: Capitolo scritto da Belfagor.
  
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