Matt
Intanto
qualche chilometro più a ovest,oltre
l’oceano, nello stesso istante in cui il piccolo Mihael,
appena giunto nel
mondo, tendeva spasmodicamente le manine alla ricerca di qualcosa (
qualunque
cosa) di caldo e famigliare, Matty gattonava incerto sul tappeto ispido
e
polveroso. Aveva appena cinque mesi e già si aggirava per
casa gorgheggiando
acutamente, pieno di curiosità. Era iniziato tutto un
giorno, aveva spalancato
gli occhi di un verde intenso e si era deciso a esplorare la
vastità della
stanzetta; da quel momento non aveva più smesso di muoversi,
piangere e
sgusciare via subito dopo. Sgambettava a destra e a sinistra per poi
crollare
addormentato in qualche punto imprecisato della casa. Poi quando si
allontanava
troppo veniva immediatamente riacciuffato di malo garbo da una brutta
signora
con mani ruvide e rugose , la quale aveva lo stesso odore che
c’è dentro ai
bauli vecchi, ammuffiti e pieni di polvere che non vengono mai aperti.
La donna
in questione era sua zia, ma Matt questo non poteva saperlo. Tuttavia
non solo
non la sopportava perché rappresentava un enorme ostacolo
per le sue
esplorazioni ma soprattutto poiché quelle mani erano le
stesse che ogni mattina
lo strappavano dal letto dove stava sua madre, per portarlo in
un’altra stanza,
così lontana da quel bel sorriso.
Lui e
la sua mamma ridevano spesso insieme. Nei
pochi momenti in cui gli era permesso di stare con lei (
chissà perché poi? )
si guardavano occhi negli occhi, verde nel verde e poi, appena uno dei
due
accennava un sorriso, l’altro iniziava a sghignazzare e
così si scatenavano una
serie di risate spensierate che risollevavano il cuore di entrambi.
Però spesso
capitava che sua madre dormisse, anche durante il giorno e Matt non
riusciva a
sorridere da solo. Quindi,
poiché aveva
capito che se mandava gridolini per destare la sua mamma arrivava la
vecchia
zia urlando un
“stai zitto!” minaccioso
a portarlo via , beh, aveva imparato ad accoccolarsi buono buono vicino
a lei
e, cullato dal suo respiro pacato, anche lui si addormentava, provato
dalla
giornata intensa appena trascorsa. Così le ore si
susseguivano pacifiche e
nonostante fuori di
casa Jeevas
infuriasse l’inverno, Matt non conosceva il freddo, malgrado
gli spifferi
gelidi che facevano capolino nelle giornate ventose. Anzi era un bimbo
vivace e
pareva volesse inglobare ogni cosa con quegli occhi di un verde chiaro
e
trasparente. Osservava con notevole stupore la neve che vedeva volare
al di là
dei vetri appannati e sorrideva sempre più spesso. Invece
non era contento
quando sconosciuti vestiti di bianco andavano e venivano dalla
stanzetta di sua
madre, le
espressioni tristi e gravi che
avevano sul volto gli mettevano paura. Lui desiderava solo che tutti se
ne
andassero e li lasciassero in pace, così avrebbe potuto
finalmente stare di
nuovo con la sua mamma, rivedere i suoi occhi comprensivi e il suo
limpido
sorriso. E magari, più tardi, lei lo avrebbe portato fuori a
vedere la neve.
Mello
L
a vita era stata piuttosto chiara con
Mihael e lui era stato altrettanto svelto a capirne le regole. Gli
veniva
proposta una legge spietata, una verità crudele, ma doveva
adeguarsi sin da subito
se voleva sopravvivere, e Mihael lo voleva davvero; perciò
era ancora capace di
aggrapparsi alla vita con una sorprendente tenacia, perché
la sua esistenza,
sbocciata così, all’improvviso, e solo per lui,
era l’unica certezza che gli
restava, e lui non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Ecco perché aveva
tentato di spegnere fin da
subito la fiamma ribelle che sentiva ardere nel petto, ecco
perché aveva
soffocato la voce che gli urlava disperatamente che c’era
qualcosa di
profondamente sbagliato in tutta quella paradossale situazione. Ma una
delle
sue più grandi capacità stava proprio nello
stringere i denti, andare avanti
senza guardare indietro, lasciandosi alle spalle tutto, si era spinto
persino a
rinnegare se stesso. Si sarebbe abituato anche a quello, avrebbe
giocato con
astuzia, imbrogliato ove avrebbe potuto, e,infine, vinto la partita
giocata
contro il suo stesso, lento e logorante vivere. Un vuoto enorme, uno spazio
sconfinato. La sua
stanza era immensa, quasi da non vederne la fine, popolata da
bambolotti,
draghi, soldatini sorridenti replicati fino alla nausea, un’
infinità di occhi
neri e lucidi, fatti di bottoni e biglie di vetro. Erano ancora tutti
nuovi,
Mihael non ne aveva mai sfiorato uno, di quei giochi. Ne era
sinceramente disgustato,
poiché rappresentavano una prova fin troppo tangibile di
quanto fosse
terribilmente solo. Aveva cessato quasi subito di mandare urla
isteriche per
attirare l’attenzione delle domestiche che puntualmente gli
facevano visita,
sfondando il suo fragile mondo di cristallo, poiché aveva
compreso che tanto
esse potevano poco e facevano nulla. Non si dimenava più
quando lo cambiavano
con gesti meccanici e distaccati, nonostante qualcosa, una piccola e
selvatica
scintilla, protestasse in fondo al suo animo costretto. Mangiava
poco. Aveva smesso persino di piangere. Ci aveva provato davvero
all’inizio,
con tutte le sue forze, ma nessuno aveva indovinato il motivo di quelle
lacrime. E lui? Lui lo sapeva perché piangeva?
C’era una valida ragione che
giustificasse quel semplice, eppure così doloroso gesto? Ma,
in fondo, era un
bambino e i bambini sono soliti frignare, almeno qualche volta. Mihael
comunque
aveva cessato da molto di versare lacrime vergognose ed inutili, o
almeno lo
avrebbe fatto fino a che non avesse compreso davvero il significato di
un
pianto. Così semplicemente se ne stava lì,
rannicchiato in un angolo a caso della
sua vasta culla,
aspettando sulla pelle
lo scorrere del giorno e, poi, della notte. Gli occhi azzurri dalla forma sottile,
sempre aperti, fissi e
attenti. Mihael osservava il mondo nel quale era capitato e lo faceva
con una
consapevolezza sconcertante. Se solo qualcuno, per un istante, si fosse
fermato
a contemplare attentamente il suo sguardo, avrebbe visto gli occhi di
un adulto
intrappolati nel corpo di un bimbo biondo e pallido. E vi avrebbe letto
dentro,
senza troppa difficoltà, una tristezza indicibile.