Matt
Poco
dopo la prematura morte di sua
madre l’esistenza di Mail aveva inaspettatamente cambiato
rotta, abbandonato lo
spiraglio di luce si dirigeva ora verso un baratro nero.
I
fatti più o meno si erano svolti in questo modo.
La vecchia zia di Mail probabilmente non ci aveva pensato poi
così a
lungo, e non si era fatta neppure troppi scrupoli, a dire il vero.
Semplicemente, rimasta sola con il neonato, aveva fatto un rapido
resoconto
della sua vita e si era ricordata ancora una volta di come il bel viso
colmo di
buffe lentiggini di sua sorella minore la avesse sempre messa in ombra,
del
modo in cui lei riuscisse sorprendentemente a risultare ogni volta
più vivace e
divertente, di come tutti la preferivano, mamma e papà
compresi. Lei,
casualmente nata per prima e costretta a compiacere quella bambina,
bella e
luminosa che pareva uno spruzzo di sole. E, arrivata a queste
conclusioni,
aveva deciso che no, non avrebbe mantenuto la promessa fatta al
capezzale della
sua sorellina perché ormai era vecchia per badare ad un
marmocchio dispettoso.
I soldi? Assolutamente troppo pochi per entrambi. Ma, più
semplicemente, quello
non era affatto un problema suo.
Così Matt si era ritrovato letteralmente catapultato fuori
in pieno
inverno, strappato dal tepore casalingo così impregnato del
profumo materno.
Mal vestito e strapazzato dal vento, tra le braccia secche e spigolose
di sua
zia, aveva potuto constatare da sé cosa fossero quei petali
bianchi che precipitavano
dall’alto provandoli direttamente sulla pelle diafana, e
mentre la gelida neve
dell’Irlanda del nord gli frustava e gli faceva pizzicare il
viso delicato,
aveva percepito con chiarezza il fiato caldo della sorte sul collo, che
soffiava
un respiro opprimente di cambiamento.
La meta di quella mattina di Gennaio era un edificio grigio e austero
che quasi scompariva tra il vento e la neve, nel tranquillo quartiere
di
Bogside.
Ovviamente era solo
l’inizio, poiché quello non rappresentava altro che il primo
orfanotrofio di molti altri,
ma per il momento lì Mail avrebbe vissuto. Tuttavia quella
mattina il bambino
non sapeva dove fosse ne tanto meno cosa stesse succedendo, e comunque
non gli
interessava, sentiva solo freddo e fame, ma soprattutto aveva sonno.
Così non
si accorse delle diverse braccia nelle quali fu passato nei minuti
seguenti e
finalmente, quando venne riposto in un lettino duro e per niente
famigliare,
poté chiudere gli occhi.
Per
quella notte sognò una ragazza che, felice, gli sorrideva.
Mello
Ed
ecco che un’altra primavera giungeva al
termine.
Tutto era rimasto immutato; la villa imponente, la stanza, i giocattoli
salvi dallo scorrere dei giorni. Soliti domestici, facce già
viste o visi nuovi
che andavano sovrapponendosi, come noiose foto, simili tra loro ed
ugualmente
insignificanti.
Le stagioni si
erano susseguite in un cerchio vorticoso, e Mihael era cresciuto. Non
aveva
potuto farci nulla in fondo, il tempo crudele lo aveva reclamato
conducendolo
avanti lungo la strada della vita, che lui volesse o no.
Ora si trovava più
alto, più grande, più consapevole. E a cinque
anni non era altro che un bambino
triste.
Aveva
realizzato fin da subito di essere diverso e ciò lo
costringeva ad esitare, ma,
contemporaneamente, gli conferiva una strana sensazione di potere.
Infatti
vedeva ogni cosa con un’intelligenza disarmante, capiva gli
adulti senza
difficoltà, il loro mondo, comprendeva sentimenti come odio,
gelosia, rancore.
A volte, li provava.
Sapeva cosa erano i soldi e perché
regolassero la società. Ovviamente tutto questo con una
coscienza infantile, ma
Mihael sprofondava nello sconforto poiché gli era negato
pesino il vizio di
vivere nell’ignoranza del bimbo, non potendo convincersi che
tutto andava bene,
non riuscendo a costruire un mondo immaginario dove rifugiarsi.
Però, con una punta di pallido ottimismo,
aveva tentato di cogliere il meglio da questa sua acutezza di pensiero,
e
poiché lui era figlio del famoso signor Keehl, voleva
dimostrare di essere
all’altezza di quel nome e magari, chissà, per una
volta qualcuno sarebbe stato
orgoglioso di lui. Così, dopo molte titubanze, si era
convinto ed aveva
profanato con passo agile lo studio raffinatamente arredato, che si
trovava due
stanze oltre la camera dei suoi (
spesso fantasticava di rifugiarsi nel loro letto, se soltanto ci
avessero dormito, qualche volta), aveva curiosato negli archivi dove
erano custodite le
azioni finanziare della società paterna, sbirciato un
po’ di grafici
memorizzandoli, capiva ed era pronto a spiegarlo con voce limpida e
sicura. Ma
perché faceva tutto questo? Chi meritava la prova tangibile
delle sue abilità? In
verità il bambino desiderava avere in cambio un pugno di
attenzioni, o anche
solo uno sguardo di reale interesse nei suoi confronti e non soltanto
la oramai
nota occhiata di vuota indifferenza.
Tuttavia, non appena i suoi erano rientrati
dal grande portone nell’ingresso principale ( infatti il
viaggio a Berlino si
era concluso proprio quella mattina), Mihael aveva leggermente
vacillato e la
realtà gli si era parata davanti, spappolando con
malignità le dolci fantasie.
Sua madre vedendolo era solita sorridere appena, distratta; e ancora
una volta
gli aveva schioccato il solito bacio da copione sulla fronte ( fremito
di
felicità repressa) recitando l’usuale frasetta
“Quanto cresci, tesoro caro, di
più ogni giorno”. Poi, dopo essere saltellata via
graziosamente, era arrivato
il turno di suo padre che gli aveva battuto la spalla con una pacca
leggera, la
quale voleva sembrare paterna, ma non era altro che una brutta copia
della
classica scena di un film americano. E così, prima che
andasse anche lui
sparendo dietro a qualcuna di quelle porte che parevano infinite, il
bambino lo
aveva pregato per due minuti, due miseri minuti di attenzione, ma la
solfa era
la stessa, totalmente priva di originalità : “ Non
ora, Mihael, scusa, sono un
po’ stanco. Magari un’altra volta, che ne
dici?” E quel “ magari un’altra
volta”
non era mai arrivato.
Così
Mihael aveva vissuto ancora per un po’ nello sconforto, a cui
ormai era
abituato.
Sbiaditi i suoi scopi, si crogiolava nell’indecisione,
poiché sentiva
di essere fortemente combattuto dall’idea di un futuro
migliore, insinuatasi
illusoria nel piccolo squarcio della sua debolezza. Poteva davvero
cercarla lì
quella felicità tanto segretamente ambita? Era
così sbagliato desiderare senza
posa, notte e giorno, una carezza sincera?
“Cosa vuoi Mihael? Non vedi che sono un po’ occup…”
“Vuoi giocare a baseball con me?” Indugiò un poco sulla prossima parola “…papà?” E quasi gli era scappato di dare del “lei” al suo stesso padre, come ad un adulto sconosciuto con il quale bisogna essere cortesi, come si addice chiamare un superiore o un datore di lavoro.
( Ma non era forse proprio quello?)
Subito dopo pensò a che idea stupida fosse stata quella di proporgli quel gioco infantile e già si stava rimproverando mentalmente. ( eppure suo padre, a volte, lo seguiva, il baseball.)
Intanto il signor Keehl aveva sospirato tra il rassegnato e lo scocciato, sollevando finalmente lo sguardo dai fogli sparsi. Poi si era alzato lentamente, come se gli costasse un’immensa fatica, e adesso gli si avvicinava, le labbra incurvate in un sorriso splendido e indecifrabile che era solo capace di rendere il bambino ancora più impacciato. Aveva posato una mano sulla fragile spalla di Mihael (il quale aveva sussultato, tanto era poco avvezzo al contatto fisico) chinandosi appena, ed ora si trovava alla sua altezza, i visi paralleli, le fronti ben allineate. Lo fissava dritto negli occhi, piuttosto divertito e, dopo poco, il bambino si trovò costretto ad abbassare lo sguardo. Era sicuro che avrebbe risposto di no alla sua domanda infantile. E invece disse “ Certo Mihael, certo. Ci farebbe bene respirare un po’ d’aria, a tutti e due. Quindi, perché no? Devo solo sbrigare una piccola commissione ma fra mezz’ora sono da te,promesso; prepara la mazza.” Gli aveva ammiccato e non aveva smesso di sorridere, poi era uscito, con passo terribilmente elegante.
E così Mihael aveva notato con euforia che la calda mano di suo padre quella volta lo aveva stretto un po’ più forte, ed ora si sentiva svuotato, come quando passa la febbre alta e ci si accorge all’improvviso di essere guariti. Risucchiato da un vortice enorme, percepiva di essere finalmente sazio di pura felicità e il cuore, ne era certo, gli sarebbe esploso nel petto da un momento all’altro.
E mentre la vita gli sorrideva e la macchina nera dai vetri oscurati portava suo padre lontano, ( ma per questa volta non così lontano ) , Mihael non perdeva tempo e uscendo fuori percepiva il sole scaldargli la pelle in una tiepida carezza, poi si domandava come mai non fosse andato più spesso a correre nel parco, quando passava le ore a scrutarlo diffidente attraverso un vetro. Così preparava nei minimi dettagli l’angolo dell’immenso giardino in fiore dove avrebbero giocato, signor papà e figlio, e si affannava frettoloso spostando foglie secche, reduci dall’ultimo autunno. Sistemava una mazza e un guantone l’una di fronte all’altro, la pallina la collocava al centro perfetto dopo averla ispezionata a lungo con manine tremanti. Osservava soddisfatto il suo lavoro, ed ancora di più ne era compiaciuto poiché era riuscito a finire l’opera prima che suo padre tornasse, e no, non sarebbe stato affatto decoroso se lui lo avesse colto impreparato, rischiava di stufarsi.
Ora aspettava, il piccolo Mihael, seduto a gambe incrociate nel prato, sopra di lui un cielo blu infinito.
E quella mattina d’estate avrebbe atteso ancora e ancora, tanto da essere in grado di osservare il sole compiere lento la traversata di tutta la volta celeste, fino a quando non si sarebbe fuso con le montagne sprigionando una luce dorata. Mihael, quel giorno, che forse era il primo d’estate, teneva lo sguardo fisso sulla strada sperando fino all’ultimo di scorgere una macchina. Memorizzò poi il profilo tagliente delle montagne e la forma mutevole delle nuvole; si accorse dell’esistenza di un mondo di cui ora lui vedeva solo un misero spicchio. Poi, quando provò a piangere senza riuscirci in alcun modo, comprese quanto tutto fosse terribilmente bello e terribilmente spietato.
A sera tardi una domestica lo venne a chiamare, lo apostrofò “signorino” e gli disse di rientrare perché veniva freddo, ma in realtà le faceva solo molta pena. Eppure nel momento in cui lo vide le si raggelò il sangue nelle vene. Lo sguardo del bimbo infelice si era trasformato, modellato da tante ore di aspettativa, speranza tradita, e una buona dose di umiliazione. E se prima gli occhi di Mihael erano stati limpidi e velati di tristezza, ora parevano più cupi, seppure sempre di un azzurro cristallino. Avevano preso un taglio ancora più sottile, fine e delicato, ma erano occhi spietati, di chi ormai non ha più nulla da perdere, di chi ha smesso di crederci con tutte le forze.
Quando suo padre tornò due giorni dopo era di buon umore, così decise di fare un salto nella camera del figlio, credendo di dovergli almeno le solite, vecchie giustificazioni. Spalancò la porta con ben poca grazia, e fu lieto di trovarci dietro il bambino, seduto sul pavimento freddo, poiché non aveva voglia di cercarlo altrove. Così ,sempre più soddisfatto , gli disse con tono allegro che si scusava, ma non ce l’aveva proprio fatta; che, si, di certo potevano rimandare ad un’altra volta. Era una promessa.
…Eppure quando gli occhi di Mihael si piantarono nei suoi come due spilli il sorriso gli morì sulle labbra e, per un istante, ne ebbe paura. Uscì silenzioso dalla stanza, e si sentì stranamente sollevato quando si richiuse la porta alle spalle. Non pensò più a quello sguardo, se non ancora una volta, tre mesi più tardi, ma per il momento non ci diede troppo peso. Si diresse solo verso il suo studio: aveva una montagna di lavoro da fare.