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Autore: mxm_november rain    14/04/2013    2 recensioni
Questa è la storia di due ragazzi che non hanno mai conosciuto l’amore. Che sono stati schiacciati dalla crudeltà del mondo e ridotti a misere ombre,scure ed erranti, perse in una notte vuota.
E di come, solo trovandosi, siano tornati a sorridere e a brillare, simili a stelle del cielo. E a scoprire l’amore.
Questa , è la vera storia di come si impara ad amare.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri personaggi, Matt, Mello | Coppie: Matt/Mello
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Matt

Poco dopo la prematura morte di sua madre l’esistenza di Mail aveva inaspettatamente cambiato rotta, abbandonato lo spiraglio di luce si dirigeva ora verso un baratro nero.                                                                                                               
I fatti più o meno si erano svolti in questo modo.                                                                     
La vecchia zia di Mail probabilmente non ci aveva pensato poi così a lungo, e non si era fatta neppure troppi scrupoli, a dire il vero. Semplicemente, rimasta sola con il neonato, aveva fatto un rapido resoconto della sua vita e si era ricordata ancora una volta di come il bel viso colmo di buffe lentiggini di sua sorella minore la avesse sempre messa in ombra, del modo in cui lei riuscisse sorprendentemente a risultare ogni volta più vivace e divertente, di come tutti la preferivano, mamma e papà compresi. Lei, casualmente nata per prima e costretta a compiacere quella bambina, bella e luminosa che pareva uno spruzzo di sole. E, arrivata a queste conclusioni, aveva deciso che no, non avrebbe mantenuto la promessa fatta al capezzale della sua sorellina perché ormai era vecchia per badare ad un marmocchio dispettoso. I soldi? Assolutamente troppo pochi per entrambi. Ma, più semplicemente, quello non era affatto un problema suo.                                                                                            
Così Matt si era ritrovato letteralmente catapultato fuori in pieno inverno, strappato dal tepore casalingo così impregnato del profumo materno. Mal vestito e strapazzato dal vento, tra le braccia secche e spigolose di sua zia, aveva potuto constatare da sé cosa fossero quei petali bianchi che precipitavano dall’alto provandoli direttamente sulla pelle diafana, e mentre la gelida neve dell’Irlanda del nord gli frustava e gli faceva pizzicare il viso delicato, aveva percepito con chiarezza il fiato caldo della sorte sul collo, che soffiava un respiro opprimente di cambiamento.                                                                                                                                         
La meta di quella mattina di Gennaio era un edificio grigio e austero che quasi scompariva tra il vento e la neve, nel tranquillo quartiere di Bogside.         
Ovviamente era solo l’inizio, poiché quello non rappresentava  altro che il primo orfanotrofio di molti altri, ma per il momento lì Mail avrebbe vissuto. Tuttavia quella mattina il bambino non sapeva dove fosse ne tanto meno cosa stesse succedendo, e comunque non gli interessava, sentiva solo freddo e fame, ma soprattutto aveva sonno. Così non si accorse delle diverse braccia nelle quali fu passato nei minuti seguenti e finalmente, quando venne riposto in un lettino duro e per niente famigliare, poté chiudere gli occhi.                                                                                        
Per quella notte sognò una ragazza che, felice, gli sorrideva.

Mello

Ed ecco che un’altra primavera giungeva al termine.                                                
Tutto era rimasto immutato; la villa imponente, la stanza, i giocattoli salvi dallo scorrere dei giorni. Soliti domestici, facce già viste o visi nuovi che andavano sovrapponendosi, come noiose foto, simili tra loro ed ugualmente insignificanti.                                                                                                      
Le stagioni si erano susseguite in un cerchio vorticoso, e Mihael era cresciuto. Non aveva potuto farci nulla in fondo, il tempo crudele lo aveva reclamato conducendolo avanti lungo la strada della vita, che lui volesse o no. 
Ora si trovava più alto, più grande, più consapevole. E a cinque anni non era altro che un bambino triste.       
 
Aveva realizzato fin da subito di essere diverso e ciò lo costringeva ad esitare, ma, contemporaneamente, gli conferiva una strana sensazione di potere. Infatti vedeva ogni cosa con un’intelligenza disarmante, capiva gli adulti senza difficoltà, il loro mondo, comprendeva sentimenti come odio, gelosia, rancore. A volte, li provava.
Sapeva cosa erano i soldi e perché regolassero la società. Ovviamente tutto questo con una coscienza infantile, ma Mihael sprofondava nello sconforto poiché gli era negato pesino il vizio di vivere nell’ignoranza del bimbo, non potendo convincersi che tutto andava bene, non riuscendo a costruire un mondo immaginario dove rifugiarsi. 
Però, con una punta di pallido ottimismo, aveva tentato di cogliere il meglio da questa sua acutezza di pensiero, e poiché lui era figlio del famoso signor Keehl, voleva dimostrare di essere all’altezza di quel nome e magari, chissà, per una volta qualcuno sarebbe stato orgoglioso di lui. Così, dopo molte titubanze, si era convinto ed aveva profanato con passo agile lo studio raffinatamente arredato, che si trovava due stanze oltre la camera dei suoi ( spesso fantasticava di rifugiarsi nel loro letto, se soltanto ci avessero dormito, qualche volta), aveva curiosato negli archivi dove erano custodite le azioni finanziare della società paterna, sbirciato un po’ di grafici memorizzandoli, capiva ed era pronto a spiegarlo con voce limpida e sicura. Ma perché faceva tutto questo? Chi meritava la prova tangibile delle sue abilità? In verità il bambino desiderava avere in cambio un pugno di attenzioni, o anche solo uno sguardo di reale interesse nei suoi confronti e non soltanto la oramai nota occhiata di vuota indifferenza.   
Tuttavia, non appena i suoi erano rientrati dal grande portone nell’ingresso principale ( infatti il viaggio a Berlino si era concluso proprio quella mattina), Mihael aveva leggermente vacillato e la realtà gli si era parata davanti, spappolando con malignità le dolci fantasie. Sua madre vedendolo era solita sorridere appena, distratta; e ancora una volta gli aveva schioccato il solito bacio da copione sulla fronte ( fremito di felicità repressa) recitando l’usuale frasetta “Quanto cresci, tesoro caro, di più ogni giorno”. Poi, dopo essere saltellata via graziosamente, era arrivato il turno di suo padre che gli aveva battuto la spalla con una pacca leggera, la quale voleva sembrare paterna, ma non era altro che una brutta copia della classica scena di un film americano. E così, prima che andasse anche lui sparendo dietro a qualcuna di quelle porte che parevano infinite, il bambino lo aveva pregato per due minuti, due miseri minuti di attenzione, ma la solfa era la stessa, totalmente priva di originalità : “ Non ora, Mihael, scusa, sono un po’ stanco. Magari un’altra volta, che ne dici?” E quel “ magari un’altra volta” non era mai arrivato.          
Così Mihael aveva vissuto ancora per un po’ nello sconforto, a cui ormai era abituato. 
Sbiaditi i suoi scopi, si crogiolava nell’indecisione, poiché sentiva di essere fortemente combattuto dall’idea di un futuro migliore, insinuatasi illusoria nel piccolo squarcio della sua debolezza. Poteva davvero cercarla lì quella felicità tanto segretamente ambita? Era così sbagliato desiderare senza posa, notte e giorno, una carezza sincera?                                                                                                     

Eppure il nuovo giorno, appena ai suoi albori, pareva, in qualche modo, diverso. Quella di oggi si presentava come una fresca e soleggiata mattinata, l’estate giungeva spensierata portandosi appresso venti lievi che avevano il profumo dolce e inebriante della speranza. Mihael ne era stato travolto perché, sorprendendo il sole fare capolino tra le valli, aveva aperto la grande finestra respirando a fondo. Quando l’aria frizzante gli era penetrata nei polmoni bruciando aveva potuto giurare di aver sentito distintamente il proprio cuore farsi un poco più leggero. E non ci aveva riflettuto quasi niente; semplicemente, dopo essersi vestito, si era precipitato verso lo studio di suo padre, i capelli biondo grano svolazzavano allegri. Ed ora bussava alla sua porta, quasi con disperazione. Eccolo lì, il signor Keehl, chino sulla scrivania di legno scuro meticolosamente ordinata, intento a compilare chissà cosa. I capelli dipinti d’oro limpido, più chiari di quelli del figlio, gli coprivano gli occhi, i quali invece erano uguali in tutto e per tutto a quelli di Mihael. Occhi di un taglio sottile e perfetto, che catturavano inesorabilmente.                                                          
“Cosa vuoi Mihael? Non vedi che sono un po’ occup…”                                          
“Vuoi giocare a baseball con me?” Indugiò un poco sulla prossima parola “…papà?”  E quasi gli era scappato di dare del “lei” al suo stesso padre, come ad un adulto sconosciuto con il quale bisogna essere cortesi, come si addice chiamare un superiore o un datore di lavoro.                                                   
( Ma non era forse proprio quello?)                                                                       
Subito dopo pensò a che idea stupida fosse stata quella di proporgli quel gioco infantile e già si stava rimproverando mentalmente. ( eppure suo padre, a volte, lo seguiva, il baseball.)                                        
Intanto il signor Keehl aveva sospirato tra il rassegnato e lo scocciato, sollevando finalmente lo sguardo dai fogli sparsi. Poi si era alzato lentamente, come se gli costasse un’immensa fatica, e adesso gli si avvicinava, le labbra incurvate in un sorriso splendido e indecifrabile che era solo capace di rendere il bambino ancora più impacciato. Aveva posato una mano sulla fragile spalla di Mihael (il quale aveva sussultato, tanto era poco avvezzo al contatto fisico) chinandosi appena, ed ora si trovava alla sua altezza, i visi paralleli, le fronti ben allineate. Lo fissava dritto negli occhi, piuttosto divertito e, dopo poco, il bambino si trovò costretto ad abbassare lo sguardo.  Era sicuro che avrebbe risposto di no alla sua domanda infantile. E invece disse “ Certo Mihael, certo. Ci farebbe bene respirare un po’ d’aria, a tutti e due. Quindi, perché no? Devo solo sbrigare una piccola commissione ma fra mezz’ora sono da te,promesso; prepara la mazza.” Gli aveva ammiccato e non aveva smesso di sorridere, poi era uscito, con passo terribilmente elegante.
E così Mihael aveva notato con euforia che la calda mano di suo padre quella volta lo aveva stretto un po’ più forte, ed ora si sentiva svuotato, come quando passa la febbre alta e ci si accorge all’improvviso di essere guariti. Risucchiato da un vortice enorme, percepiva di essere finalmente sazio di pura felicità e il cuore, ne era certo, gli sarebbe esploso nel petto da un momento all’altro.                                                             
E mentre la vita gli sorrideva e la macchina nera dai vetri oscurati portava suo padre lontano, ( ma per questa volta non
così lontano ) , Mihael non perdeva tempo e uscendo fuori percepiva il sole scaldargli la pelle in una tiepida carezza, poi si domandava come mai non fosse andato più spesso a correre nel parco, quando passava le ore a scrutarlo diffidente attraverso un vetro. Così preparava nei minimi dettagli l’angolo dell’immenso giardino in fiore dove avrebbero giocato, signor papà e figlio, e si affannava frettoloso spostando foglie secche, reduci dall’ultimo autunno. Sistemava una mazza e un guantone l’una di fronte all’altro, la pallina la collocava al centro perfetto dopo averla ispezionata a lungo con manine tremanti. Osservava soddisfatto il suo lavoro, ed ancora di più ne era compiaciuto poiché era riuscito a finire l’opera prima che suo padre tornasse, e no, non sarebbe stato affatto decoroso se lui lo avesse colto impreparato, rischiava di stufarsi.                                              
Ora aspettava, il piccolo Mihael, seduto a gambe incrociate nel prato, sopra di lui un cielo blu infinito.                                                                                            
E quella mattina d’estate avrebbe atteso ancora e ancora, tanto da essere in grado di osservare il sole compiere lento la traversata di tutta la volta celeste, fino a quando non si sarebbe fuso con le montagne sprigionando una luce dorata.  Mihael, quel giorno, che forse era il primo d’estate, teneva lo sguardo fisso sulla strada sperando fino all’ultimo di scorgere una macchina. Memorizzò poi il profilo tagliente delle montagne e la forma mutevole delle nuvole; si accorse dell’esistenza di un mondo di cui ora lui vedeva solo un misero spicchio. Poi, quando provò a piangere senza riuscirci in alcun modo, comprese quanto tutto fosse terribilmente bello e terribilmente spietato.                 
A sera tardi una domestica lo venne a chiamare, lo apostrofò “signorino” e gli disse di rientrare perché veniva freddo, ma in realtà le faceva solo molta pena. Eppure nel momento in cui  lo vide le si raggelò il sangue nelle vene. Lo sguardo del bimbo infelice si era trasformato, modellato da tante ore di aspettativa, speranza tradita, e una buona dose di umiliazione. E se prima gli occhi di Mihael erano stati limpidi e velati di tristezza, ora parevano più cupi, seppure sempre di un azzurro cristallino. Avevano preso un taglio ancora più sottile, fine e delicato, ma erano occhi spietati, di chi ormai non ha più nulla da perdere, di chi ha smesso di crederci con tutte le forze.
Quando suo padre tornò due giorni dopo era di buon umore, così decise di fare un salto nella camera del figlio, credendo di dovergli almeno le solite, vecchie giustificazioni. Spalancò la porta con ben poca grazia, e fu lieto di trovarci dietro il bambino, seduto sul pavimento freddo, poiché non aveva voglia di cercarlo altrove. Così ,sempre più soddisfatto , gli disse con tono allegro che si scusava, ma non ce l’aveva proprio fatta; che, si, di certo potevano rimandare ad un’altra volta. Era una promessa.                                                
…Eppure quando gli occhi di Mihael si piantarono nei suoi come due spilli il sorriso gli morì sulle labbra e, per un istante, ne ebbe paura. Uscì silenzioso dalla stanza, e si sentì stranamente sollevato quando si richiuse la porta alle spalle. Non pensò più a quello sguardo, se non ancora una volta, tre mesi più tardi, ma per il momento non ci diede troppo peso. Si diresse solo verso il suo studio: aveva una montagna di lavoro da fare.                                                                                                    
  
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