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Autore: Impossible Prince    14/04/2013    0 recensioni
Un viaggio nel deserto per comprendere se stessi e cosa rimane di noi.
Ispirata a Ride di Lana Del Rey e vincitrice del Premio Nota all'Inspired Contest di Pokémon Millennium.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sfrecciavo per un deserto americano con la mia macchina sportiva rossa, con il vento caldo che si infrangeva sul mio viso e che entrava fra i capelli scompigliandoli e facendomi anche un po’ di solletico.
Tirai fuori dalla tasca dei miei jeans un registratore, premetti sul cerchio rosso e lo misi sul cruscotto.
Nei periodi di confusione ho sempre amato immergermi nella natura, è l’unica cosa che ti ascolta e riesce a tirar fuori la tua vera anima, il tuo vero essere.
Sarò sincero anche questa volta, ho sempre cercato una casa, per me era un’ossessione, volevo trovare un posto, una persona, un qualcuno che fosse capace di accettarmi per come ero.
E ho cercato e provato tanto e quando le persone a me care lo hanno scoperto hanno provato disgusto, imbarazzo per me.
Ma non possono capire loro, non sanno cosa vuole dire vagabondare per una manciata di  sentimenti, non sanno cosa vuole dire elemosinare un sorriso o un apprezzamento. Non sanno cosa vuol dire cercare sicurezza in complimenti vuoti o magari in spalle dove puoi appoggiare la testa ma che sono presenti per motivi per cui il romanticismo o l’amicizia non c’entrano assolutamente nulla.”
Mi accesi una sigaretta e buttai un’occhiata sul livello della benzina, rimanere a piedi era l’ultimo dei miei desideri in quell’istante. Era poco sotto il livello massimo, mi rituffai nella registrazione: “Sono sempre stato un ragazzo particolare, ribelle, me lo han sempre detto. Un mix mal-amalgamato di rabbia, creatività ed indecisione. Questa poi una caratteristica che la fa da padrone dentro di me, che condiziona costantemente la mia vita e mi spinge ad esser un robot al servizio del mio cervello e mai del mio cuore.
Non sono mai riuscito ad affrontare le sfide che mi si proponevano, le ho sempre sviate cercando mille scuse e cercando sempre un modo per giustificarmi, ma se riuscivo ad ingannare gli altri non sono mai riuscito ad ingannare e metter nel sacco me stesso e ogni volta che lo facevo una parte di me è morta e ora mi sento più uno zombie innocuo che un essere umano.”

La macchina rallentò di colpo, la levetta della benzina si abbassò ad una velocità incredibile e l’automobile si fermò.
Scesi chiudendo lo sportello dietro di me, maledicendo quella porcheria italiana a quattro ruote.
Mi sedetti a terra con la testa appoggiata allo sportello, rotolandomi la lingua fra le labbra furioso e rabbioso come non mai; afferrai un po’ di terra rossa e la guardai scivolarmi fra le mani.
Era fresca e dura, una piacevole sensazione che veniva ampliata dalla fantastica visione del paesaggio. Solo terra, cielo azzurro e qualche cactus qui e lì e le montagne, ancora più rosse all’orizzonte. Mi sentivo nulla, un essere misero davanti all’infinito e alla bellezza che si apriva davanti a me.
Chiusi per qualche minuto gli occhi, per rilassare i nervi e calmarmi, ma li riaprii  appena mi accorsi che il sole era completamente sparito e una certa umidità si stava facendo sentire sulla mia pelle.

Ero in una foresta, davanti ad uno stagno da cui uscivano due occhi gialli che mi fissavano in quello specchio d’acqua di color nero.
Indietreggiai lentamente, cercando di non farmi notare ulteriormente, di non far rumore e quando fui sufficientemente lontano, mi alzai e cominciai a correre, cambiando più volte strada non pensando che così facendo mi sarei perso ulteriormente in quel posto.
Non vedevo più il cielo, solo rami e foglie e anche l’incredibile silenzio che l’ambiente desertico dava era diventato tristemente un ricordo.
Cicale, ronzii di mosche e zanzare e addirittura mi parve di sentire il verso di un serpente, oltre che ovviamente al rumore di qualche fiume che attraversava questo posto incontaminato.
La vegetazione era molto, molto fitta e dava quella colorazione tendente al verde scuro che davvero ti faceva capire che ogni passo fuori luogo poteva farti notare da qualche animale selvaggio e quindi risultare fatale.
Poi un colpo e il terreno tremò, un altro e poi altri due, in rapida successione. Le foglie cominciarono a muoversi e infine si aprono, mostrandomi la fonte di quel rumore: un albero. Coi rami aveva scostato le foglie degli altri arbusti e mi fissava.
Poi altri tre colpi  e un altro albero arrivò affianco al primo, entrambi all’unisono mi dissero: “Allora, accetti?”.
Terrorizzato cominciai a muovermi e a correre nella direzione opposta alla loro e cercando di non inciampare nei vari sassolini e nei tronchi caduti a terra riuscii quasi a superarli e lo capii dai loro passi. Se prima erano vicini e quindi il rumore che facevano era chiaro, piano piano diventò sempre meno definito, fino a scomparire del tutto.
Mi ritrovai in uno spiazzo, ma non feci in tempo a riprendere fiato che fui immediatamente distratto da un sibilare insistente di quello che pareva essere un serpente.
Prestai maggiore attenzione per capire dove andare e dove scappare, di nuovo.
Una pianta si spaccò esattamente al centro e da lì apparve il maestoso quanto tremendo rettile con gli occhi color gialli ambra e la sua lingua rossa che faceva entrare e uscire velocemente.
Si avvicinò pericolosamente, legandosi attorno al collo; pensavo che volesse strozzarmi e invece non stringeva, voleva solo guardarmi da vicino.
Chiuse gli occhi un attimo come se stesse facendo qualcosa di faticoso e poi aprì la bocca tirando fuori dalla lingua una chiave bianca con una “V” incisa sopra.
Una parte di me diceva di prenderla, l’altra era in dubbio se farlo o meno. Non ci pensai però due volte, la presi in mano e tutto scomparve.

Ero uscito dalla foresta e mi accorsi che era calata la notte e mi domandai per quanto tempo ero rimasto all’interno di quel labirinto di rami.
Ero in piedi al centro di una stradina di qualche cittadina di periferia.
Cominciai ad incamminarmi con fare stanco e demoralizzato.
Mi guardai un po’ attorno, per cercare qualcuno a cui chiedere informazioni o, molto meno ipocriticamente, per cercare qualcuno che mi facesse compagnia.
Ma non c’era nessuno, ero solo. Ancora.
Arrivai ad un incrocio poco più avanti, sulla sinistra, c’era un piccolo edificio a due piani con un’insegna luminosa rosa e bianca che indicava “Motel Paradise”, sulla destra, invece,  proprio davanti al motel, c’era un piccolo bar da cui si sentiva ridere.
Mi incamminai verso il locale spinto da una malinconia che già mi faceva presagire che non avrei trovato qualcosa che mi avrebbe consolato.
Progredì quindi in quella direzione, rimanendo sempre però al centro della strada; se un camion in quell’istante mi avesse steso non mi sarebbe dispiaciuto minimamente.
Una volta di fronte, entrai nel bar e notai che le risate che sentivo provenivano dall’unico gruppo di ragazzi presenti nel posto che componevano anche gli unici clienti del locale.
Mi sedetti nell’altro lato della stanza e quasi mi incantai nel fissarli finché non venne la cameriera del locale a disturbarmi.
Capelli biondi, occhi azzurri, labbro leporino e la pelle chiarissima, vestita con una camicetta a quadri rossa che si interrompeva poco sotto il seno e sufficientemente aperta per far intravedere il reggiseno azzurro e un paio di jeans molto, molto corti che arrivavano appena a metà coscia.
Presi un bicchiere di rum e poi mi immersi nel suo sapore e nel suo odore così forte e capace di portarmi in un altro posto, un’altra dimensione.
Quando tornavo invece sul pianeta Terra pensavo a come attaccare bottone con quei ragazzi e magari perché no, mi avrebbero fatto entrare nel loro gruppo.
Mi alzai deciso, lasciando il conto sul tavolo ma in un batter d’occhio il locale era completamente vuoto, anche la cameriera era scomparsa.
Uscii dal bar e mi appoggiai ad uno dei muri e cominciai a fumarmi una sigaretta.
Nel frattempo che io inspiravo ed espiravo i fumi di quel congegno dell’orrore cominciai a sentii una strana sensazione alle caviglie, così, guardandole, notai come si erano tramutate in roccia e che questa metamorfosi stava avvenendo velocemente perché quando misi a fuoco cosa stava accadendo anche le mie ginocchia erano diventate pietra.
Proprio in quel momento sentii provenire dalla strada un rumore di una moto e poi quella di una macchina. Alzai lo sguardo e notai che alla guida dei mezzi c’erano quei ragazzi che sfrecciavano divertendosi.
Io invece no.
Io invece ero lì e mi stavo trasformando in pietra, una metamorfosi quasi inevitabile.
Quasi.
Da uno dei piani del motel si aprì una porta e in controluce vedevo una figura alta che alzò la mano e mi salutò.
Era lui.
Sfidai la pietra e tentai di muovere in avanti quello che una volta doveva essere il mio piede sinistro.
Strinsi gli occhi, trattenni il respiro e ci misi tutta la forza che avevo in corpo e finalmente, al primo tentativo, sentii la roccia frantumarsi e ritrovare finalmente i miei arti inferiori integri.
Con passo svelto entrai nel cortile e salii le scale alla mia sinistra fino ad arrivare al piano dove stava la camera, la figura, una volta superato l’ultimo scalino, entrò nella stanza lasciandola aperta.

Entrai, sorrisi e chiusi la porta alle mie spalle, chiudendola a chiave.
Non immaginavo di trovarti qua, è un tale piacere vederti” dissi gettandomi sul letto, con il cuore che pompava sangue con la stessa potenza che hanno le locomotive di un treno a vapore.
Emanava il suo profumo di menta ma non si muoveva. Era fermo, di spalle.
Il mio sorriso scomparve e un brutto presentimento si fece vivo in me.
No, non mi lasciare ora – dissi saltando giù sul letto, con la voce rotta – non te ne andare!
Lo scossi, lo scossi con tutto me stesso, ma non faceva una piega.
Lo girai e notai che non aveva viso. L’intera testa era coperta dai capelli e non come una copia malfatta e molto più perversa del cugino Itt della famiglia Adams.
Non lasciarmi così” Furono le mie ultime parole prima che tutto si sbriciolò in ghiaccio che mi fece cadere e sprofondare in quello che doveva essere il pavimento della stanza.
I frammenti mi tagliavano la pelle, mi sfregiavano il volto e sentivo il sangue uscire, percorrere e bagnare le mie carni.
Mi ritrovai in una foresta, questa volta con colori tendenti all’azzurro e molto meno selvaggia, riuscivo a vedere il cielo e non si sentivano versi di animali selvatici.
Mi trascinai fino ad un albero e mi tirai su utilizzando il tronco, ma quando fui completamente in piedi notai che le mie mani bruciavano leggermente, pizzicavano.
Le guardai ed erano completamente ustionate, ma il dolore non cessava, cresceva, cresceva sempre di più.
Caddi in ginocchio dal dolore e strillavo con tutto me stesso e immediatamente anche le ginocchia cominciarono a provocarmi del dolore.
La foresta cambiò colorazione, dall’azzurrino diventò di color rosso acceso; caddi in avanti, la mia testa toccò terra e il dolore aumentò, poi il nero.

Mi risvegliai all’improvviso.
Le mani erano ferme sul volante, e la macchina era parcheggiata vicino ad un cactus. Era pieno giorno, evidentemente un colpo di sonno doveva avermi stroncato.
Il registratore sul cruscotto aveva continuato a registrare lo fermai, riavvolsi il nastro e lo misi nel punto esatto in cui mi ero fermato a parlare.
Misi in moto la macchina di nuovo e proseguì per la strada.
E’ curioso sai come i sogni sono solo la più grande porta della verità. Dico davvero. Ti hanno mai dato il passaporto per la vita, quella vera, per poi ritirartelo di colpo? A me sì. E l’ho capito poco fa. Ti trovi stordito, ferito e illuso. Illuso che quel sussulto di vita potesse essere tuo per l’eternità e ti senti stupido per come ti sei fatto abbagliare da delle sterili luci, come se tutto potesse esser tuo con un semplice schiocco di dita.
Ogni notte della mia vita ho pregato che potessi incontrare qualcuno adatto a me, capace di farmi sentire parte del mondo, normale. Ma non esiste. Quando pensi che trovi persone di questo tipo ti affidi a loro completamente.
Cosa ci guadagni? Un orgasmo nel buio, un semplice contatto fisico. Cosa perdi? Te stesso.
Io ho cercato di resistere nella guerra che è la vita. Ho cercato di combattere e di far combattere gli altri, ma obiettivamente ho capito che non ne vale la pena.
Non è una guerra di logoramento questa, non ci sono trincee, il nemico non gioca a sfinirti. Il nemico non gioca, non esiste. L’indifferente non può essere un nemico.
Che tu combatta o che tu stia con il culo per aria a loro non frega assolutamente nulla e quindi depongo le armi, alzo la bandiera bianca, mi arrendo, come se questo potesse far la differenza.
Ero a qualche centinaio di metri da quella che era diventata la mia nuova meta, ingranai la marcia con modo deciso e proseguii il mio monologo: “Ti accorgi di esser solo e di esser impotente, e tutto ciò che volevi trasmettere sparisce, scompare assieme alla tua rabbia, alla tua creatività e anche alla tua maledetta indecisione. Rimani vuoto, davvero vuoto.
Io… io ho cercato di non mettermi nei guai, ma nella mia testa c’è una fottuta guerra fra ciò che si fa e ciò che sarebbe conveniente non fare e qualsiasi scelta io abbia preso un velo di ipocrisia è inevitabilmente calato su di me trasformandomi in quello zombie di cui vi dicevo prima.
Mi accorgo che tutto questo non funziona più: se solitamente per far placare la mia indecisione io mi esprimevo e liberavo la creatività come gli uccellini volano nel cielo primaverile, arrivato a questo punto la strada da percorrere è una e una sola…” lanciai il registratore sulla strada e girai il volante con l’acceleratore spinto al massimo superando l’altra corsia ed entrando dritto in un burrone che era finalmente arrivato.
“…Morire.
   
 
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