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Autore: LaniePaciock    15/04/2013    5 recensioni
Non vi siete mai chiesti come sia nata la grande famiglia Castle, come ogni personaggio abbia trovato il suo attore perfetto? Non vi siete mai chiesti come tutto è iniziato?
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'How it all began'
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Cap.7 Roy Montgomery


Il mattino dopo aver scelto la piccola Molly Quinn per i panni di Alexis Castle, Marlowe chiamò tutto il cast per informarci che avremmo avuto quattro giorni di libertà. A quanto pareva c’erano stati dei problemi con dei set montati male e voleva risolvere la faccenda prima di cominciare con le audizioni per il capitano Roy Montgomery.
Approfittai di quei giorni di quiete per organizzare qualche uscita con vecchi e nuovi amici, Jon e Tamala per primi. Avrei invitato volentieri anche gli altri, ma Susan aveva le ultime repliche di uno spettacolo a teatro mentre Molly doveva andare a scuola e studiare. La persona con cui avrei voluto di più passare il tempo invece era partita. Stana infatti aveva sfruttato quei giorni per tornare a casa dalla sua famiglia.
Ci ero rimasto un po’ male quando me lo aveva comunicato, giusto un’ora dopo la chiamata di Marlowe, ma in fondo potevo capirla. Una volta che avremmo iniziato a girare, saremmo stati troppo occupati per concederci anche brevi periodi di vacanza.
Nel nostro ultimo giorno libero Susan ci invitò tutti a casa sua per cena. Appuntamento era per le sette e mezza, quindi iniziai a prepararmi alle sei. Stavolta riuscii a scegliere a colpo d’occhio gli abiti: jeans blu scuro e camicia azzurro chiaro. Andai quindi in bagno e mi feci la barba, diventata decisamente troppo lunga. Lo ammetto, in quei giorni l’avevo trascurata parecchio. Secondo Tamala mi dava un tocco più affascinante, e su questo non potevo darle torto, ma io mi trovavo meglio sbarbato. Con gioia notai che finalmente il livido violaceo sulla mia faccia, a furia di crema, era diventato niente più che una macchietta sullo zigomo e non mi dava neanche più fastidio. Finita l’operazione rasoio, mi infilai sotto la doccia.
Alle sette mi guardai allo specchio soddisfatto, aprendomi un paio di bottoni al collo della camicia e sistemandomi i capelli. Ero pronto a far sfoggio di tutto il mio fascino. Presi la giacca di pelle nera e recuperai una bottiglia di vino rosso insieme a portafoglio e chiavi.
In macchina azionai il navigatore satellitare con l’indirizzo di Susan. Con un piccolo bip il telefono mi avvertì che sarei arrivato a destinazione nel giro di venti minuti. Ingranai la marcia e partì. Tra un’occhiata al navigatore e una alla strada, mi chiesi se ci sarebbe stata anche Stana. Quando lo avevo chiesto a Susan, mi aveva detto che se la mia partner fosse riuscita a tornare in tempo dal Canada sarebbe venuta. Feci un mezzo sospiro. Conoscevo più o meno i voli Los Angeles-Toronto. Se Stana avesse voluto passare un po’ più di tempo con i suoi, non sarebbe arrivata che in serata e quindi non sarebbe mai riuscita a venire. Ma se avesse voluto passare la serata con noi, allora… Scossi la testa e mi concentrai sulla strada.
Come comunicatomi in precedenza dal navigatore, venti minuti dopo trovai l’indirizzo esatto. Rallentai e vidi che la casa di Susan era una villetta bianca a un piano con il tetto spiovente. Un giardino ben curato, con alcuni cespugli di fiori sul davanti, sembrava girare tutto attorno all’abitazione.
Mi misi alla ricerca di un posto per parcheggiare. Sul ciglio della strada, proprio sul davanti e nei pressi della casa, notai alcune auto che mi parvero familiari. D’un tratto tra queste ne riconobbi per certo una. Sorrisi come un idiota senza riuscire a trattenermi. Stana era tornata prima dal Canada per la cena.
Poco dopo fermai la macchina e mi diedi un’ultima controllata ai capelli dallo specchietto retrovisore. Soddisfatto, presi la bottiglia di vino sul sedile passeggero e mi diressi alla villetta. Superai il cancello aperto e raggiunsi la piccola veranda seguendo la stradina sterrata creata apposta per non calpestare l’erba.
Avvicinandomi, notai che la finestra che dava sul davanti, esattamente accanto alla porta, era illuminata. Poiché iniziava già a fare buio, potei sbirciare l’interno della casa. Sembrava dare su un salottino in cui intravedevo delle ombre girare. Mi imposi si smettere di ficcanasare e suonai il campanello della porta. In fondo nel giro di qualche secondo sarei entrato pure io, no? Curioso com’ero però, non potei fare a meno di allungare di nuovo il collo verso la finestra. L’attimo successivo la porta si aprì di scatto e mi rizzai subito, imbarazzato per essere stato colto in flagrante. Poi registrai chi avevo davanti, il suo viso, il suo vestito, e mi cadde la mascella. Davanti a me c’era Stana, un sorriso enorme in volto e un abito chiaro a maniche corte che le fasciava il corpo enfatizzando le sue curve. Era stupenda.
“Ehi, ciao Nathan!” La sua voce allegra mi risvegliò. Scossi la testa e tentai di riprendere a respirare normalmente. Il problema fu che non ci riuscii. Stana infatti l’attimo dopo si avvicinò di un passo a me e mi stampò un bacio sulla guancia sana. Molto vicino all’angolo della bocca. Forse non l’aveva fatto apposta, visto che questa sera sembrava aver abbandonato i soliti tacchi alti per delle scarpe basse. Semplicemente non ci arrivava più in alto. Ma un’occhiata ai suoi occhi mi fece ricredere di quel pensiero. Cos’era quello sbirluccichio sospetto? Malizia? Voglia di provocarmi? Era possibile? E quel rossore leggero appena apparso sulle sue guance invece? Come avrei dovuto interpretarlo? Che davvero non l’aveva fatto apposta?
La vidi attendere tranquillamente, ma con un piccolo sorrisetto, una mia risposta. Se non fossi stato troppo impegnato a tentare di regolarizzare i battiti del mio cuore, sarei svenuto. Dio, non poteva fare così come se nulla fosse! Mi avrebbe ucciso!
“Ciao, Stana…” riuscii alla fine a replicare a mezza voce con la bocca ancora semiaperta dallo stupore.
“Ragazzi, se volete un po’ di privacy vi conviene andare in auto!” disse all’improvviso a voce alta Jon. Vidi la sua testa spuntare dietro le spalle di Stana all’interno della casa. Una serie di risate seguì la battuta.
“Anche perché tra poco arriverà anche Molly e non mi sembra il caso di sconvolgere quella povera ragazza già da ora!” gli diede man forte Tamala ridacchiando. Sbuffando tornai in me. Non avevo idea di quanti episodi avremmo fatto insieme, ma mi preoccupava il fatto che fossimo già a questo punto con quei due simpaticoni, senza nemmeno aver iniziato le riprese.
Susan passò in quel momento da quella che immaginai essere la cucina al salone.
“Nathan, ben arrivato!” mi salutò allegra. “Entra pure!” aggiunse facendomi un cenno con la mano. Stana si spostò dalla porta per permettermi di passare. Io feci un paio di passi in avanti e salutai i presenti riuniti nel salone appena a sinistra della porta. C’erano già Jon e Tamala ovviamente, poi Marlowe, Terri, Bowman e una donna e un uomo che non riconobbi. Prima di avvicinarmi a loro, porsi la bottiglia di vino che avevo ancora in mano a Susan. Mi ringraziò felice notando l’etichetta. Doveva essere un’intenditrice di vini.
Sentii Stana chiudere la porta dietro di me. Notai che gli altri erano tutti distratti e io ne approfittai. Prima che la mia partner potesse allontanarsi, le passai un braccio intorno alla vita e la tirai verso di me. La sentii irrigidirsi, più per la sorpresa che per altro. Quindi le lasciai un bacio sulla guancia vicino all’angolo della bocca, proprio come un momento prima aveva fatto lei.
“Bentornata, Stana” le sussurrai sull’orecchio. Il suo odore mi arrivò intenso al naso, tanto che chiusi per un momento gli occhi per godermelo fino in fondo. La sentii rabbrividire leggermente contro di me. Poi, prima che potesse anche solo capire quello che era appena accaduto, la lasciai andare e, come se nulla fosse, mi diressi in salone. Con la coda dell’occhio vidi che lei era rimasta immobile all’ingresso, la bocca semiaperta e le sopracciglia aggrottate. Non riuscii a trattenere un ghigno. Quella sera ero in vena di giocare. Forse perché ero felice di ritrovare tutte le persone con cui avrei lavorato e con cui stavo instaurando un rapporto così bello. O forse solo perché lei era tornata, anche se erano passati solo pochi giorni dall’ultima volta che l’avevo vista. Quando qualche secondo dopo Stana si avvicinò al gruppo, mi lanciò un’occhiataccia. Il momento dopo però mi rivolse un sorriso perfido. Ops. Forse non avevo tenuto conto del fatto che mi ero messo a giocare con il fuoco.
 
Dieci minuti dopo il mio arrivo suonarono alla porta. Questa volta fu Susan stessa che andò ad aprire. Nel frattempo io avevo cominciato a scherzare con i presenti e a conoscere le due nuove persone. La donna si chiamava Dusty Dawn Bowman ed era la moglie di Rob. Sembrava diversi anni più giovane di lui, probabilmente poco più di quindici anni. Era una bella donna, alta, snella e con lunghi capelli biondi. A quanto pareva aveva recitato in un film, ma aveva capito che per lei era meglio continuare il suo attuale lavoro, cioè igienista dentale. Scoprii in quell’occasione che avevano anche un figlioletto di due anni appena compiuti. L’uomo invece si presentò come Connell Cowan, marito di Susan. Rimasi stupefatto da quella scoperta. Che ricordassi, lei non c’è ne aveva mai parlato. L’avevo però già sentito nominare e quando mi disse la sua professione capii perché. Era uno psicologo, ma anche un autore di libri sulla stessa materia. Dovevo essermi imbattuto in qualcosa di suo in libreria. Era un uomo alto, con i capelli brizzolati tagliati a spazzola e un paio di occhiali rettangolari sul naso. A vederlo sembrava una persona molto seria e disciplinata, ma dopo solo poche chiacchiere si capiva che era molto gentile e ben disposto verso gli altri.
Il saluto raggiante di Susan ci fece voltare verso l’ingresso. Vidi la piccola Molly sulla porta, un po’ imbarazzata, e subito dietro di lei un uomo che riconobbi subito come il padre. A differenza dei provini, in cui il signor Quinn era molto rilassato, questa volta sembrava a disagio tanto quanto la figlia, se non di più. Susan li fece accomodare in casa e li mandò direttamente da noi. Sorrisi dolcemente a Molly quando il suo sguardo si posò su di me e le feci l’occhiolino. Lei mi sorrise di rimando, un po’ dell’imbarazzo che scivolava via.
Poco dopo, poiché eravamo arrivati tutti, Susan ci fece fare un rapido giro della casa per poi annunciarci che potevamo metterci a tavola. La seguimmo in sala da pranzo, dove la donna indicò a ognuno di noi i posti a sedere su un lungo tavolo rettangolare già apparecchiato. Andrew e il signor Cowan occuparono i due capotavola. Volere della sorte, o più probabilmente chiaro volere della padrona di casa, io e Stana finimmo seduti vicini. Oltre alla mia partner, accanto a me sedeva Molly e dopo di lei suo padre. Davanti a me invece c’era Jon. Susan era davanti a Stana, mentre Tamala e Terri erano rispettivamente di fronte a Molly e a suo padre.
Fin da subito mi accorsi che eravamo un po’ stretti, nonostante il tavolo fosse abbastanza lungo e largo. O forse ero io a sentirmi un po’ stretto visto che la gamba di Stana era entrata in contatto con la mia dal primo istante, strusciandola appena. E lei sembrava non avvertire nulla. Eppure la gamba di Molly stava tranquillamente nel suo spazio senza invadere il mio. Va bene che era ancora piccola, ma non è che neanche Stana fosse questo gigante.
Ero ancora preso dalle mie supposizioni mentali quando sentii il ginocchio della mia partner strusciare di nuovo contro la mia gamba. Trattenni per un momento il respiro e deglutii. Ok, poteva non essersene accorta, eravamo stretti e tutto…
“Ehi, amico tutto bene?” mi chiese Jon vedendomi irrigidire improvvisamente mentre mi mordevo il labbro inferiore. Scossi la testa per riprendermi e mi schiarii la gola. Per fortuna in quel momento Stana spostò la gamba. Sospirai appena, sollevato.
“Sì, sì tutto bene, Jon” replicai con un mezzo sorriso per tranquillizzarlo. Mi guardò con un sopracciglio alzato, scettico, ma non fece in tempo a chiedermi altro perché Susan portò in tavola gli antipasti. Approfittando della sua distrazione, lanciai un’occhiata a Stana. Seriamente, poteva non essersi accorta di niente? Un attimo dopo capii che il mio dubbio era fondato. Stana sapeva esattamente quello che faceva, perché, sentendo il mio sguardo, si girò e mi fece un sorrisetto divertito. Deglutii. Sarebbe stata una lunga cena. Sperai solo di non strozzarmi durante il pasto.
 
La cena fu semplicemente fantastica. Sia per il cibo che per la compagnia. Susan aveva cucinato un sacco di cose, dall’antipasto al dolce, ed era tutto buonissimo.
Chiacchierai molto con tutti, essendo praticamente al centro del tavolo. Ebbi anche l’occasione di parlare un poco con la piccola Molly, così da conoscerla meglio, oltre che scambiare un paio di parole con suo padre. Ovviamente l’aveva accompagnata quella sera per non lasciarla da sola in una casa piena di adulti appena conosciuti. Insomma, avremmo potuto anche essere dei pazzi psicopatici pervertiti. In effetti, se ci pensavo, forse guardare me e Jon lanciarci molliche di pane durante il pasto non doveva aver giovato molto alla nostra immagine… Sembravamo dei ragazzini. Senza contare che Stana e io continuammo per tutto il tempo a stuzzicarci a vicenda, a volte ripresi, a volte incitati dagli altri.
Non avevo idea di cosa le fosse successo in Canada, ma sembrava decisamente più spigliata di quando se ne era andata. Non che io mi lamentassi, ovvio. Ma avevo la sensazione che qualcosa la spingesse a comportarsi così. Voglio dire, non che di solito non ci stuzzicassimo, anzi, ma quella sera stavamo decisamente dando il nostro meglio. Anche senza volere a volte. Infatti, ad esempio, durante gli antipasti io presi una tartina di un gusto e Stana di un altro che a me non ispirava molto. Che posso dire, più che paté d’olive nere mi sembrava poltiglia di catrame! Lei però aggiunse non so cosa alla tartina e mi disse di assaggiarla. Dopo un po’ di proteste, cedetti. Allora lei, felice della vittoria, me lo posizionò davanti alla bocca senza pensarci. Non potei far altro che mangiarlo dalle sua mani, premendo per un momento le mie labbra sulle sue dita e muovendomi lentamente a ritroso, senza smettere mai di guardarla negli occhi. Era arrossita istantaneamente, sotto lo sguardo ridacchiante di Jon e Tamala e degli altri presenti. Stana, per ripicca, al dolce mi prese dalle mani una fragola della mia torta, che avevo già addentato a metà, e se la mangiò con fare sensuale. Come avessi fatto a non perdere il controllo e a non eccitarmi troppo, rimane un mistero. E tutto questo comunque senza contare le battutine e i vari strusciamenti di gambe durante tutta la cena!
Alla fine mi sentivo felicemente ben sazio di chiacchiere, tartine, pasta, tacchino e torta cioccolato e fragole. Ovviamente non mancarono le battute sulla mia fame e la mia pancia. Uff, io non avevo la pancia! Feci finta di non sentirle finché, al dolce, non prese a sfottermi anche Molly, ormai evidentemente a suo agio nel gruppo. La guardai a bocca spalancata, mentre tutti gli altri ridevano. Stana mi diede anche una pacchetta di incoraggiamento sulla spalla mentre ancora un po’ si piegava in due dal ridere. Bella partner che avevo.
Una volta finita la cena, dopo il consueto giro di caffè, rimanemmo un po’ a chiacchierare a tavola, quindi aiutammo Susan a recuperare piatti e posate sporche e tornammo in salone. Fu in quel momento che diedi un’occhiata alla stanza. Notai che rispecchiava i suoi due occupanti. Era pieno di oggetti, nuovi e d’epoca, ma l’ambiente non era soffocante, anzi era accogliente e caldo. Ogni riquadro, foto o statuina, ogni cosa insomma, aveva l’aria di avere una storia dietro. Memorie di una vita vissuta. Più, mi accorsi in quel momento, due gatti grigiastri e sonnacchiosi acciambellati in un angolo della sala.
“Ehi, e questi due inquilini?” domandai scherzoso a Susan indicando i due animali.
“Sono gatti, Fillion” fu la risposta pronta di Stana, apparsa all’improvviso alle mie spalle. “Sai, quei solitari animaletti che fanno le fusa.” Feci una smorfia alla sua battuta.
“Lo so, cosa sono i gatti, grazie!” replicai. “Esseri graffianti che lasciano peli ovunque e cercano sempre da mangiare!” Mi guardò stupita.
“Ma tu non hai un gatto??” Annuii.
“Due” precisai. “Ma io li odio.” Tutti mi guardarono interrogativi. Sbuffai. “Una mia ex me li ha portati in casa, mi ha costretto ad accettare che restassero e quando se ne è andata non se li è ripresi” confessai. Ci fu un momento di silenzio. Poi tutti partirono a ridere. Io mi imbronciai.
“Mollato dalla ragazza e con due figli-gatti a carico!” esclamò Jon tra una risata a l’altra. “Amico, ti sei fatto fregare!” Sbuffai di nuovo.
“Vado a prendere un po’ d’aria…” borbottai andando verso il retro della casa, dove prima Susan ci aveva mostrato un piccolo giardino. Quelli là dentro dovevano sbollire la ridarella e io avevo assolutamente bisogno di riprendermi un momento per la cena, ma soprattutto per Stana.
Uscii sulla veranda sul retro, completa di sedia a dondolo per due, e mi incamminai di qualche passo dentro il prato. L’aria fresca della notte mi fece bene. In casa faceva caldo e quello fu come un toccasana. Chiusi per un momento gli occhi e presi un respiro profondo. Certo, l’aria di Los Angeles non era la più salutare, ma per una volta potevo far finta di niente. Anche perché quel piccolo giardino recintato e nascosto alla vista delle abitazioni vicine sembrava quasi uno di quei luoghi da favola, quelli dove ti capita di veder spuntare da un cespuglio uno gnomo o un folletto.
Riaprii gli occhi e notai che il prato era poco illuminato dalla casa, ma molto dalla Luna. Alzai lo sguardo e mi trovai davanti un cielo pulito come non ne vedevo da tempo. O che forse semplicemente come non mi ero mai soffermato a vedere nell’ultimo periodo. La Luna spendeva luminosa tra le altre migliaia di stelle. Sospirai. Una volta mi piaceva l’astronomia. Da bambino potevo stare ore a osservare il cielo canadese insieme a mio fratello Jeff. Poi purtroppo non ne ebbi più il tempo.
Con un po’ di fatica individuai il Gran Carro e il Piccolo Carro insieme alla Stella Polare. Ritrovai anche la Cintura di Orione e la costellazione del Cigno. Ci fossero state meno luci dalla città, ero sicuro che in una notte come quella la Via Lattea sarebbe stata incredibile.
“Appassionato di astronomia?” Una voce mi fece sussultare. Mi girai e vidi Tom Quinn, il padre di Molly, sulla veranda a osservare il cielo con un live sorriso in volto. Abbassò lo sguardo e lo puntò su di me. “O semplicemente fuggiasco?” Sorrisi imbarazzato.
“Entrambi?” replicai passandomi una mano sul collo. Il signor Quinn ridacchiò, quindi fece qualche passo in avanti uscendo dalla veranda per raggiungermi.
“Sa, signor Fillion…”
“Può chiamarmi Nathan” lo fermai. Lui annuì appena e mi sorrise.
“Tom” replicò semplicemente. “Stavo dicendo… sai, Nathan, la mia bambina da piccola adorava il cielo” mi disse rialzando gli occhi verso le stelle. Nella sua voce c'era un lieve accento irlandese e nel suo tono qualcosa di nostalgico. “Mi chiedeva sempre nuovi libri sulle costellazioni e anche binocoli e un telescopio per le sue esplorazioni celesti.” Sorrisi appena. Potevo immaginarla una piccola Molly accanto a un grande cannocchiale astronomico. Era un’immagine tenera. “Le dicevo che doveva affidare un suo sogno a una stella perché si avverasse e lei ogni notte cercava la sua ‘stella-porta-sogni’, come la chiamava lei…” Sorrise dolcemente, ma poi tornò più serio e abbassò di nuovo lo sguardo su di me. All’improvviso mi sentii sotto esame. Le rughe sul suo volto sembrarono più profonde in quel momento. “Nathan, io non potrò essere qui mentre voi girerete. Ho bisogno di sapere che tu veglierai su di lei… proprio come Castle farebbe con Alexis.” Rimasi per un momento spiazzato dalla sua richiesta, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati. Mi stava affidando sua figlia. Sbattei le palpebre per riprendermi, poi annuii.
“Mi prenderò cura di lei come se fosse davvero mia figlia. Te lo prometto, Tom” dichiarai serio. Il padre di Molly fece un mezzo sorriso. Quindi mi allungò una mano. Dopo un momento gliela strinsi. Era un patto, il nostro. L’avrei controllata e protetta. Potevo farlo. Potevo prendermi questa responsabilità. Inoltre Molly sembrava una ragazza coscienziosa e con la testa sulle spalle. In fondo forse non avrei dovuto fare neanche tanto lavoro.
Tom mi sorrise ancora, più sereno, quindi mi lasciò la mano.
“Beh, è il caso che torni dentro. Non vorrei che Molly si scoli una bottiglia di vino da sola…” Sbarrai gli occhi. Tom ridacchiò. “Scherzo, Nathan, tranquillo! Mia figlia è una ragazzina intelligente. Non avrai problemi con lei” aggiunse, quasi avendomi letto i pensieri dalla testa. Detto questo, mi fece l’occhiolino e rientrò in casa, lasciandomi col batticuore in giardino. Presi un respiro profondo per calmarmi. Quindi ridacchiai e scossi la testa. Mi stava simpatico quell’uomo.
Guardai verso la porta, prendendo in considerazione l’idea di rientrare. Però stavo troppo bene lì fuori. Sì, amavo la compagnia e le feste, ma allo stesso modo a volte non mi dispiaceva un po’ di tranquillità. Soprattutto quando si trattava di raffreddare i bollenti spiriti derivanti dal flirtare con Stana. E poi quella notte era davvero bella. Decisi di darmi ancora qualche minuto, poi sarei rientrato.
Mi rimisi a osservare il cielo. C’era qualcosa di incredibilmente bello in quello spazio vuoto. Per questo ero stato felicissimo di interpretare il capitano Malcolm Reynolds in Firefly. Anche se per poco, mi aveva permesso di volare con lui in quello spazio immenso, fino a raggiungere i punti più lontani e sperduti della galassia. Certo, non avevamo incontrato alieni, ma il solo fatto di aver creduto di essere stato su una nave spaziale per me era abbastanza.
“Ehi, tutto bene?” Una voce, che ero certo avrei riconosciuto tra altre mille, mi risvegliò dai miei pensieri. Mi voltai e mi ritrovai davanti Stana. Mi guardava un po’ preoccupata dalla veranda. Le sorrisi.
“Sì, a posto” replicai.
“Non sei più tornato dentro…” aggiunse la mia partner facendo qualche passo nella mia direzione, uscendo dalla veranda e affiancandomi. Alzai appena le spalle, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Non potevo certo dirle che la causa principale del mio allontanamento era lei!
“Scusa, stavo osservando il cielo” spiegai rialzando il naso verso le stelle. “È molto pulito stasera.” Anche Stana alzò gli occhi. Io ne approfittai per osservarla con la coda dell’occhio. Era bellissima alla debole luce della luna. Solo parte di lei era illuminata dalla casa. Dopo qualche secondo sorrise appena e annuì.
“Hai ragione, è bellissimo…” sussurrò alla fine. Riabbassò gli occhi su di me e si accorse che la stavo guardando. Anche con la luce così tenue, riuscii a vedere che era arrossita. Una folata di vento improvvisa mi fece stringere la testa tra le spalle. Notai Stana rabbrividire.
“Hai freddo? Vuoi che torniamo dentro?” le domandai preoccupato. Io almeno avevo la camicia a maniche lunghe, il suo vestito invece lasciava le braccia nude. Scosse la testa.
“Era solo un po’ di vento” rispose. Rimanemmo qualche secondo in silenzio. La osservai che rialzava gli occhi al cielo, in quel momento persa nei suoi pensieri.
“Come stai?” mi azzardai a chiederle alla fine. Scosse di nuovo la testa.
“Sto bene, non ho freddo e…”
“Non mi riferivo a quello” la interruppi. Mi guardò aggrottando le sopracciglia, confusa. Mi schiarii al gola un po’ nervoso. Poi feci un cenno con la testa verso la casa di Susan. “Mi chiedevo solo cosa avessi stasera. Non ti sei mai comportata così con me. Insomma, noi due scherziamo e ci prendiamo in giro da quando ci conosciamo, certo, ma… ma stasera c’è qualcosa di diverso. Sembri più… non so come spiegarlo… euforica?” Stana sgranò per un momento gli occhi. Quindi li abbassò verso l’erba, imbarazzata, e si morse il labbro inferiore. “È andato… è andato tutto bene dai tuoi, vero?” domandai poi incerto. Non volevo farmi gli affari suoi, ma ero certo che ci fosse qualcosa sotto. Stana si mosse nervosamente spostando il peso da un piede all’altro, ma non aprì bocca. “Scusa, non sono affari miei…” mormorai alla fine dopo qualche secondo pentendomi della mia curiosità. “Forse è meglio se rientriamo” aggiunsi. Cercai di nascondere il tono rassegnato. Stavo già per voltarmi quando lei mi fermò.
“No, aspetta!” La guardai negli occhi e vidi un po’ di tristezza. Che avevo combinato? Perché non avevo tenuto chiusa la mia boccaccia?? “Hai ragione, qualcosa… qualcosa è successo mentre ero in Canada” mi confessò alla fine tutto d’un fiato. Notai che si stava torturando le mani con gesti agitati. Aggrottai le sopracciglia perplesso e preoccupato, ma non dissi niente per lasciarle il suo tempo per continuare. “Ecco, si tratta… si tratta di un mio zio. Lui è… è morto giusto il giorno dopo il mio arrivo…” Aprii la bocca per parlare a quella rivelazione, ma non sapevo neanche io cosa dire. Mi venivano in mente solo frasi banali e scontate. Richiusi la bocca e la guardai dispiaciuto. Quindi feci la prima cosa che mi parve davvero sensata. Feci un passo in avanti e la abbracciai.
All’inizio sentii Stana rigida contro di me, sorpresa dal mio comportamento. Ma dopo un momento ricambiò la stretta stringendo le braccia intorno al mio torso, afferrando la mia camicia tra le mani e affondando il viso nel mio petto. Appoggiai il mento alla sua testa. Dio, il suo odore mi avrebbe fatto impazzire se non fosse stato un momento tanto delicato.
“Mi dispiace…” mormorai alla fine dopo diversi secondi. Sentii le sue spalle muoversi appena. Stava singhiozzando piano. La strinsi ancora di più a me. “Perché non me ne hai parlato?” domandai poi un po’ ferito. Ci eravamo sentiti per telefono e mi aveva assicurato che andava tutto a meraviglia. Alzò appena le spalle.
“In realtà mio zio non lo vedevo da un paio di anni…” mi confessò alla fine un po’ a fatica. Sentii la camicia un po’ umida nel punto in cui Stana era appoggiata. Stava piangendo. “Ma quando ero piccola abitava vicino a noi e lui era sempre stato l’anima delle feste e tutto… Sempre il più allegro, il più sorridente, il più ottimista per la vita. Era una di quelle persone che ti convinci possano vivere in eterno, sempre con il sorriso sulle labbra. E invece… Ecco, lui non avrebbe mai voluto che piangessi… anzi mi avrebbe detto che sto sprecando tempo e che se volevo ricordarlo dovevo farlo vivendo intensamente come faceva lui, ogni giorno, festeggiando la vita…” A quelle parole capii il suo comportamento della serata. D’istinto le lasciai un piccolo bacio sulla testa.
“Se volevi sentirti viva avresti potuto dirmelo subito!” dissi cercando di tirarla un po’ su. “Conosco proprio il metodo perfetto. Non prevede alcun tipo di abito e si fa comodamente sdraiati a letto!” La sentii sbuffare divertita sulla mia spalla prima che mi desse un leggero colpo con la mano al braccio. Ridacchiai. In quel momento Stana rabbrividì di nuovo per una nuova folata di vento e sentii che aveva la pelle d’oca per il freddo. Iniziai a passarle automaticamente le mani sulla schiena e sulle braccia per scaldarla. Dopo qualche secondo si staccò da me, un po’ rossa in volto, strusciandosi il viso e gli occhi con le mani per eliminare le lacrime. Già mi mancava il suo calore, il suo corpo stretto al mio…
“Scusa, io… mi sono lasciata un po’ prendere e… e ti ho anche rovinato la camicia…” iniziò a scusarsi Stana vedendo poi la macchia scura e umida sulla mia maglia. “Mi dispiace…” La bloccai posandole le mani sulle guance. Le punte delle mie dita si intrufolarono tra i suoi capelli morbidi che aveva sparati in tutte le direzioni. Con i pollici le pulii i residui di lacrime, mentre lei mi guardava con gli occhi sgranati, e ancora un po’ lucidi, attenta a ogni mia mossa.
“Va tutto bene, tranquilla” le dissi con un sorriso. “Avevi solo bisogno di sfogarti. Spero solo di essere stato un degno cuscino…” aggiunsi con una mezza smorfia solo per farla ridere. Come avevo previsto, Stana non riuscì a reprimere un piccolo sorriso. Poi si morse il labbro inferiore.
“Un ottimo cuscino, direi…” aggiunse piano, maliziosa. Mi partì un battito. Dio, quanto avrei voluto di nuovo stringerla a me, colmare quella distanza tra di noi. Poi però l’espressione di Stana si fece più seria e io ritornai alla realtà. “Grazie” sussurrò guardandomi negli occhi. Le sorrisi teneramente.
“Qualunque cosa” mormorai. “Sappi che se avrai bisogno ci sarò per qualunque cosa, anche la più stupida. Sempre. Ok?” Mi osservò per un momento, quindi annuì piano. Sarebbe stato approfittare di lei, di un suo momento di debolezza, se mi fossi avvicinato in quel momento e l’avessi baciata? Ma non lo seppi mai, perché un’altra folata di vento ci sorprese e Stana rabbrividì di nuovo. “Forse è il caso che rientriamo davvero questa volta” dissi a voce più alta staccandomi da lei. Cos’era quello sguardo nei suoi occhi? Frustrazione? Delusione? Un secondo dopo però scomparve e io pensai di essermelo immaginato.
Stana annuì di nuovo e mi sorrise. Quindi mi precedette all’interno della casa. Io presi un respiro profondo e la seguii.
 
Il resto della serata lo passammo tranquilli e al caldo nel salotto di Susan. Anche la macchia umida sulla mia camicia scomparve in fretta. Dopo la nostra conversazione in giardino, Stana sembrava più rilassata e serena. Non smettemmo di stuzzicarci, ma eravamo tornati ai nostri soliti livelli. Ovviamente i presenti non si risparmiarono in battute su quello che avremmo potuto fare su quel “comodo prato là fuori”. Me ne curai poco di loro comunque. Sbuffai e risposi a tono, aiutato spesso anche dalla mia partner, ma internamente sorridevo per quella conversazione privata che avevamo avuto. Nonostante non ci conoscessimo da molto, Stana si era aperta con me. Insomma, avrebbe anche potuto mandarmi al diavolo e dirmi di non ficcare il naso negli affari degli altri. Invece mi aveva parlato, si era confidata e aveva anche ricambiato il mio abbraccio!
Per il resto della sera cercai di allontanare quel ricordo dalla mia mente. Il pensiero del corpo caldo e morbido di Stana attaccato al mio non mi avrebbe certo aiutato a restare concentrato. Volevo evitare di dover correre a farmi una doccia fredda nel bel mezzo della serata.
Tornai a casa che era mezzanotte passata. Avremmo fatto anche più tardi, ma Marlowe ci aveva giustamente ricordato che l’indomani avremmo dovuto essere agli studios alle nove in punto e che inoltre Molly aveva scuola alle otto e mezza. Era meglio arrivare svegli.
Chiusi la porta, mi tolsi la giacca e mi stiracchiai per bene. Andai in cucina a prendermi un bicchiere d’acqua e lo buttai giù in un sorso. Poi mi fermai in salone, indeciso se accedermi un po’ la tv o meno. Non ero troppo stanco, ma non avevo voglia di stare molto in piedi. Decisi che un libro sarebbe stata la scelta migliore. Andai in camera e mi cambiai, infilandomi un paio di pantaloni della tuta e una maglietta a maniche corte che usavo per dormire. Passai un momento dal bagno e poi mi diressi alla libreria per scegliere cosa da leggere. Dopo diversi minuti di indecisione, mi ricordai che in quei giorni avevo comprato un libro di James Patterson che però non avevo ancora iniziato. Tornai in salone e sul tavolo vidi il sacchetto con il volume abbandonato. Tirai fuori La tana del lupo e me ne rientrai contento in camera. A quel punto accesi la luce sul comodino, mi infilai sotto le coperte e mi persi tra le indagini del detective Alex Cross.
 
Il mattino dopo arrivai agli studios un po’ assonnato. Ero tornato presto a casa, ma il libro mi aveva preso talmente tanto che senza accorgermene avevo fatto le due di notte. Come ormai era diventata mia abitudine, passai dal bar e presi due caffè, uno per me e uno per Stana. Quindi andai sul set del distretto, dove avremmo fatto i provini per il capitano Montgomery. Una volta arrivato, notai subito in un angolo Marlowe parlare nervosamente con Bowman e uno della crew. Continuava a indicare diversi fogli che aveva sparsi davanti a lui sopra un tavolo. Poi vidi Stana osservare la stessa scena poco lontano da me insieme a Jon, Tamala, Susan e Terri. Mi avvicinai a loro.
“Giorno” li salutai. Loro si accorsero di me e mi salutarono a loro volta mentre io passavo uno dei due contenitori di caffè a Stana.”Che succede?” domandai poi facendo un cenno con la testa verso Andrew.
“Non sono ancora riusciti a mettere a posto il set” rispose Terri con un sospiro. “Sai che ogni parete deve essere rimuovibile per le varie riprese, no?” Annuii. “Beh, devono aver sbagliato qualcosa nel montarli perché alcune non si muovono mentre altre appena le sfiori vengono giù come niente.”
“Com’è che non ci sono ancora cadute addosso, allora?” domandò Jon sorpreso.
“Pura fortuna, credo” replicò Terri con gli occhi puntati sul marito. Il tono della sua voce nascondeva poco una nota tesa per quello che sarebbe potuto accadere. “Ho l’impressione che i vari scatoloni ancora presenti e attaccati alle pareti gli abbiano impedito di venire giù. Qualche giorno fa però dovevano fare una prova di ripresa nella sala interrogatori e appena hanno spostato gli oggetti davanti è venuta giù. Si sono accorti che qualcosa non teneva e, controllando, hanno scoperto che lo stesso problema c’era anche in altri pannelli. Ora, questi non sono pesantissimi e finché è il distretto, che ha poco o nulla sulle pareti, è ok, ma sarebbe potuto accadere a casa di Castle e allora non so…” Annuii comprensivo. Capivo le sue paure. Il loft dello scrittore era pieno di libri e scaffali pieni di roba come ce ne erano in ogni casa. Se fosse venuto giù uno di quei pannelli, con chiunque di noi sotto, non sarebbe stato propriamente salutare.
Dieci minuti dopo tutti quelli che avrebbero dovuto seguire i provini erano presenti. Aspettavamo solo che Marlowe finisse con Bowman e il tecnico. Finalmente sembrarono trovare l’intoppo nei pannelli e il regista spedì il tipo della crew a ricontrollare ogni parete del set. Noi potemmo a quel punto cominciare, ma non prima che Andrew ci avesse avvertito severamente di stare lontani dalle pareti.
Rob passò a me e Stana due copioni e un altro lo diede a Jon, nel caso avesse voluto fare qualche intervento durante i provini. Leggendo le battute, notai che erano tre scene. Nelle prime due avremmo recitato sia io e che Stana, mentre l’ultima era un faccia a faccia tra Beckett e il capitano. La prima scena prevedeva la breve opera di convincimento, che in realtà era un’imposizione, di Montgomery a Beckett per tenere Castle al distretto. La seconda riguardava la discussione di un delitto davanti alla lavagna bianca. Alzando gli occhi dal copione, notai che questa era già in posizione a pochi passi da noi, con tanto di foto della vittima e scritte in pennarello di supposizioni e linee temporali. La terza scena invece era un’ipotetica discussione tra il capitano e la detective in cui Montgomery cercava di tranquillizzarla per un caso a cui la donna non riusciva a venire a capo. Ricordandomi quello che ci aveva detto Andrew sul passato di Beckett, supposi che fosse una qualche prova di scena futura durante la riapertura del caso di Johanna Beckett.
Venti minuti dopo Marlowe, ancora piuttosto irritato, diede il permesso a Isabel, la sua solita assistente, di far entrare i candidati al ruolo di capitano.
 
Le due ore successive furono un susseguirsi di uomini d’età compresa tra i 45 e i 55 anni dall’aria più o meno seria. Fino a quel momento ne avevamo sentiti poco meno di una ventina e ne rimanevano ancora otto. Al solito trovammo alti e bassi. Quasi tutti erano attori già con esperienza, in alcuni casi anche abbastanza affermati. Un paio di loro ci sembrarono davvero buoni per il ruolo. Uno di questi pareva realmente un capitano della polizia, ma aveva un cipiglio un po’ troppo severo anche con Beckett e Castle. L’altro, al contrario, sembrava quasi un secondo padre della detective, ma parte dei termini delle indagini non gli entravano proprio in testa.
Marlowe ci chiese se volevamo una pausa, ma decidemmo di continuare e nel caso staccare un po’ prima. Isabel allora mandò dentro un altro candidato. Questa volta era un uomo di colore sui 50 anni, alto poco meno di me, con un’alta fronte e i capelli brizzolati e rasati fino a mantenerli lunghi poco più di qualche millimetro. Aveva anche un paio di baffetti ben curati dello stesso colore dei capelli.
L’uomo andò verso il solito tavolo di Marlowe, Bowman e gli altri produttori-seguaci per dare il suo curriculum. L’aveva appena passato in mano ad Andrew quando mi accorsi che c’era qualcosa di strano. Un lieve… qualcosa. Non riuscivo a decifrarlo. Sapevo solo che qualunque cosa fosse stava crescendo d’intensità. E non ero l’unico a percepirlo. Vidi che tutti si stavano guardando intorno confusi quanto me. Poi all’improvviso mi accorsi di non riuscire a reggermi in piedi. Le gambe mi tremavano. Quasi caddi a terra. Solo in un secondo momento realizzai perché. Non ero io a tremare. Era la terra. Era un terremoto.
Nello stesso istante in cui ci arrivai io, molti altri lo capirono e iniziarono a correre fuori dal set. Gli oggetti intorno a noi cominciarono a cadere. Ora il rombo era chiaro e si mescolava alle urla delle persone presenti e al rumore di tonfi e cose in frantumi. Nella confusione percepii la voce di Andrew che gridava a tutti di correre fuori. Mi mossi anch’io, ma una pila di scatoloni mi cadde davanti in quel momento e feci istintivamente un passo indietro, coprendomi il viso con un braccio.
“Nathan!” La voce di Stana mi arrivò chiara e spaventata. Alzai gli occhi e la vidi a pochi passi da me, in posizione già per correre via, ma ancora immobile ad aspettarmi. Che diavolo faceva ancora dentro?? Ormai quasi tutti erano usciti! Doveva andarsene!
“Stana, vai!” gridai calciando le scatole davanti a me per riuscire a passare. La terra continuava a tremare sotto di noi e faticavo a stare in piedi. “Esci!”
“Tu muoviti!” fu la sua risposta scocciata e terrorizzata. Sbuffai sonoramente e buttai all’aria tutti gli scatoloni davanti a me per riuscire a raggiungerla velocemente. Che testa!! Ma perché non usciva come gli altri e… “STANA!! ATTENTA!!” Vidi come a rallentatore la parete dietro di lei crollarle addosso. In qualche modo la raggiunsi appena in tempo per tirarla per un braccio con forza verso di me. La avvolsi tra le braccia e le coprii la testa con la mano, schiacciandola quasi contro di me. Alzai il capo e individuai l’uscita. “Forza andiamo! Stana c’è la fai?” urlai per farmi sentire. Lei annuì spaventata, senza riuscire a parlare, e si aggrappò alla mia camicia. Nonostante lo shock, vidi la decisione nei suoi occhi. Eravamo entrambi terrorizzati, ma non potevamo perdere la testa in quel momento. La presi per mano e il più velocemente possibile ci dirigemmo verso l’uscita di sicurezza. Il verde luminoso della scritta EXIT ci faceva da faro. All’improvviso sentii Stana tirarmi.
“Nathan attento!!” Feci appena in tempo a girarmi che vidi uno dei pannelli del distretto crollarmi addosso. Stavolta non riuscii a evitarlo. D’istinto lasciai la mano di Stana perché non finisse sotto con me. L’attimo dopo provai un dolore lancinante alla testa e mi sentii spingere brutalmente a terra. Sbattei violentemente contro il pavimento con un gemito strozzato. Una qualche parte del mio cervello capì che qualcuno stava urlando il mio nome, ma non riuscivo a metterlo a fuoco. Non riuscivo a mettere a fuoco niente. Tutto si muoveva confuso davanti a me. Mi alzai appena sulle braccia. Scossi la testa per cercare un po’ di lucidità, ma il movimento quasi mi strappò un grido. Portai una mano al capo, nel punto in cui il dolore era tale che mi sembrava mi si fosse aperta in due la testa. Sentii umido. Riportai la mano davanti a me e vidi che le mie dita erano colorate di un rosso lucido.
“NATHAN!” la voce sconvolta di Stana, all’improvviso così vicina, mi risvegliò. Alzai gli occhi e la vidi inginocchiata davanti a me. Era pallida e sudata. Stava tentando di tirarmi in piedi, ma io facevo la stessa resistenza di un peso morto. Cercai di aiutarla. Mi tirai su dalle braccia e feci per alzarmi, ma all’improvviso tutto si fece buio davanti ai miei occhi. Udii ancora una volta la voce spaventata di Stana. Poi più nulla.
 
La prima cosa che percepii quando mi risvegliai fu un gran mal di testa. Che cavolo era successo? Diavolo, mi sembrava di avere un’accetta conficcata nel cranio!
Con gli occhi ancora chiusi feci una smorfia di dolore. In quel momento sentii una leggera pressione alla mano e percepii come un suono lontano. Man mano che passavano i secondi, capii che il suono era una voce. Una voce sempre più chiara e familiare. Un volto si fece strada nella mia mente. Stana. In un colpo ricordai tutto. Il terremoto, la parete che cadeva, il sangue, lei accanto a me che rischiava pure di essere colpita. Il set stava crollando! Dovevo portarla fuori! Subito!
Aprii gli occhi scatto.
“Stana!” urlai. Cercai di alzarmi a sedere, ma una fitta alla testa mi fece bloccare a metà movimento e gemere dolorosamente.
“Nathan, calmo!” La sua voce mi fece trattenere il respiro e perdere un battito. Mi voltai, lentamente, e vidi la mia partner proprio accanto a me. Aveva delle leggere occhiaie e sembrava in ansia, ma era comunque bellissima. “Va tutto bene, Nathan. Stiamo bene.” Sbattei gli occhi per cercare di capire se fosse un sogno o se stesse bene per davvero. Aveva il viso e gli abiti un po’ sporchi, ma per il resto sembrava essere in forma come sempre. Un piccolo sorriso sollevato stava iniziando a farsi strada sul suo viso. Fu in quel momento che notai che una sua mano era stretta alla mia.
Un nuovo improvviso dolore mi distrasse da lei e mi fece portare automaticamente la mano libera alla testa. Invece di capelli e pelle però, sentii il contatto con del tessuto. Avevo una garza tutt’intorno al capo.
“Ehi, non toccarla…” mi riprese dolcemente Stana portandomi giù il braccio. “Ti serve. Hai preso proprio un bel colpo sul set.” Alle sue parole scossi piano la testa e feci un mezzo sorriso.
“Nah, sono sicuro che quello che ne è uscito peggio è stato il pannello…” replicai piano. Stana alzò gli occhi al cielo, decisamente più sollevata dal constatare che non avevo subito danni celebrali.
“Per lo meno ora sappiamo che la tua testa non ha subito lesioni gravi!” esclamò divertita. In quel momento qualcuno bussò. Stana diede il via libera per entrare e la porta si aprì, rivelando le facce preoccupate di Andrew, Jon e Tamala insieme ad un’altra a me sconosciuta. Apparteneva ad un uomo con un lungo camice bianco e uno stetoscopio che gli usciva dal taschino. Fu solo in quel momento che mi guardai intorno e capii di essere in ospedale. Aggrottai le sopracciglia. Quando ci ero arrivato? Quanto tempo ero stato incosciente? In ogni caso non doveva essere da molto perché mi accorsi di essere ancora vestito e sporco tanto quanto Stana.
“Oh, bene, si è svegliato signor Fillion!” esclamò il dottore sorridendomi e avvicinandosi a me. Gli altri mi salutarono solo con un debole e sollevato “Ciao” per lasciare che il medico mi visitasse tranquillo. “Sono il dottor Lyas e la informo che quest’oggi ha avuto l’onore di essere mio paziente!” si presentò allegro iniziando a compilare un foglio, sulla quale immaginai avrebbe appuntato i miei malanni, appoggiato ad una cartellina.
“Salve…” replicai un po’ scettico alzando un sopracciglio. Aveva l’aria di essere uscito da un uovo di pasqua. Da sotto il camice intravedevo una maglia a righe color arcobaleno e indossava un paio di pantaloni chiari lunghi fino al ginocchio. Con la coda dell’occhio notai Stana trattenersi a stento dal ridere per la mia faccia dubbiosa.
Il dottor Lyas finì di compilare il foglio, appoggiò la cartellina sul comodino accanto al mio letto e batté le mani.
“Allora, io dovrei visitare il mio qui presente paziente!” disse poi rivolto agli altri. “Quindi se poteste gentilmente uscire…” Andrew, Tam e Jon si affrettarono subito verso la porta. Stana stava per raggiungerli, ma la trattenni per la mano che non si era ancora staccata dalla mia.
“Lei almeno può restare?” domandai al medico speranzoso.
“Beh, per me non ci sono problemi, se la signorina è d’accordo…” Mi voltai subito verso Stana e sfoggiai il mio miglior sguardo da cucciolo per farla capitolare. Non volevo restare da solo con quel medico pasquale!
La mia partner resistette due secondi, indecisa, mentre si mordeva il labbro inferiore. Poi, con mia grande gioia e soddisfazione, cedette. Con un sospiro tornò accanto al mio letto nel punto in cui era stata fino a un momento prima. Il medico cominciò a quel punto la sua visita.
“Allora, signor Fillion, ora la aiuto a mettersi seduto, va bene?” mi informò il dottor Lyas. “Piano, mi raccomando.” Mi prese per un braccio e, con una delicatezza e una forza che non avrei creduto capaci in quell’uomo così smilzo, mi aiutò a tirarmi su. Mi sedetti con la schiena appoggiata ai cuscini. Il movimento mi fece pulsare la testa come un martello pneumatico e non riuscii a trattenere una smorfia di dolore. Sentii di nuovo la mano di Stana stringersi sulla mia. Doveva aver notato la mia faccia. “Ok, ora mi dica come si sente. Dolori? Nausea? Vertigini?” mi chiese il medico. In un attimo si era trasformato nel più serio dei dottori. Per un momento rimasi stupito del cambiamento. Poi cercai di trovare le risposte alle sue domande. Aggrottai le sopracciglia, concentrato. Mi ero alzato, ma non avevo né nausea né vertigini. Solo dolore.
“Non ho niente, solo… mi fa male la testa…” risposi un po’ a fatica. Il pulsare stava un po’ diminuendo, ma non accennava minimamente a sparire.
“Purtroppo ci vorrà un poco perché svanisca” replicò il dottor Lyas annuendo gravemente. “La sua testa ha subito davvero un bel colpo e abbiamo dovuto metterle qualche punti. Cinque per l’esattezza” aggiunse iniziando a cercare qualcosa in una delle tasche più basse del camice. “Più tardi, se vuole, le prescrivo un farmaco per il dolore. Mi dica ha qualche allergia in particolare?” domandò poi. Gli risposi negativamente. In quel momento trovò quello che stava cercando. Sembrava una piccola torcia. Me la puntò prima in un occhio e poi nell’altro continuando a farmi domande. “Si ricorda cosa è successo e come è arrivato qui?” Gli raccontai del terremoto, del pannello e di tutto quello che mi venne in mente, fino al buio totale e al risveglio in ospedale. Alla fine il medico annuì, evidentemente soddisfatto del risultato. “Ok, sembra che effettivamente il colpo alla testa non abbia interferito con le sue funzioni!” disse il dottor Lyas allegro. “Un ultimo test, signor Fillion, e abbiamo finito.” Annuii appena e sentii Stana accanto a me sospirare sollevata.
“Preoccupata per me?” le domandai divertito. All’improvviso sentii un forte sciocco nell’orecchio destro e per poco non balzai in aria. Ma era impazzito?? Pensava di curarmi così il mal di testa??
“Scusi…” disse il dottore con un mezzo sorriso. Aveva semplicemente fatto schioccare le dita, ma l’aveva fatto talmente vicino al mio orecchio che mi aveva sorpreso.
“Non sono preoccupata per te” mi rispose Stana in quel momento distraendomi dal medico. Mi voltai verso di lei stupito. “Sono preoccupata per la serie, ovviamente!” dichiarò ridacchiando. Io misi il broncio. Stavo per replicare quando vidi lo sguardo della mia partner cambiare. Osservava preoccupata un punto appena accanto al mio orecchio sinistro. Mi voltai confuso e mi trovai davanti le dita del dottore che schioccavano furiosamente.
“Signor Fillion, mi sente da quest’orecchio?” mi domandò serio il medico.
“No, perché?” replicai senza pensarci.
“Come sarebbe a dire perché??” esclamò Stana agitata. Passai per un momento lo sguardo tra il dottore e la mia partner e fu a quel punto che mi ricordai di aver dimenticato di dire una cosa importante.
“Oh, io non ci sento dall’orecchio sinistro. Sono praticamente sordo” dissi alzando appena le spalle. Stana mi guardò a bocca aperta, stupita. “Quando avevo due anni mi hanno curato male un’otite” spiegai a entrambi. “Non ci sento da allora.”
 
“Sei sordo e non ce lo hai mai detto??” esclamò indignata Tamala con le mani sui fianchi. Se avesse urlato ancora un poco in quel modo, mi avrebbe fatto fuori anche l’orecchio buono.
“Ehi!!” protestai. “Non sono sordo! Non del tutto almeno” aggiunsi. “Solo ad un orecchio.”
“E perché non lo hai detto?” domandò a quel punto Jon con tono molto più calmo della sua collega. Alzai un sopracciglio.
“E che dovevo dire?” replicai ironico. “Ciao, mi chiamo Nathan Fillion e sono sordo da un orecchio?” Tamala sbuffò scocciata. “Non si è mai presentata l’occasione, ecco tutto” dissi alla fine alzando le spalle. “Se fosse venuto fuori l’argomento ve ne avrei parlato. Ma non è che spesso si parli di sordità o di orecchie… E poi io ho un orecchio fuori uso da quando avevo due anni! Neanche mi ricordo com’è sentire da entrambi. Per me è una cosa normale.” Era vero. Ero cresciuto con quel problema, quindi non ne avevo mai veramente sentito la mancanza. E poi, insomma, avevo comunque un orecchio ancora funzionante!
Il dottor Lyas aveva controllato il mio timpano perforato richiedendo una copia digitale della mia cartella clinica all’ospedale canadese dove ero stato operato da bambino. La sordità era rimasta la stessa, senza fare altri danni, quindi aveva appurato che il colpo non mi aveva causato lesioni al cervello. In pratica l’unica ferita che avevo riportato era il taglio alla testa. Il dottore aveva comunque deciso di tenermi sotto osservazione per qualche ora. Già quella sera però sarei potuto tornare, per mia somma gioia, a casa. Non amavo particolarmente gli ospedali, anche se dovevo ammettere che li avevo frequentati piuttosto spesso negli ultimi anni. Non ero mai stato un tipo particolarmente tranquillo.
“Come hai fatto a diventare sordo?” chiese a un certo punto Andrew, curioso.
“Quando avevo due anni presi l’otite” iniziai a raccontare. “Non ero un bambino che si lamentava spesso…” Sentii Stana sbuffare ironica a quella affermazione. Feci finta di niente e continuai. “A un certo punto comunque mia madre capì che stavo male e mi portò dal pediatra. Quello però prese la mia otite per una comune febbre e mi rispedì a casa con un semplice antibiotico. Dopo due giorno stavo talmente male che i miei mi portarono all’ospedale, dove mi diagnosticarono subito l’otite. Poi non so come sia successo, ma in qualche modo richiamarono lo stesso pediatra che mi aveva in cura. Sbagliò ancora una volta a darmi dei farmaci. Quando gli altri medici capirono la cazzata che stava facendo tentarono di aiutarmi, ma ormai un timpano mi si era già perforato.” Cercai di tenere il mio tono neutrale, ma l’ultima frase mi uscì dura. C’era un altro motivo per cui non avevo detto niente della mia sordità. Istinto di sopravvivenza. Sì, la prima causa era che non era mai venuto fuori l’argomento. Ma un’altra era che da bambino venivo spesso preso in giro per il mio problema, o comunque trattato in modo troppo diverso, come se fossi un mentecatto, dagli altri, bambini o adulti che fossero. Per questo, arrivato a un certo punto, avevo semplicemente smesso di dirlo. Per evitare di essere deriso. Sentivo le persone che mi parlavano, per cui non vedevo il motivo di raccontare che non sentivo da un orecchio.
Gli altri dovettero capire qualcosa del mio stato d’animo perché rimasero in silenzio per qualche secondo. La mano di Stana si strinse ancora una volta alla mia. Evitai però i loro occhi. Avevo paura di leggervi pietà e di certo non era quello che volevo né quello che mi serviva. Volevo che capissero che non era cambiato praticamente niente nella mia vita da quel giorno di trentasei anni prima. Solo sentivo un po’ meno.
In quel momento la ferita alla testa cominciò a pulsarmi un poco e a prudere. Alzai un mano e inizia a sfregarla contro le bende, nonostante il dolore.
“Che stai facendo??” esclamò Stana spostandomi la mano dal capo e tenendomela giù.
“Prude” mugugnai, sperando, in quel caso sì, di smuoverla a compassione. Ma lei non si fece fregare.
“Il dottor Lyas ha detto che non devi toccarti la ferita per nessun motivo” mi ricordò la mia partner in tono severo, ma allo stesso tempo dolce. “Anche se prude. Ti aveva avvertito che avrebbe cominciato presto.” Sbuffai. La testa mi prudeva! E pulsava anche un po’, ma quello lo sentivo sempre meno. Il dottore mi aveva dato una pillola da prendere contro il dolore, ogni volta che fosse aumentato, per qualche giorno. Avevo curiosamente notato che sia la crema per la mia botta alla faccia sia la capsula erano dello stesso giallino ambrato. In ogni caso avevo presa una pillola mezz’ora prima, appena il medico era uscito, e stava facendo effetto.
Cercai di pensare a qualcos’altro per distrarmi dal prurito.
“A proposito, quanto è durato il terremoto?” domandai.
“47 secondi” rispose Tamala, ora decisamente più tranquilla di qualche minuto prima. “Magnitudo 4.8.”
“Non elevatissimo, ma abbastanza per far tremare tutto e buttar giù i pannelli” aggiunse Marlowe con uno sbuffo irritato. “Ora li stanno smontando e rimontando uno per uno su ogni set. Sarebbero venuti tutti a vedere come stavi, ma abbiamo deciso che non era il caso di affollare l’ospedale e siamo arrivati noi in ambasciata. È probabile che qualcuno verrà nel pomeriggio a farti visita, ma visto che in qualche ora sarai dimesso, credo che verranno a trovarti direttamente a casa.” Annuii piano.
“Non si è fatto male nessun altro, vero?” chiesi poi preoccupato.
“Nessuno” rispose per tutti Stana. “Tu sei stato l’unico. E mi sembra stia diventando un po’ un’abitudine…” aggiunse con un mezzo sorriso alludendo chiaramente alla mia quasi del tutto ex-faccia viola. Feci una smorfia offesa che li fece scoppiare a ridere.
“Però che non diventi troppo un’abitudine” mi ammonì Andrew. “Mi servi per una serie tv, Nathan. Se poteste evitare entrambi già da ora di fare come i futuri Castle e Beckett mi fareste un gran favore. Se ti consola, ci penseranno già loro a mettersi abbastanza nei guai anche per voi!”
“Non dirmi che pensi di far crollare la casa di Beckett con loro dentro!” dissi scherzando.
“No, niente crolli” replicò Marlowe con una scrollata di spalle. “Pensavo più a una bomba…”
“Cosa??” esclamò Stana stupita. “Mi vuoi far saltare in aria la casa??”
“Tesoro, tecnicamente non è tua, ma di Beckett…” commentò Tamala ridacchiando.
“Beh, in ogni caso è la casa del mio personaggio!” si difese la mia partner. Poi si rivolse di nuovo a Marlowe. “Spero almeno che avrai la cortesia di non farla saltare con me dentro.” Il regista si schiarì appena la voce e iniziò a spostare il peso da un piede all’altro. Fece un paio di passi indietro, verso la porta, giusto per precauzione immagino.
“Uhm… veramente…”
Veramente??” ripeté Stana offesa, quasi come se Marlowe avesse appena annunciato che avrebbero fatto saltare sul serio casa sua. Aveva un broncio talmente carino in faccia che non potei fare a meno di pensare che fosse bellissima mentre scoppiavo a ridere.
“Ehm… beh, noi ora dobbiamo andare, vero?” disse subito Andrew rivolto a Jon e Tamala. Avevo la vaga impressione che volesse scappare.
“Tu resti?” domandai speranzoso a Stana. Lei arrossì appena e annuì.
“È meglio tenerti sott’occhio ancora per un po’…” replicò lei. “Più tardi poi ti accompagno a casa. Il dottor Lyas ha detto che almeno per il momento non devi essere lasciato solo.”
“Quindi mi rimbocchi le coperte stasera?” chiesi con un sorriso a trentadue denti. Non sapevo bene io stesso se a parlare fossi stato io o l’antidolorifico. La mia partner mi guardò scioccata per un momento, poi arrossì ancora di più e scosse la testa.
“Beh, allora noi vi lasciamo soli!” esclamò Tamala sorridendo maliziosa mentre si tirava Jon e Andrew dietro. Con mia sorpresa fece l’occhiolino a Stana. La guardai a bocca aperta mentre con la coda dell’occhio vedevo la mia partner lanciare un’occhiataccia all’amica. A quel punto tutti e tre ci salutarono e scapparono fuori dalla stanza. Appena uscirono, Stana sbuffò.
“Finalmente…” mormorò sollevata. La mia bocca non poté fare a meno di aprirsi in un sorriso.
“Non vedevi l’ora di stare sola con me, Katic?” commentai ridacchiando felice. Stana alzò gli occhi al cielo. Sapevo che stava maledicendo silenziosamente le pillole. Però, nonostante quelle, non mi sfuggì il piccolo sorriso che le si era formato agli angoli della bocca.
All’improvviso però sembrò ricordarsi qualcosa perché schioccò le dita e mi puntò un indice contro. E ora che avevo fatto?
“Hanno chiamato i tuoi e tuo fratello prima” mi disse tirando fuori un cellulare dalla tasca dei pantaloni. Lo riconobbi come il mio. “Hanno sentito del terremoto e volevano sapere se stavi bene. Gli ho spiegato la situazione, ma credo che sarebbero molto più tranquilli se parlassero con te” aggiunse con un sorriso dolce porgendomi il telefono.
 
Nelle sette ore seguenti, fino a quando in pratica non fui dimesso dall’ospedale alle otto di sera, chiamai i miei genitori e mio fratello per rassicurarli sulle mie condizioni fisiche, mangiai un brodino insipido datomi dall’ospedale per pranzo e ricevetti la visita di diverse persone dal set. Susan e Terri furono tra le prime a venirmi a trovare, a quanto pare facendo il cambio con gli altri tre usciti prima e che in quel momento erano sul set. Verso metà pomeriggio passò anche Molly. Anche lei, come tutti, aveva sentito la scossa di quel mattino, ma per fortuna alla sua scuola non c’erano state conseguenze. La cosa non mi sorprese. Los Angeles era a pochissima distanza dalla faglia di Sant’Andrea. Tutto, in città e nel resto della California, era costruito con rigorose norme antisismiche e perfino i palazzi non potevano avere più di un certo numero di piani. In pratica, anche a detta del dottor Lyas, che era passato più di una volta a controllarmi, io ero stato l’unico paziente “grave” ricoverato. Per tutti gli altri era andata bene. Un po’ di paura, ma a parte qualche ferita superficiale, nessuno in tutta Los Angeles si era fatto male.
Alle otto il dottor Lyas venne a farmi l’ultima visita e a cambiarmi il bendaggio. Mi consigliò almeno un giorno a casa in assoluto riposo. Dal giorno successivo, con un po’ di attenzione, avrei potuto ricominciare con le normali attività. A quella notizia chiamai Marlowe e gli chiesi dei provini. Mi disse che ci sarebbe voluto ancora tutto un giorno per risistemare il set prima di finire le audizioni. Perfetto. Avrei fatto appena in tempo.
“Nathan, ma sei convinto?” mi domandò Stana appena chiusi la chiamata con Andrew.
“Di cosa?” replicai confuso.
“Di voler tornare così presto sul set” rispose con un tono preoccupato. “Possiamo anche fare i provini senza di te. Non sei obbligato a partecipare. Dovresti riposarti…” Le sorrisi.
“Il dottore ha detto che dopodomani potrò tornare operativo” dichiarai allegro. “Quindi non c’è da preoccuparsi! A meno che tu non voglia farmi compagnia anche domani l'altro, allora forse potrei tornare ben più che operativo, ma su tutt’altro set…” aggiunsi con un sorriso furbo. Ancora una volta mi chiesi da solo se fossero le pillole a rendermi così ‘loquace’ o fossi davvero io. Alla mia uscita Stana alzò gli occhi al cielo e scosse la testa rassegnata.
“Andiamo, playboy” disse con un sospiro. “È ora di andare a casa.”
 
Stana mi riportò al mio appartamento con la sua auto. Mi accompagnò fino in casa, controllando che fossi stabile sui piedi e che non avessi troppo dolore alla testa nel camminare. Un po’ mi faceva male. Sentivo il taglio tirare e i punti mi sembravano chiodi infilati nel capo. Ma questo perché l’effetto dell’antidolorifico stava svanendo. Appena entrato in casa, lascia la porta aperta per Stana e andai direttamente in cucina per recuperare un bicchier d’acqua con cui buttare giù la capsula gialla per il dolore. Quando tornai da lei in soggiorno, si stava guardando intorno curiosa e forse un po’ stupita.
“Sai, lo immaginavo un po’ diverso il tuo appartamento…” mi confessò con gli occhi rivolti a una delle foto appese al muro. Era un’istantanea di me e mio fratello, sorridenti e in sella a due bici nuove di zecca in mezzo alla neve. Ricordavo quel giorno. Era il giorno di Natale e avevo undici anni.
“Ti aspettavi una serie di poster e quadri con donne nude e navi spaziali per caso?” domandai ridacchiando. Fece un mezzo sorriso colpevole.
“Forse…” rispose con una mezza alzata di spalle imbarazzata. Tornò a osservare la foto e le altre vicine appese alla parete. Rappresentavano non solo mio fratello, ma anche i miei genitori e alcuni dei miei più cari amici. Le persone che amavo. A un tratto mi chiesi se avessi potuto farle una foto. Magari una insieme. “Ma preferisco decisamente questa versione del tuo appartamento” concluse Stana con un sorriso riportandomi alla realtà.
Le mostrai la casa e poi le chiesi se volesse qualcosa da bere. Scosse la testa.
“Allora, mi rimbocchi tu le coperte dopo?” chiesi ancora una volta, stavolta a voce più bassa, avvicinandomi a lei così da lasciare ben poco spazio tra di noi. Di nuovo non sapevo se fossero le pillole a parlare e agire per me. Ma questa volta non le avrei certo fermate.
“No” rispose Stana divertita posandomi una mano sul petto e spingendomi lontano da lei. Misi il broncio e riprovai ad avvicinarmi. Ancora una volta il suo braccio ci separò. Sbuffai sonoramente. Stavo per tentare un ulteriore approccio quando il campanello suonò. Ma perché cazzo la gente non si faceva gli affari propri e lasciava campare gli altri in pace??
Stana sgusciò subito via da me ridacchiando per la mia faccia evidentemente scocciata. Aprì la porta e ci ritrovammo sull’uscio Huertas. Che diavolo voleva? E perché aveva quel borsone??
Jon ci salutò e fece un paio di passi dentro casa, posando il borsone nero per terra accanto a lui.
“Allora, come sta il nostro ferito?” domandò squadrandomi.
“Meglio…” replicò Stana con un mezzo sorriso. “Sta attento però che è in vena di coccole stasera e vuole qualcuno che gli rimbocchi le coperte.” Jon sgranò gli occhi e mi guardò male.
“Se speri che ti rimbocchi qualsiasi cosa, io e te abbiamo chiuso!” dichiarò deciso con una faccia schifata. Un momento, ma… allora… oh, no. No!
“Ma… ma…” balbettai passando lo sguardo da Stana a Jon. “Ma io credevo che saresti rimasta tu!!” mugolai. Ammetto che non riuscii a nascondere la nota di disperazione nella mia voce. Decisamente quelle pillole avevano un po’ troppo effetto. Ed erano anche leggere!
Stana scosse la testa.
“No. Per stasera avrai la tua guardia del corpo personale, caro signor Fillion” replicò lei ridacchiando.
“Ehi, amico, neanche io salto di gioia” commentò Jon prendendo confidenza con la casa e andando ad allungarsi sul divano. “Ah, ottimo hai l’X-box!” aggiunse allegro iniziando a dare un’occhiata ai miei giochi. Mi voltai di nuovo verso Stana e sfoggiai il mio sguardo da cucciolo.
“Non fare quella faccia, Nath” disse la mia partner scuotendo la testa come se non l’avesse neanche visto. Cavolo, le pillole dovevano aver influito sulla sua efficacia! “Vedrai che vi divertirete.” Sbuffai.
“Mi sarei divertito di più con te…” borbottai. Stana ridacchiò e alzò gli occhi al cielo. Poi si avvicinò e, senza preavviso, mi lasciò un bacio sulla guancia. Rimasi imbambolato a guardarla.
“Riposati, Nathan” mi disse con fare materno. “Ora devo andare. Domani poi passo a trovarti. Buonanotte.” Detto questo mi fece un ultimo sorriso, salutò velocemente Jon e uscì dal mio appartamento. E io ero ancora incantato a fissare il punto in cui fino a un secondo prima c’era lei.
“Ehi, amico, ti va una partita a Call of Duty??” esclamò eccitato Huertas con il cd in mano e già pronto all’uso. Scossi la testa per riprendermi. Quindi annuii con un mezzo sospiro e mi tuffati con lui sul divano per un po’ di sano videogioco.
 
Jon e io passammo la serata ai videogiochi e andammo a dormire che era quasi mezzanotte. Lui si accucciò con una coperta e un cuscino sul divano, mentre io andai a infilarmi nel mio letto. Guardai con un sospiro la parte vuota del materasso. Nella mia follia da pillole, ero praticamente certo che se ci fosse stata Stana e non Huertas, sicuramente quella parte di letto sarebbe stata riempita. Ero in cerca di coccole, ma di certo non le volevo dall’ex-soldato in salone.
Ci misi un po’ad addormentarmi. Infatti mi ci volle tempo per trovare una posizione che non mi premesse sulla ferita. Alla fine, dopo quasi mezz’ora, capii che stare a pancia in sotto era la mia unica soluzione. Mi girai e con sollievo attesi il sonno.
Il mattino dopo mi svegliai con una smorfia di dolore. La testa mi faceva ancora malissimo. Mi alzai e presi subito una cara pillolina gialla. Uscendo dalla mia stanza, trovai Jon già in piedi e con una tazza di latte davanti.
Dopo colazione la mattinata passò più che altro tra gli amici in visita. Venne a trovarmi persino Josh insieme ai due figli piccoli, Nick e Phoebe. La cosa positiva fu che per un po’ ebbi altri due compagni di videogiochi. Jon mi aveva stracciato troppe volte la sera prima. Dovevo allenarmi per batterlo a tutti i costi.
Verso mezzogiorno suonarono nuovamente alla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti Stana e Tamala. Sorrisi allegro.
“Buongiorno!” esclamai. Mi salutarono entrambe con un sorriso e mi scostai per farle passare.
“Salve, donzelle!” le salutò Jon ridacchiando e andando loro incontro. “Finalmente mi date il cambio e mi portate un po’ via da questo drogato di pillole?” Misi su il broncio.
“Non sono drogato di pillole!” dichiarai offeso con lo stesso tono di un bambino. Tamala ridacchiò e Stana scosse la testa divertita. Poi però la mia partner divenne all’improvviso sospettosa.
“Nathan, quante ne hai prese da stamattina?” mi domandò cauta. Alzai le spalle.
“Mah, 4 credo…” Stana sgranò gli occhi per un momento. Quindi si voltò infuriata verso Jon.
“Ma tu non dovevi controllarlo?? Quante gliene hai fatte prendere??” Quasi gli urlò addosso, uno sguardo omicida negli occhi. Certo che era bellissima anche così. Huertas fece qualche passo indietro, deglutendo preoccupato per la furia della donna. “Doveva prenderne al massimo 2 nell’arco di otto ore!!” urlò ancora Stana.
“Ma… ma… mi ha detto che aveva male…” balbettò Jon. Sembrava più pallido del solito. Ma pensa, un ex-soldato delle forze speciali che si faceva mettere sotto da una ragazzina, come ancora a volte la chiamava. “E poi a me aveva detto di averne prese 2, non 4!” aggiunse alla fine indicandomi e dando la colpa a me. Ci pensai su per un attimo. In effetti non gli avevo detto delle altre due pillole che mi ero inghiottito a mattina appena alzato e poi a metà mattinata. Questa volta lo sguardo assassino di Stana arrivò a me. Deglutii.
“Ops…” mormorai.
“Fila a sederti sul divano!” mi ordinò la mia partner, con una mano sul fianco e l’altra a indicarmi appunto il divano. Il suo tono era chiaramente ancora arrabbiato. “E non azzardarti più a prendere una pillola senza dirlo o ti faccio un altro taglio in testa.” Con la coda tra le gambe e un piccolo broncio feci come mi aveva detto. Davo loro la schiena mentre Stana e Tamala sgridavano Jon. Mi sentivo un bambino messo all’angolo in punizione.
A un certo punto sentii che parlavano del pranzo. Drizzai le orecchie e mi voltai.
“Cinese allora?” domandò Jon rassegnato. Gli avevano appena imposto di andare a prendere il pranzo per tutti e quattro.
“Sì!” replicò Stana con le braccia conserte. “E abbastanza per tutti mi raccomando.”
“Tranquilla, ragazza, a lui lo controllo io!” dichiarò Tamala con gli occhi neri che ancora lanciavano piccoli fulmini all’uomo. Jon recuperò la giacca a testa bassa e insieme si avviarono alla porta. All’ultimo però, Tamala si girò vero la mia partner con un sorrisetto malizioso. “Ah, tesoro, guarda che staremo via una mezz’ora al massimo, quindi evitate di divertirvi troppo nel frattempo…”  Io alzai le sopracciglia, la bocca semiaperta dallo stupore, e guardai Stana. Credo che stesse tentando di bruciare la sua amica viva con lo sguardo.
Ridacchiando, Jon e Tamala uscirono velocemente. Stana chiuse la porta dietro di loro con un sonoro sbuffo. Quindi si voltò verso di me e vide che la fissavo con un sorrisetto.
“Non dire una parola tu…” borbottò la donna andando poi verso la cucina. Io ghignai. Poi mi venne un’idea.
“Stana!” la chiamai con tono lamentoso. “Stana!!” Lei si affacciò dall’altra stanza con un bicchiere d’acqua in mano.
“Che c’è?” chiese sospettosa.
“Guardiamo un film?” chiesi speranzoso. Alzò un sopracciglio.
“Fra mezz’ora quei due torneranno con il pranzo” disse con tono un poco più dolce. “Non faresti in tempo a finirlo.” Aggrottai le sopracciglia e mi feci pensieroso. Dovevo trovare una soluzione a quel problema.
“E se guardiamo solo un po’ di tv?” chiesi ancora con lo stesso tono della prima domanda. Stana ci pensò un momento. Quindi annuì con un sospiro.
“Prima però dobbiamo fare un’altra cosa” disse lanciando un’occhiata all’orologio. La guardai confuso e lei mi indicò la testa. “Devo cambiarti le bende. Il dottor Lyas ha detto di farlo a metà giornata.” Ah, già. Me ne ero dimenticato. Alzai appena le spalle e annuii. Mi chiese dove fosse l’occorrente per l’operazione e io le indicai il bagno. Prima che potesse uscire dal salone però mi venne in mente una cosa e la richiamai.
“Stana?” Si voltò di nuovo verso di me. “Posso togliermi la maglia?” La vidi arrossire istantaneamente. Una piccola parte del mio cervello, quella non dolorante, esultò.
“Perché devi toglierti la maglia??” domandò a sua volta sorpresa e imbarazzata.
“Perché così non rischio di sporcarla con il sangue” spiegai come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Lei alzò un sopracciglio.
“Nathan, la tua ferita non sanguina più” replicò.
“Ma è la mia maglietta preferita!” mi lamentai subito. In realtà era una vecchia maglia blu che usavo per dormire, ma ci tenevo davvero. “Posso togliermela?” la implorai ancora.
“No, non puoi” dichiarò convinta la mia partner.
“Perché no??” mugolai.
“Perché è una richiesta senza senso!” replicò irritata.
“Per me ha senso! Non voglio rovinarla! Allora posso toglierla??”
“No!”
Ci guardammo in cagnesco per qualche secondo. Lei con le braccia incrociate al petto e quell’adorabile rughetta tra le sopracciglia. Io con il mio broncio e il mio sguardo da cucciolo ferito.
Attesi dieci secondi. Quindi attaccai di nuovo.
“Posso togliermi la maglia?” domandai ancora col chiaro tono di un bambino che sarebbe andato avanti in eterno con la sua richiesta. Stana sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo.
“Uff!! Fa come vuoi! Io vado a prenderti le bende pulite!” dichiarò seccata. Quindi si girò e andò dritta verso il bagno con passo deciso e decisamente irritato. Sogghignai sotto i baffi.
Lentamente, per non toccarmi la testa, mi tolsi la maglietta e la abbandonai su un bracciolo del divano, rimanendo a petto nudo e pantaloni della tuta.
Attesi qualche momento e finalmente Stana riapparve dal bagno con delle bende pulite, un sacchetto di plastica per buttare quelle sporche e cotone e disinfettante per pulire la ferita. Si avvicinò a me senza sollevare gli occhi dalla roba che aveva in mano per paura che le cadesse. Alzò lo sguardo solo quando si fermò davanti a me. La vidi immobilizzarsi. Diventò rossa e la bocca le rimase semiaperta, come se avesse voluto dire qualcosa, ma fosse stata distratta. A occhio e croce stava constatando che la “pancia” che mi sfottevano sempre era alquanto ridotta. E che in fondo, anche se non ero proprio palestrato, non ero per niente messo male.
“Vedi qualcosa che ti interessa, Katic?” domandai con un sorrisetto furbo. Lei sbatté le palpebre e si riprese scuotendo la testa. La vidi mordersi il labbro inferiore mentre appoggiava i vari oggetti, che ancora aveva in mano, sul tavolino davanti al divano. Se possibile il mio sorriso si allargò.
“Non fare quella faccia, Fillion” ribatté lei irritata. “Piuttosto, mettiti in una posizione in cui posso raggiungere il tuo testone.” Feci una mezza smorfia, ma mi sistemai meglio sul divano. Mi misi sul bordo e allargai le gambe. Il modo migliore per rifasciarmi era stare in piedi davanti a me. E lo sapeva anche lei perché mi guardò per un momento arrossendo di nuovo. Poi però prese un respiro profondo e si posizionò esattamente tra le mie gambe. I miei occhi erano all’altezza della sua pancia. Quella pancia morbida e calda che qualche tempo primo avevo avuto modo di sfiorare, toccare e massaggiare.
All’improvviso sentii le mani di Stana sulla mia testa che delicatamente iniziavano a sbendarmi. Rimasi fermo per non darle fastidio. Intanto, senza accorgermene, iniziai a fantasticare sulla donna in piedi davanti a me. Era così vicina che avrei potuto allungarmi di poco, alzarle appena la maglia e baciarle l’ombelico. Avrei risentito la sua pelle liscia sotto le mie dita e assaporata sulle mie labbra. Con la lingua avrei tracciato dei segni invisibili sulla pelle della sua pancia e poi sarei sceso fino a…
“Ahi!!” esclamai ritirando per istinto la testa fra le spalle e facendo una smorfia di dolore. Stana doveva aver appena tolto del tutto la benda perché sentivo l’aria fresca dell’ambiente al posto del caldo fastidioso della garza. Solo che nel levarla doveva aver toccato inavvertitamente uno dei punti.
“Scusa, scusa” disse subito preoccupata prendendomi il viso tra le mani e iniziando a carezzarlo piano. “Non l’ho fatto apposta, mi dispiace” aggiunse seriamente dispiaciuta. Io rimasi immobile per qualche secondo, per permettere al dolore di scivolare via, quindi mi rilassai.
“Non importa, tranquilla” dissi per rassicurarla. “Non… non mi hai fatto male” mentii. Lei ovviamente lo capì. Scosse appena la testa, mortificata, e si girò per buttare le bende nel sacchetto che aveva preso. Quindi recuperò cotone e disinfettante. Deglutii. Sapevo che non sarebbe stato piacevole.
“Cercherò di fare il più piano possibile, ok?” disse dolcemente vedendo il mio sguardo agitato. Annuii piano e presi un respiro profondo. Strinsi i denti non appena la sentii riavvicinarsi ancora a me. Quindi il contatto con il freddo e doloroso liquido sul cotone. Mi sfuggì un gemito di dolore e mi aggrappai alla prima cosa che mi trovai davanti: le sue gambe. Non ebbi tempo di realizzare cosa avevo fatto perché il male non mi permetteva di pensare. Bruciava tanto che pensavo di avere un pezzo di carbone acceso sulla testa. Sentii Stana mormorarmi qualche parola di conforto, mentre cercava di fare il più velocemente possibile senza farmi troppo male.
Alla fine, dopo qualche minuto, la tortura finì. Stremato, lasciai che Stana mi bendasse di nuovo delicatamente la testa. Quindi chinai il capo in avanti e lo appoggiai alla sua pancia respirando forte, una smorfia in volto. Percepii le sue mani accarezzarmi le spalle e il collo mentre attendevamo insieme che la crisi mi passasse. Finalmente ripresi a respirare normalmente e alzai la testa. Mi resi finalmente conto di dov’ero e di dov’erano le mie mani. Senza spostarle, alzai lo sguardo su di lei e vidi che mi osservava. Era preoccupata, ma sembrava anche in attesa. In attesa di cosa? Di me? Di una mia mossa?
“Grazie…” mormorai. Lei mi sorrise dolcemente. A quel punto mi alzai, senza però farla spostare. Mi ritrovai in piedi davanti a lei, i nostri petti praticamente attaccati. Le mie mani dalle sue gambe erano passate lentamente ai suoi fianchi, sfiorando il tessuto dei pantaloni e della maglia nel loro passaggio. La sentii rabbrividire sotto il mio tocco. Mi guardò con gli occhi spalancati. Sembrava spaventata e speranzosa insieme. Per conto mio, c’era una sola cosa che volevo fare in quel momento. Che fossero le pillole a spingermi o cosa non mi importò. Iniziai ad abbassarmi verso di lei. Sentii il suo respiro caldo sulla mia pelle e mi persi.
Ci pensò il campanello a farci tornare entrambi con i piedi per terra con un sobbalzo. Iniziai a chiedermi se per stare un poco tranquillo in compagnia di Stana avrei dovuto ritirarmi con lei in un eremo o in qualche sperduto posto del pianeta. Chissà se preferiva l’Everest o una qualche isola tropicale? Sperai l’isola. Più parti di pelle scoperte.
La mia partner poggiò una mano sul mio petto nudo per spostarmi un poco e per un momento sentii un brivido attraversarmi. Poi lei si staccò e andò ad aprire. Avevo come l’impressione che sul suo viso ci fosse uno sguardo irritato tanto quanto il mio. O era uno scherzo delle pillole e del dolore appena subito?
“Ehilà, siamo tornati!” ci salutò Tamala con un sorriso e una busta in mano, seguita subito da Jon con altri due sacchetti. Stana cercò di sorridere a sua volta. Io non ci provai neppure.
“Tutto bene?” domandò Jon, bloccandosi a metà sulla porta vedendo il mio sguardo omicida. Poi notò che ero senza maglia. “Cavolo, Tam, qui mi sa che abbiamo interrotto qualcosa…” A quel punto anche la donna si girò verso me e rimase a bocca aperta.
“Usciamo di nuovo!” esclamò immediatamente, appena si riprese, tirandosi dietro per un braccio Jon, che la guardò come se fosse impazzita.
“Dove pensate di andare?” domandò Stana con un sopracciglio alzato. Il suo tono era chiaramente del tipo ‘ormai la frittata è fatta quindi è inutile cercare di porvi rimedio’.
“Uhm… forse… abbiamo dimenticato qualcosa al ristorante” inventò chiaramente Tamala sul momento. “Vero, Jon?”
“Che abbiamo dimenticato?” domandò l’uomo preoccupato, infilando il naso nei sacchetti che aveva in mano, non avendo inteso il senso delle parole della sua collega. Lei infatti lo fulminò con lo sguardo e solo allora lui capì. “Oh… Oh! Certo, giusto! Abbiamo dimenticato… ecco…”
“Entrate e basta, prima che stabilisca io che cosa avete dimenticato e decida di cacciarvi a calci…” mi intromisi io sbuffando e recuperando la mia maglietta per rinfilarmela. “… per il vostro decisamente pessimo tempismo” aggiunsi borbottando sottovoce in modo che nessuno mi sentisse.
“E comunque gli stavo solo cambiando le bende” si giustificò Stana, un po’ rossa in volto, mentre chiudeva la porta dietro ai due.
“Senza maglia?” chiese scettica Tamala.
“Non volevo che si sporcasse” replicai io per lei. La donna cercò ancora di protestare, ma Stana la anticipò.
“Perché ora non mangiamo, prima che si freddi tutto?” domandò velocemente prendendo le buste dalle mani dell’amica e di Jon e andandole a posare sul tavolo in cucina. I due non aggiunsero altro. Notai solo Tamala lanciare un’occhiata alla mia partner che diceva chiaramente ‘ne parliamo più tardi’.
 
Passai il resto del pomeriggio con Stana, Tamala e Jon. Ricevetti altre visite, tra cui quella di Molly appena uscita da scuola, ma furono per lo più loro a farmi compagnia e a controllarmi. La mia partner mi sorvegliò a vista e mi concesse di prendere un’altra pillola antidolorifica solo verso sera. Cenammo insieme, ma di nuovo passai la nottata solo con Jon in casa.
Il mattino dopo mi sentivo già meglio. Presi una pillola per sicurezza, ma la testa non mi pulsava quasi più, anche se sentivo ancora male nella zona del taglio.
Dopo colazione Jon e io ci dirigemmo agli studios in taxi. La mia auto era ancora lì, ma Stana, Tamala e Jon avevano già deciso che, finiti i provini, qualcuno mi avrebbe portato con la mia macchina prima in ospedale per il controllo e poi mi avrebbe riaccompagnato a casa.
Appena entrammo sul set, notai che diversi pannelli-pareti del distretto avevano cambiato leggermente posizione. Dovevano aver finito di rimetterli tutti a posto e stavolta in modo corretto. Appena mi videro, tutti i presenti, sia tecnici che produttori che attori, mi salutarono con un applauso come se fossi un soldato appena tornato dal fronte con una ferita di guerra. Sorrisi e ricambiai la loro ovazione scherzando. Molti di loro erano venuti a trovarmi il giorno prima per portare notizie delle mie condizioni agli altri. Tra la folla notai subito il sorriso di Stana.
Marlowe si fece avanti e, dopo essersi sincerato delle mie condizioni, mi chiese se me la sentivo davvero di partecipare ai provini. Risposi affermativamente senza esitazione.
Dieci minuti dopo io e Stana eravamo di nuovo sul set come prima del terremoto a rivedere le battute. Mancavano solo gli ultimi otto candidati quindi non sarebbe stata una cosa lunga per fortuna. Anche perché comunque il medico mi aveva detto non affaticarmi.
Il primo a entrare fu lo stesso uomo di colore che avevamo visto appena prima del terremoto. Porse il suo curriculum a Andrew e si presentò come Ruben Santiago-Hudson, 51 anni. Sentii che era non solo attore, ma anche sceneggiatore teatrale e che aveva al suo attivo pure qualche premio. Una volta conclusa la sua presentazione, Bowman gli diede un copione e lo mandò da me e Stana. Lui ci salutò con un sorriso affabile e subito mi chiese come stavo. Sembrava una brava persona. Chiacchierammo per un poco e leggemmo insieme le battute. Pareva molto disponibile e socievole.
Dopo qualche minuto Marlowe ci domandò se potevamo cominciare. Noi eravamo pronti, quindi partimmo. La prima scena, in cui Montgomery imponeva a Beckett di tenere Castle al distretto, fu fantastica. Ruben riuscì a mantenere una faccia completamente seria anche durante il botta e risposta con Stana. Fu esilarante.
“Sir, can I talk to you for a minute? In private?”
“Nope.”

A quel punto scoppia a ridere per la sua faccia da poker e per quella scioccata di Kate. Non potei farne a meno. Forse erano le pillole… boh.
La scena successiva era quella in cui parlavamo di un caso davanti alla lavagna bianca, ancora con foto e scritte di due giorni prima. Stavolta partecipò anche Jon. Ruben fu molto professionale. Ricordava bene i termini e sembrava prendere davvero a cuore il caso della vittima. L’ultima scena riguardava solo il capitano e la detective. Per certi versi era anche la più difficile perché doveva essere severo e paterno allo stesso tempo. Devo dire che ci riuscì perfettamente. Le parlò come se fosse sua figlia, ma allo stesso tempo le ordinò di prendersi una pausa dal caso che la stava coinvolgendo troppo. Non si avvicinò mai a lei, ognuno sapeva qual’era il suo posto al distretto, ma sembrava quasi che con le sue parole volesse abbracciarla e confortarla. Fu una scena davvero bella.
Dopo Ruben sentimmo gli ultimi candidati rimasti. Nessuno però mi colpì come aveva fatto lui.
Quando terminammo, un’ora più tardi, mi sentivo affaticato e avevo male alla testa. Non volevo perdermi però l’adunata finale per decidere chi sarebbe diventato Roy Montgomery. Andrew ci riunì e iniziammo a discutere. Il nome di Ruben saltò fuori ben presto. Oltre a lui, solo un altro paio di persone avremmo visto bene nelle vesti di capitano. Ci fu un breve dibattito in cui sia io, che Stana che Jon portammo avanti il suo nome. Era piaciuto a tutti e tre. Dopo venti minuti esultammo felici. Il nostro uomo era stato scelto. Ruben Santiago-Hudson era appena diventato il capitano Roy Montgomery del dodicesimo distretto di New York.

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Xiao!! :D
Scusatemi per l'atroce ritardo!! D'ora in poi vado dritto filato con sta storia, giuro! XD
Allora beh, eccoci arrivati al nostro adorato capitano! X) il prossimo personaggio credo sarà piuttosto facile da capire... XD
Un grazie enorme alle mie due consulenti-compagne di stanza Katia e Sofia!! Siete grandi ragazze e vi adoro!! <3<3
Boh, è tardi e non so che altro dire... XD Spero solo vi sia piaciuto il capitolo! :)
A presto!! :D
Lanie

ps:prima che mi dimentichi... volevo dirvi che le informazioni che uso sui personaggi sono più o meno tutte reali... l'unico personaggio "parente" che mi sono inventata è stato il piccolo Flynn nipote di Nathan perché ho scoperto solo dopo che aveva 2 nipoti femmine... X) Per gli altri sono veri! (del tipo, ma voi lo sapevate che Susan era sposata??? O.O)
Va beh, la smetto di farneticare che è tardi! XD 
Ciauuu!!
pps: buon Castle Monday!! :D:D
  
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