EPILOGO
“When I see my face in the mirror,
we look so alike that it makes me shiver…
I still look for your face in the crowd,
oh if you could see me now
Would you stand in disgrace or take a bow?
Oh if you could see me now…”
(If you could see me now – The Script)
Grace
rotolò nel letto alla ricerca del corpo caldo di Tom, ma
quando sentì il materasso freddo e le lenzuola stropicciate
si ricordò che quella mattina era uscito presto
perché aveva del lavoro da sbrigare con il team della band,
impegnato ad organizzare il tour mondiale.
«Magari seguiremo la sua vita da rockstar quando ci saranno
dei concerti qui negli Stati Uniti», bisbigliò
dolcemente, sorridendo verso il soffitto ed accarezzandosi il ventre
ancora piatto con le dita della mano sinistra.
Lei e Tom ne avevano parlato a lungo. Entrambi sapevano che tutti
quelli che li conoscevano li avrebbero presi per pazzi: insomma, era
passato solo un anno dal loro primo incontro e già volevano
prendersi quelle responsabilità!? Beh, sì, lo
volevano.
Sapevano anche che quello non sarebbe stato il momento ideale per avere
un figlio, ma Grace era convinta e determinata più che mai a
voler vivere le gioie e i dolori della maternità e lui non
aveva saputo dirle di no, contando sul fatto che in nove mesi il tour
sarebbe bello che concluso e avrebbe potuto starle vicino almeno per
l’ultimo periodo, quando la sua pancia avrebbe assunto le
dimensioni di un pallone da basket.
Così si erano dati da fare, in quei mesi che susseguivano il
suo ritorno a Los Angeles, e da circa una settimana aveva scoperto che
avevano fatto centro: avrebbero avuto il loro bambino, sarebbero
diventati genitori, e l’amore che provava per
quell’esserino ancora piccolo come la capocchia di uno spillo
era già immenso, tanto da farle scoppiare il cuore di gioia
ogni volta che ci pensava. Non stava più nella pelle al
pensiero di vederlo – o vederla
– con i suoi occhi, di cullarlo tra le braccia mentre cercava
il suo seno, di essere svegliata a tutte le ore della notte dai suoi
striduli vagiti, di perdersi nei suoi occhi blu scuro che poi forse
– lo sperava così tanto! – sarebbero
diventati verdi come i suoi, come quelli di suo padre, senza nulla
togliere alla bellezza del nocciola degli occhi di Tom.
«O magari anche in Europa! Mi piacerebbe vedere Roma, Vienna,
Parigi, Madrid… Che ne dici?».
Scese dal letto posando entrambi i piedi sul pavimento lucido e senza
togliere la mano sinistra dal ventre si diresse verso il bagno, lo
stesso bagno dove, dopo aver fatto per l’ennesima volta il
conto dei giorni di ritardo del ciclo, aveva fatto il test e aveva
scoperto di essere incinta.
Non aveva ancora trovato il momento adatto per dirlo a Tom, anche se a
volte era stata lì lì per annunciargli la lieta
novella e altre volte aveva avuto come la sensazione che lui sapesse,
che glielo avesse letto negli occhi, o tra le labbra incurvate
all’insù in un sorriso estasiato, che gli
nascondeva qualcosa di bello.
Da un lato ardeva di impazienza e fremeva al solo pensiero di
pronunciare quelle parole: le ripeteva per ore nella sua mente,
pregustandone il sapore dolce e allo stesso tempo salato a causa delle
lacrime di felicità che le avrebbero solcato le guance.
Tom,
aspetto un bambino. Tom, aspetto un bambino. Tom, aspetto un
bambino…
Dall’altro
amava custodire quel segreto, come se fosse la prima delle tante
sorprese che in futuro lei e suo figlio avrebbero organizzato per lui,
magari per il suo compleanno, per il suo onomastico oppure per la festa
del papà.
Scese in salotto ed accese la TV giusto per non sentirsi sola in quella
villa troppo grande per una persona sola. Quindi entrò in
cucina e si versò un po’ di caffè in
una tazza di ceramica, quella che era diventata ufficialmente la sua
tazza da circa due mesi, cioè da quando era stata convinta a
trasferirsi a casa dei gemelli.
All’inizio la proposta che le avevano fatto di andare a
vivere con loro due le era sembrata una cosa impensabile,
perché nel suo ideale di famiglia, per quanto avesse potuto
beneficiarne, c’erano un uomo, una donna e poi i loro
pargoletti. In realtà prima di allora non aveva mai preso in
considerazione la possibilità che lei e Tom potessero
convivere, lei e lui da soli, ma le sembrava sicuramente la cosa
più ragionevole, più normale,
in confronto alla prospettiva di vivere con Bill e praticamente anche
con Dylan, dato che raramente, proprio come lei aveva fatto prima di
trasferirsi, tornava al suo appartamento.
Alla fine però aveva realizzato che i due gemelli non
avevano ancora alcuna intenzione, per il momento, di smettere di
condividere tutte le ventiquattro ore del giorno e aveva accettato.
In poco tempo era riuscita a dare in affitto ad una giovane coppia (che
coincidenza) il suo appartamento, da cui aveva portato via solo i suoi
oggetti personali e la lampada posata sul suo comodino, a cui era
affezionata, e aveva traslocato nella stanza di Tom, il quale le aveva
pure fatto posto nel suo armadio strapieno di vestiti, promettendole
che ne avrebbero comprato uno più grande quanto prima.
Un giorno, non molto tempo dopo, erano andati in un negozio di
arredamento e avevano fatto la loro scelta, insieme. Uscita dal
negozio, Grace non aveva mai lasciato la mano di Tom e lo aveva
osservato di profilo, pensando che un giorno, prima o poi, avrebbero
fatto la stessa cosa per riempire la loro casa.
Tutto sommato però non le dispiaceva condividere quei grandi
spazi con altre due persone, a cui peraltro voleva così
tanto bene, e si era abituata presto, felice di poter sempre parlare,
ridere, scherzare o litigare con qualcuno. Tranne quando tutti erano a
lavorare e lei si trovava sola in casa, indecisa se saccheggiare la
libreria cinematografica di Bill e Tom oppure pulire i pavimenti, da
brava donna di casa.
Attualmente poteva “vantarsi” di essere un numerino
nelle preoccupanti statistiche sui disoccupati negli Stati Uniti e allo
stesso tempo di vivere nell’agiatezza della donna mantenuta.
Non che questo la rendesse felice, anzi: ogni volta che ci pensava si
diceva che doveva cercarsi un lavoro per contribuire alle spese della
loro famiglia allargata, anche se per ora poteva ancora usufruire della
piccola somma (perché ventimila dollari erano una piccolezza
per lui) che il magnate della finanza Mr. McNab le aveva versato sul
conto in banca come ringraziamento per aver reso giustizia al padre del
suo caro nipote.
Aveva deciso di lasciare per sempre il mondo delle investigazioni e
aveva messo in vendita quello che prima di diventare suo era stato
l’ufficio di suo padre, dove aveva esercitato la sua
professione fino alla morte. Non poteva più condividere con
lui quel mondo fatto di violenza, col rischio di finire in un circolo
vizioso simile a quello che l’aveva quasi disintegrata, tanto
che aveva sentito l’esigenza di staccarsene con un taglio
netto, come un neonato viene separato dalla madre con una sola
sforbiciata al cordone ombelicale.
Proprio per quel motivo aveva rifiutato la succulenta offerta che
Michael Crawford le aveva fatto, un’offerta che forse un
tempo non avrebbe esitato ad accettare.
Dopo aver fatto colazione osservando il frigorifero tappezzato da tutte
le belle cartoline che Tom, nonostante tutto, le aveva portato dal tour
promozionale dei Tokio Hotel, optò per fare un po’
di ordine in casa.
Iniziò dalle camere da letto, cambiando le lenzuola e
raccogliendo i vestiti da lavare che non le avrebbero tolto tante
energie, se solo i gemelli li avessero ficcati subito nel cesto in
bagno invece di lasciarli sparsi qua e là, come a marcare il
loro territorio. Fece partire la lavatrice e poi, visto che il braccio
destro intorpidito iniziava a darle qualche fastidio, in salotto decise
soltanto di passare l’aspirapolvere sul tappeto pieno di
briciole di ogni tipo e di sistemare i cuscini sui divani.
Una volta finito, col viso un po’ arrossato per il caldo e i
capelli sfuggiti alla coda che le sfioravano le guance, si
lasciò cadere sulla morbida pelle di uno di essi e
sospirò, accarezzandosi il braccio attraversato da piccole
scosse.
La paralisi non era del tutto guarita, come non era tornato ad essere
completamente sensibile: in particolare, continuava a non avvertire
alcun dolore, e forse non ne avrebbe mai più sentito, nei
punti in cui i denti del rottweiler erano entrati in
profondità nella carne. Doveva ammettere però che
col tempo il suo braccio aveva dato segni di miglioramento, muovendosi
prima meccanicamente, quasi a sobbalzi, poi in modo leggermente
più fluido, tanto da permetterle di chiudere e di aprire le
dita della mano a suo piacimento.
C’erano giorni in cui riusciva a muoverlo a malapena e lo
sentiva pesante come piombo lungo il fianco; altri in cui, invece, lo
muoveva senza molti sforzi, anche se in modo limitato a causa dei
formicolii o della debolezza dei muscoli.
Sorrise, pensando alla sera in cui per la prima volta aveva sentito
qualcosa correrle sulla pelle, una specie di brivido, quando Tom
l’aveva accarezzato con dolcezza, quasi soprappensiero.
Era sobbalzata sul divano, facendo spaventare sia lui che Dylan,
sedutosi al suo fianco quando Bill si era alzato per andare a prendere
un pacchetto di patatine in cucina, e aveva gridato, con un misto di
gioia e di sconcerto nella voce: «Ho sentito qualcosa! Tom,
fallo di nuovo, ho sentito qualcosa!».
Il chitarrista l’aveva accontentata non osando chiederle
niente e Grace aveva chiuso gli occhi, avvertendo di nuovo quel
formicolio sulla pelle mentre percepiva, anche se in modo molto lieve,
la callosità dei suoi polpastrelli.
La fede che i dottori l’avevano pregata di avere
nell’attesa quella sera si era accesa nel suo cuore e per la
prima volta aveva sperato sul serio che un giorno potesse tornare a
muovere entrambe le braccia e le mani in modo se non uguale almeno
simile, nonostante si fosse ormai abituata ad utilizzare la mano
sinistra per qualsiasi cosa. Aveva persino imparato a scrivere da
mancina!
Lo squillo del telefono la fece tornare alla realtà e si
alzò per raggiungere il cordless posato sull’isola
della cucina.
«Pronto?».
«Grace, tesoro, ciao».
«Ciao mamma! Tutto bene?».
«Sì, benissimo. Tu piuttosto, come stai? Mangi
regolarmente? Bevi tanta acqua? È importante, sai? Ora che
siete in due…».
«Sì, mamma, lo so e faccio del mio
meglio», rispose, ridacchiando delle sue premurose e a volte
anche un po’ assillanti raccomandazioni. Ma non poteva fare
altrimenti, Nonna Melanie, già in apprensione e decisa a
fare di tutto perché il suo nipotino nascesse sano e forte.
Se fino a quel momento era riuscita a mantenere il segreto con Tom, con
sua mamma non ne era stata in grado, forse perché non aveva
fatto abbastanza attenzione o forse semplicemente perché una
figlia non può nascondere nulla agli occhi della propria
madre.
L’aveva smascherata subito: il tempo di farla entrare in casa
e di versarle un bicchiere di tè freddo e l’aveva
costretta a confessare, tra gridolini, lacrime di gioia e la promessa
che non avrebbe rivelato il suo segreto a nessuno, nemmeno a Lionel.
Da quando il caso era stato chiuso l’ex-marine non correva
più alcun pericolo. Con sua grande soddisfazione era uscito
dal Programma Protezione Testimoni dell’FBI e aveva cercato
di riprendere in mano la sua vita, ora che anche lui poteva ritenersi
soddisfatto dell’operato della giustizia. Ma era stato
comunque un duro colpo venire a sapere che persino
l’uccisione di sua moglie e di sua figlia era stata
pianificata dall’alto, in modo tale che venissero accusati
due ignari cittadini iracheni caduti in un’orribile trappola
e morti in carcere in modo molto sospetto, tanto da far supporre alle
autorità che erano stati volontariamente uccisi
perché non dicessero la verità.
Era tornato a casa sua, anche se ancora convalescente, e Grace,
sfogando le sue preoccupazioni con la madre – aveva paura
infatti che soffrisse di solitudine e si trovasse in
difficoltà con le piccole cose di ogni giorno –
aveva in qualche modo fatto scattare un processo i cui effetti erano
visibili continuamente, negli occhi luminosi di Lionel o nel sorriso
sereno di Melanie.
La donna da quel giorno si era occupata personalmente di fargli visita
tutte le mattine, per tenergli compagnia oppure per preparargli un
pranzo decente, tanto che alla fine gli aveva proposto di stabilirsi a
casa sua, solo per un po’, fino a quando non si sarebbe
rimesso completamente.
Grace non aveva reagito male, anche se si era trovata un pochino
disorientata nel vedere Lionel gironzolare in casa di sua madre come se
fosse la sua, così tranquillo e felice, e ogni volta,
scrutando di nascosto i loro visi, non sapeva dire se la loro fosse
solo una forte amicizia oppure qualcosa di più. Preferiva
non pensare a Lionel come suo futuro patrigno, le bastava sapere che
stando insieme, contando sulla presenza e il sostegno
dell’altro, riuscivano ad alleviare i dolori del loro passato
tormentato.
«L’hai detto a Tom?».
«Cosa?».
Melanie abbassò la voce ed esclamò:
«Del bambino, cos’altro?».
«Ah, ehm… no, non ancora».
«Ma che cosa stai aspettando, amore? Hai forse paura della
sua reazione?».
«No, no, assolutamente! Abbiamo deciso di volerlo insieme,
non è venuto per caso».
«E allora…?».
«È che voglio che sia indimenticabile!».
Melanie rise in modo genuino. «Oh, tesoro, come se si potesse
dimenticare una cosa del genere!».
Grace sorrise ed ammise che dopotutto aveva ragione: nessun padre
avrebbe dovuto dimenticare il momento in cui aveva saputo che entro
nove mesi avrebbe visto suo figlio.
«Facciamo così», disse ancora.
«Siete tutti invitati a cena, questa sera. Sarà
l’occasione perfetta!».
«Okay, allora…».
«Vedrai, Grace, sarà entusiasta! Adesso convinco
Lionel ad accompagnarmi a fare la spesa, preparerò una
cenetta coi fiocchi! Ah, invita anche Molly, mi raccomando!».
Grace non poté far altro che sorridere, col cuore leggero
come una piuma, all’entusiasmo travolgente di sua madre.
Erano anni che non la sentiva così felice ed era un vero
piacere sapere di esserne una delle motivazioni.
Una volta terminata la chiamata con sua madre si trovò a
tremare d’emozione e dovette sforzarsi per tenere a bada
tutta la sfilza di sentimenti positivi di cui si sentiva colma fino
all’orlo, tanto da rischiare di scoppiare da un momento
all’altro.
Si portò una mano sul ventre e per l’ennesima
volta lo accarezzò dolcemente, sussurrando parole
d’amore al suo piccolo grande tesoro.
***
«Wow, come
sei elegante!».
Tom si voltò verso le scale e seguì lo sguardo di
Bill fino a posare gli occhi sulla figura aggraziata di Grace:
indossava un abitino di raso grigio perla, dalle linee pulite e con
un’arricciatura sul fianco destro – il regalo di
bentornata a casa e di pronta guarigione da parte di Molly e in
generale da tutta la famiglia Delafield.
Grace abbassò lo sguardo e si concentrò sulla
rampa di scale, imbarazzata e sorridente allo stesso tempo.
Quando finalmente tornò a sollevare il viso, Tom rimase
quasi senza fiato vedendo la luce di mille stelle brillare nei suoi
occhi ridenti.
«Andiamo?».
Il chitarrista si limitò ad annuire, incapace di articolare
una frase di senso compiuto, e le offrì il braccio, al quale
la ex-detective si aggrappò con la mano destra, mettendocela
tutta per stringerlo forte.
Salirono tutti e tre sull’Audi di Tom e Grace si
stupì ancora una volta pensando che il suo fuoristrada non
c’era davvero più. Non poteva tenerlo, aveva
troppi anni sulle spalle, o meglio, sul motore, e troppi ricordi legati
a suo padre, a partire da quando gliel’aveva comprato e le
aveva impartito le prime lezioni di guida. In linea con la sua
decisione di staccarsi dal passato, quindi, aveva deciso di rottamarlo
e ora, parcheggiata sulla via parallela al giardino sul retro della
villa, c’era la sua nuova auto da città, con il
lettore CD, l’aria condizionata funzionante e persino il
tettuccio apribile.
In poco tempo raggiunsero la casa di sua madre e con stupore dei
gemelli notarono che anche Melanie si era messa in ghingheri, con un
vestito di cachemir bordeaux, i capelli rossi che le ricadevano spumosi
sul decolté adorno di una collana di perle e un mezzo
sorriso piuttosto enigmatico sul viso, tra l’eccitato e
l’impaziente.
A Tom non sfuggì nemmeno l’occhiata
d’intesa che madre e figlia si scambiarono
sull’uscio di casa, mentre lui e Bill entravano in salotto.
Era certo che gli stessero nascondendo qualcosa e che quella non fosse
una serata come le altre, ma non poteva nemmeno lontanamente immaginare
la sorpresa che gli avevano riservato.
«Ah, mamma, Molly questa sera aveva già un impegno
e quindi ci raggiungerà più tardi. Ha detto che
porta il dolce».
Melanie unì le mani di fronte al petto. «Quella
ragazza è un angelo! Sa quanto mi piacciono i dolci di
quella pasticceria e ogni volta ne porta uno diverso!».
Grace annuì ed incrociò per un attimo lo sguardo
indagatore di Tom, rivolgendogliene uno di traverso, mentre gli faceva
una smorfia.
Il chitarrista aprì la bocca in una O di sorpresa ed
inscenò un inseguimento tra le poltrone e il divano in
salotto, dove c’era Lionel intento a guardare alla TV un quiz
a premi.
«Ragazziiiii», li ammonì dolcemente, per
poi sporgere una gamba nel tentativo di fare uno sgambetto a Tom.
«Non lo sai che bisogna sempre darla vinta alle
donne?», aggiunse, ora guardandolo con
un’espressione divertita.
«Oh, lo so meglio di chiunque altro», rispose Tom,
ridacchiando mentre incontrava di nuovo lo sguardo della sua Grace,
ancora tanto luminoso da essere in grado di eclissare la luna.
«Tutti a tavola!», urlò Melanie e Lionel
fu il primo ad alzarsi e a correre in cucina, ormai dipendente dei suoi
manicaretti.
Lionel si sedette a capotavola, alla sua destra Bill e Dylan e alla sua
sinistra Melanie e Grace, mentre Tom si trovava all’altro
estremo del tavolo e guardava in faccia l’ex-marine,
stringendo la mano dell’ex-detective al suo fianco.
Fu una normale cena di famiglia, per quanto la loro famiglia potesse
ritenersi normale; risero e scherzarono per la
maggior parte del tempo, sfruttando le pause per lodare Melanie, una
cuoca squisita.
Il momento clou della serata, però, ebbe inizio soltanto con
l’arrivo di Molly e dell’ormai inconfondibile
confezione della pasticceria di fiducia della famiglia Delafield,
capace di fare piccoli miracoli.
Grace, seduta in salotto accanto a Bill, l’aveva vista
entrare in tutto il suo splendore, avvolta in un abitino a righe stile
navy, con gli occhi luccicanti di felicità e i capelli
biondi e boccolosi che le incorniciavano il viso. Era stata con Aiden
per tutto il pomeriggio, era fin troppo facile capirlo.
Alla fine Molly aveva compiuto la sua scelta: aveva capito che non
avrebbe mai potuto costringerlo a volerla al suo fianco e si era fatta
da parte, per quanto il suo amore per lui non fosse cosa facile da
reprimere. Per un paio di mesi si era accontentata di vederlo a
lezione, di essergli amica quando raramente si fermava al loro tavolo a
mensa; si era fatta bastare gli sguardi fuggevoli che le lanciava dal
suo armadietto in fondo al corridoio. Poi, finalmente, Aiden aveva
ceduto: aveva smesso di imbracciare le armi in quella guerra impari
– l’amore che riservava a Molly contro la sua paura
di non poterle offrire tutto ciò che desiderava –
e si era arreso, conscio che non sarebbe durato a lungo comunque,
vedendo il suo sorriso solare brillare così raramente per
colpa sua. Aveva fatto un piacere a lei, ricambiando il suo affetto, ma
ne aveva fatto anche a se stesso, più di quanto avesse mai
creduto e voluto.
«Grace, te l’ho già detto che quel
vestito ti sta che è una meraviglia?», disse
Molly, baciandole una guancia. «Ora però vorrei
sapere qual è l’evento che dobbiamo
festeggiare».
«Festeggiare?», ripeté Tom, confuso,
guardando prima l’una e poi l’altra.
Molly si coprì la bocca con la mano, chiedendo con gli occhi
se avesse combinato un guaio, ma Grace la rassicurò con un
sorriso affettuoso.
«Lionel, tira fuori lo spumante, presto!»,
bisbigliò Melanie all’uomo, dandogli incessanti
colpetti sulla spalla, costringendolo così ad alzarsi dalla
sua poltrona e a ciabattare verso il frigorifero senza diritto di
replica.
«Che cosa sta succedendo, Grace?»,
domandò ancora Tom, notando che improvvisamente era calato
il silenzio e tutti gli sguardi erano puntati su di lei, in piedi al
suo cospetto.
«Tom, ricordi quando ti ho detto che Michael mi aveva
proposto di diventare un’agente speciale
dell’FBI?».
«Sì, certo», rispose, sollevando un
sopracciglio. «Hai detto che era il tuo sogno sin da bambina,
ma hai rifiutato perché non volevi avere più
nulla a che fare con il crimine».
«È tutto vero, ma temo di averti celato
un’altra motivazione».
«Non volevi trasferirti in Virginia per
l’addestramento?», intervenne Dylan, nervoso.
Grace scosse il capo e socchiuse dolcemente gli occhi, porgendo
entrambe le mani a Tom. Il chitarrista le strinse forte, come se
fossero la sua unica ancora di salvezza durante una tempesta marina.
«In realtà, gli ho detto che non potevo accettare
la sua offerta perché avevo una persona, una persona molto
speciale, a cui pensare e di cui occuparmi».
«Okay, ci rinuncio, non riesco a capirla»,
mormorò Dylan, chino verso Bill, l’unico che
forse, forse, aveva intuito qualcosa.
«Grace…», balbettò Tom, a
disagio.
Allora lei, con tono ancora più dolce, disse:
«Tom, aspetto un bambino».
Di nuovo, il silenzio calò su di loro come una coperta
bagnata, pesante, e il tempo parve fermarsi, cristallizzando tutti
quanti nelle loro ultime espressioni e posizioni.
All’improvviso Tom si alzò e la travolse in un
abbraccio, stringendola forte a sé con una mano tra i suoi
capelli e la bocca vicina al suo orecchio, con la quale
iniziò a sussurrarle ininterrottamente: «Ti amo,
ti amo, ti amo…», mentre la bolla
d’immobilità in cui erano stati tutti rinchiusi
scoppiava e altre voci gioiose, altri rumori scoppiettanti, li
avvolgevano.
Grace, aggrappata alla sua schiena con il solo braccio sinistro,
perché quello destro era tutto un tremito, sbatté
più volte le palpebre per mandare via le lacrime di
commozione, ma non ci riuscì, allora le nascose contro la
sua spalla assieme al suo sorriso intriso d’amore.
Non ci fu bisogno di altre parole, ricevette tutto quello che poteva
desiderare da quell’abbraccio e da quelle parole sussurrate
all’orecchio, dal suono eterno, inattaccabile e puro, tanto
bello da far male al cuore.
«Bill e
Molly si sono ripresi, anche se ci sono voluti due bicchieri di
spumante».
Il chitarrista si voltò e le andò incontro,
accarezzandole le braccia protette dalle maniche del cardigan nero che
sua madre l’aveva costretta ad indossare prima di uscire in
giardino per raggiungerlo.
«Torna dentro, potresti prendere freddo».
Grace sollevò il sopracciglio destro con un sorriso
divertito sulle labbra e alzò lo sguardo verso il cielo
punteggiato di stelle.
«Freddo, in estate?», scrollò il capo.
«Vi ringrazio, siete davvero premurosi, ma non vi sembra di
esagerare un po’?».
Tom arrossì, protetto dal buio della notte rischiarato
soltanto dalla luce della luna e da quella proveniente
dall’interno della casa, che usciva dalle finestre e
disegnava figure sempre nuove sull’erba.
Il suo sguardo fu catturato dalla cenere della sua sigaretta che cadde
ai suoi piedi senza che lui facesse nulla. Si affrettò a
spegnerla nel posacenere sul davanzale, accanto ad una piantina di
gerani.
«Ecco perché da una settimana a questa parte
dicevi di voler smettere di fumare», realizzò
improvvisamente, accennando un sorriso.
Grace annuì stringendosi nelle spalle, poi gli
legò le braccia intorno alla vita, posando il mento contro
il suo sterno.
I suoi occhi erano più luminosi che mai e Tom non
poté che restarne affascinato, muto di fronte alla loro
bellezza.
«È tutto vero», bisbigliò
dolcemente, più a se stessa che a lui. Quindi gli prese una
mano e l’adagiò sul suo ventre ancora piatto,
sopra il raso del vestito. «Spero che sia maschio».
«Anche io», convenne Tom, baciandole la fronte.
«Ma non mi dispiacerebbe nemmeno avere una piccola Grace tra
i piedi».
L’ex-detective ridacchiò e sospirò
sognante, immaginandosi ancora una volta il loro bimbo.
«Se è maschio lo chiameremo Tom Junior?».
Gli tirò un pugnetto sul petto, dandogli dello scemo, e il
chitarrista soffocò una risata sulle sue labbra.
«Però mi piaceva fare l’amore tutte le
sere», le disse ancora, quando si scostò, senza
aver abbandonato quel suo sguardo beffardo e un po’ malizioso.
«Nessuno ci vieta di smettere», lo
rassicurò sogghignando e tornò a baciarlo,
mettendosi in punta di piedi e prendendogli la nuca con la mano
sinistra.
La porta finestra alle loro spalle si aprì di scatto e loro
si separarono, anche se continuarono a restare abbracciati mentre Dylan
allungava il collo nella loro direzione.
«Mi dispiace interrompere la prima riunione da futuri
genitori, ma ora che ci siamo tutti possiamo brindare!
Venite?».
Tom e Grace annuirono e lo seguirono all’interno, dove videro
Michael e Andrew, già con i loro bicchieri di spumante in
mano.
«Michael! Andrew!», esclamò la ragazza,
correndogli incontro per abbracciarli a turno.
Gettò un’occhiata riconoscente a Dylan,
l’unico che avrebbe potuto avvisare l’agente
dell’FBI e l’agente della omicidi, i suoi amici. Il
poliziotto le fece l’occhiolino portandosi due dita alla
fronte, in una specie di saluto militare, nel quale erano racchiuse
tutte le parole e gli auguri che non le avrebbe mai detto a voce.
Quindi tornò a stringere Bill per la vita e a farsi
imboccare.
«Ehi, anche io voglio la torta!»,
protestò, ma nello stesso momento Molly comparve di fronte a
lei e le porse la sua fetta, accompagnata da un bicchiere di spumante
fresco.
Le sorrideva radiosa e un po’ commossa, con gli occhi lucidi
e le guance arrossate. «Non posso credere che voi due siate
giunti fin qui. Ti ricordi quando dicevi di non sopportarlo
più, che volevi smettere di pedinarlo per conto mio? E
adesso guardati, aspetti un bambino e sei bellissima».
Grace le prese il volto tra le mani e le baciò la fronte.
«Grazie, amica mia. Ti devo più di quanto tu possa
immaginare».
Molly tirò su col naso, scuotendo timidamente il capo, e le
passò la torta e il flûte, per poi voltarsi e
raggiungere gli altri nel bel mezzo del salotto.
«Tesoro, vieni!». Sua madre le fece segno di
avvicinarsi e l’ex-detective si strinse tra lei e Tom, il
quale le avvolse le spalle con un braccio.
Melanie sollevò il suo bicchiere di spumante e
guardò la figlia con gli occhi traboccanti
d’orgoglio e d’emozione.
«A Grace, la luce dei miei occhi. Ringrazio il cielo per
avermi dato una figlia come te e sono certa che anche il vostro bambino
sarà fiero di averti come mamma. Tuo padre
sarebbe…», la voce le tremò e Lionel le
accarezzò il braccio, sorreggendola contro il suo fianco.
«A Grace», ripeté l’uomo,
prima di far scontrare i bicchieri e di bere il primo sorso.
«E a Tom», disse poi Dylan, guardandolo di sbieco.
«Un bravo amico e, si spera, un bravo padre».
Bill gli tirò una gomitata nel fianco, sorridendo, e
aggiunse: «Ti voglio bene, fratellone».
Brindarono ancora e ancora, al bambino, maschio o femmina che fosse,
perché la loro fosse una vita felice e piena di salute e
all’amicizia, il legame più forte quando anche
l’amore vacilla. Quando fu il turno di Andrew però
rimasero tutti di stucco, mentre Dylan arrossiva e si passava una mano
sulla nuca.
«A Dylan, alla sua promozione alla omicidi!».
«Come?», esclamò Grace, colpita.
«Io, ecco… Era da un po’ che mi frullava
nella testa, così ho chiesto il trasferimento
e…».
«Ma è fantastico, Dylan! Perché non ci
hai detto niente?».
«Volevo che fosse una cosa certa, prima. L’ho
saputo solo stamattina… E poi non mi sembrava giusto
rovinare la vostra serata per questa
sciocchezza».
Grace gli si parò davanti e per un momento ebbe paura che lo
prendesse a schiaffi, ma poi un sorriso si aprì sul suo viso
luminoso e lo abbracciò, rimproverandolo e facendogli mille
congratulazioni.
Ma fu Bill a sorprendere tutti ancora una volta, perché una
volta che Grace si fosse allontanata gli saltò in braccio e
lo baciò sulle labbra, lì di fronte a tutti,
sotto gli occhi un po’ sconvolti di Lionel e Crawford, quelli
inteneriti di Melanie e Molly e quelli divertiti di Tom e Grace, che a
stento trattenevano le risate.
Ad un tratto l’ex-detective, guardando tutte quelle
meravigliose persone intorno a lei, realizzò quanto fosse
stata fortuna.
Pensò alla sua vita prima che Molly la ingaggiasse per
pedinare il chitarrista della sua band preferita, i Tokio Hotel. Prima
di allora non aveva nessuno, era sola al mondo, e l’unico
vero amico che aveva era Dylan, ma anche lui lo vedeva raramente. Poi
aveva conosciuto Bill, Tom, di cui si era innamorata, la stessa Molly,
aveva recuperato i rapporti con Dylan e sua madre… E ancora
Michael, Andrew, Bryant, il quale alla fine si era redento davvero,
sacrificandosi per salvare la maggior parte degli agenti coinvolti in
quella maledetta operazione; Lionel e Carter, gli unici amici che non
avevano mai pensato di tradire suo padre e che alla fine
l’avevano aiutata a dargli giustizia.
La sua famiglia dilaniata era cresciuta a dismisura e le aveva cambiato
la vita. E gliel’avrebbe cambiata ancora, grazie
all’esserino che portava in grembo e per il quale,
già lo sapeva, avrebbe dato tutto quanto, ogni goccia di se
stessa.
Abbassò lo sguardo sulla mano che teneva sul ventre e
sorrise dolcemente, con le lacrime che le pungevano gli occhi.
«Tom?».
Il chitarrista abbassò lo sguardo su di lei e
l’abbracciò per la vita, le labbra sulla sua
fronte. «Uhm?».
«Dovremo chiamare anche tua madre. Secondo te sarà
felice di diventare nonna?».
Tom ridacchiò ed annuì, prima di baciarla sulla
bocca. «Quanto sei stupida ».
Grace accennò una risata insieme a lui, posando il viso
contro la sua spalla. Oltre i vetri neri come la pece delle finestre,
sui quali poteva benissimo scorgere il loro riflesso, le parve di
vedere un’altra figura. Lentamente, avvolto da una luce
bianca e tenue, riuscì a scorgere con chiarezza il suo
sorriso compiaciuto, i suoi occhi amorevoli e velati da una
più che ben sopportabile malinconia.
Una lacrima le scivolò sulla guancia quando suo padre, Mitch
Schneider, si voltò e sparì
nell’oscurità dopo averle rivolto un cenno
d’assenso, una specie di benedizione.
«Grazie», mormorò con il sapore salato
di quella lacrima tra le labbra, arcuate in un sorriso mesto.
«Di cosa?», le domandò Tom tra i
capelli, con tutte le ragioni del mondo per pensare che si fosse
rivolta a lui.
Grace gli posò un morbido bacio sul collo e lo tenne ancora
stretto a sé.
«Di tutto», bisbigliò. «Di
tutto».
FINE
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Buongiorno gente!
Scusatemi infinitamente per il ritardo - mia reazione stamattina di
fronte al calendario: "C***o è martedì e non ho
postato ancora l'epilogo!". Sono stati giorni intensissimi, mi sono
completamente scollegata dalla realtà... Soprattutto ieri,
quando dopo ore ed ore di attesa e agonia ho visto i miei fantastici
Bastille... Okay, questo non vi interessa, quindi la pianto.
Anche questa FF è finita e ora mi sento piuttosto svuotata,
quasi come Grace senza il suo caso... Ma mi riprenderò anche
io come lei, con il tempo :) E poi il vostro sostegno sempre costante,
le vostre recensioni, le vostre presenze... è stata una
gioia per me condividere con voi questa mia piccola opera di fantasia e
cuore. E un grazie non basta. Avete un pezzo del mio cuore ora,
abbiatene cura come avete fatto fino ad adesso :') Vi voglio bene,
tutti quanti (siete troppi per ringraziarvi tutti uno per uno, ma voi
lo sapete che vi sono davvero infinitamente grata).
Spero che come finale sia stato all'altezza e chissà, magari
un giorno ritroveremo Grace, Dylan e tutti gli altri in un sequel...
non si può mai sapere ;)
Ah, una cosa interessante che volevo dirvi a proposito del titolo.
Perchè l'ho intitolata "Bring me back to life"? Beh, l'idea
di questa FF prima era un po' diversa, di carattere soprannaturale...
infatti Grace nella primissima bozza, per i primi capitoli, moriva dopo
una notte passata con Tom, il quale l'avrebbe ritrovata e avrebbe visto
il suo fantasma desideroso di vendetta e di giustizia. Avrebbe fatto il
piccolo detective guidato da lei, in pratica! xD E ora come ora sono
felice di aver cambiato totalmente versione, non sarebbe stata
altrettanto bella xD
Ancora una volta grazie e niente, ciao a presto :3